Sono onorata per il compito assegnatomi, parlando per prima, di inaugurare lo scambio clinico, teorico ed epistemologico che ci attende.
La cosa che più mi è piaciuta nell’argomento propostomi da Paola Brizzolara e Alberto Lorenzini ormai un anno fa, ciò che mi ha subito attratta ed agganciata, oltre al fatto che direi loro di si a priori sempre, in quanto li stimo e sono loro molto affezionata, è stato il modo in cui, secondo me giustamente, hanno posto il problema, e cioè a partire da esemplificazioni cliniche.
Ritengo infatti, come era tradizione per i nostri illustri predecessori, i pionieri del nostro campo, che la verifica della coerenza tra prassi clinica e riferimento teorico vada facilitata “in modo che una particolare attenzione alle eventuali modifiche tecniche al riferimento teorico e ai parametri introdotti nella situazione clinica”, possa evidenziare modi” -e nodi- “teorici che richiedono ulteriore elaborazione e/o una ulteriore sistemazione della teoria” (PSU, righe introduttive alla rubrica Casi Clinici, a cura di Nella Guidi e Billa Zanuso). Se dovesse prevalere invece il metodo inverso, ci ritroveremmo nel terreno dell’ “in questi casi si fa così”, molto di moda oggi, perché rassicura soprattutto i giovani giustamente in cerca di guida e di maestri, dove la tecnica assume un peso eccessivo, impoverendosi spesso in un rigido applicare la teoria alla prassi, dimenticando il soggetto-paziente e l’anima stessa della psicoanalisi.
Prima di addentrarmi nel mio intervento, desidero fare una notazione. Nel titolo si parla di diversi saperi, “incrociare i diversi saperi”. Io faccio questo mestiere in una scuola di specializzazione in psicoterapia, ma non sto qui a presentare un sapere: io rappresento me stessa, il mio sapere per come si presenta oggi. Presento anche le vicissitudini del mio sapere da quando ero una timorosa allieva che credeva che se faceva certe cose sarebbero state cattive o sbagliate, ad oggi.
Mi piacerà confrontarmi con i colleghi su questo punto, perché per me questi saperi sono tutti filtrati attraverso le persone. Posso dire, e lo farò senz’altro, quali sono le afferenze del mio percorso formativo, ma in sostanza non accetto la separazione tra questi saperi.
Le mie varie afferenze vanno dalla conoscenza del pensiero freudiano a quello relazionale ed interpersonale, ma all’interno di questo il punto è che nella realtà clinica ritengo che ciascuno di noi abbia un sapere di base riguardo a come opera nel concreto delle sedute.
Tenendo presente tutto questo, avrebbero potuto esser fatte due cose: o cercare di ridurre gli accadimenti di seduta alla teoria, rischiando di cadere in quel fenomeno di cui sono stati sempre accusati i diversi indirizzi presenti nel nostro settore, ovvero quello di selezionare i dati per farli coincidere con l’apparato teorico di riferimento, accusa che è stata fatta anche allo stesso Freud, oppure, come è stato fatto, cercare di vedere nella realtà clinica che cosa e in che misura i comportamenti concreti del terapeuta siano o meno in coincidenza con la prescrizione della teoria, e in che misura siano filtrati invece attraverso quelli che i puristi chiamerebbero inquinamenti del sapere di base. Se così non fosse stato, saremmo andati a definire i vari indirizzi davvero come se fossero dei corpi separati.
Insomma, mi piace che oggi si parta con l’osservazione clinica concreta, a qualsiasi indirizzo essa appartenga, passando per il filtraggio attraverso la persona. In questo la trasformazione clinica sta nell’operazione di previsione fatta da quel terapeuta in quella seduta, in cui è guidato da una serie di fattori che non sono i saperi.
In sostanza, se parliamo di “Unione dei saperi” è come se ammettessimo implicitamente che essi sono frammentati in psicoanalisi, e che si assiste al trionfo dell’appartenenza ai saperi.
In questa sede, permettetemi dunque di precisare che preferisco pensare che 5 di noi si incontrano e si raccontano come si sono arrangiati «oltre la siepe dei saperi». E l’accenno al Leopardi non è casuale: oltre la siepe, infatti, si può percepire l’infinito.
A questo punto, sperando che siamo tutti d’accordo con quanto ho detto, abbiamo due linee possibili: una che passa più o meno attraverso gli enunciati teorici generici dei nostri riferimenti, che possono essere eventualmente anche plurimi e non ricondursi a un indirizzo piuttosto che a un altro, l’altra che riguarda quanto il nostro agire terapeutico sia variato nel tempo, cioè dire cosa avrei fatto un tempo in un caso e cosa non mi sarei sentito di fare in quello stesso caso.
Ciascuno di noi ha sicuramente attraversato un’epoca di sottomissione dottrinaria rispetto a quello che oggi si sente di fare e dire e non avrebbe fatto né detto allora. Quindi un aspetto composito di esperienza clinica che ciascuno di noi si porta dentro e che ci vedrà oggi a confronto sull’altro binario parallelo, che è quello dello spiegare attraverso la presentazione di qualche vignetta clinica che cosa abbiamo fatto e in che misura questo è filtrato dalla nostra equazione personale.
Sempre onorando questa sorta di apertura dei lavori concessami, devo dire che questo punto di osservazione scientifica ed epistemologica, va inquadrato a mio avviso anche dal punto di vista sociologico. Anche se i meccanismi di sottomissione continuano a funzionare in tutti gli indirizzi e nella maggior parte delle scuole, assistiamo tuttavia ad una diminuzione complessiva della sottomissione al rapporto d’autorità: per esempio, non a caso si poté cominciare a chiamare psicoanalisi quello che prima doveva essere chiamato psicoterapia rispetto alle patologie gravi. Ricordiamo che questo fenomeno comparve subito dopo la morte di Freud, cioè dagli anni ’40 in poi, in cui si tentò di cambiare il rapporto di autorità sia con la teoria sia con i suoi rappresentanti carismatici. Noi che partecipiamo a questo Seminario siamo analisti di settima o forse ottava generazione, comunque nella fattispecie una generazione intermedia, tra i 50 e i 60 anni più o meno: mi aspetto che ci confrontiamo in nome di questo spirito di liberalità.
Perciò, quando tra poco presenterò la mia vignetta, dirò non tanto cosa ho fatto adesso ma ciò che 20 anni fa non avrei osato fare e perchè.
Paola Brizzolara e Alberto Lorenzini mi hanno chiesto di esemplificare cosa ritengo terapeutico del mio personale modo di lavorare. Partirò quindi con poche parole circa la prospettiva teorica all’interno della quale mi muovo, per andare poi a cercare di sostanziare teoreticamente il mio personale modo di muovermici all’interno, ovvero come ho adattato al mio stile personale la prospettiva teorica relazionale ed interpersonale, per finire con la vignetta clinica richiesta, in cui cercherò di evidenziare quanto il mio agire terapeutico sia variato nel tempo, quindi cosa avrei fatto un tempo e cosa non mi sarei sentita di fare.
Il punto di vista teorico condiviso da molti interpersonalisti consiste nell’ipotesi di un conflitto universale  tra il desiderio di rimanere all’interno di configurazioni familiari interiorizzate e la lotta per la libertà, la separazione e l’individuazione. La concezione interpersonale della psicopatologia fa riferimento alla necessità di adattarsi e integrarsi a situazioni familiari problematiche e allo stato di ansia legato all’emergere di tali configurazioni come riflesso del tentativo di salvare le persone significative e non perderne l’amore: questi adattamenti di compromesso si strutturano inconsciamente e sono continuamente attualizzati come replica di esperienze passate interiorizzate. “I problemi personali non sono da ricercare in ciò che accadde nel passato di per sé ma nella ripetizione del passato nella vita presente”.
Su questa base, la tradizione interpersonale si è caratterizzata sin dall’inizio per la sua attenzione particolare alla relazione attraverso i concetti di campo interpersonale e di osservazione partecipe. In questo modello, costituito più che altro da una serie di approcci diversi alla teoria e alla pratica clinica, viene costantemente sottolineato che partecipare è inevitabile, e l’effetto che l’abbracciare questo punto di vista produce consiste in un focus centrato sulle dinamiche transfert-controtransfert. L’indirizzo interpersonale ha sempre valorizzato la rilevanza tecnica del terapeuta come persona. Ricordiamo come Sullivan, nel trattamento psicoterapico di psicopatologie anche gravi, rimanesse costantemente vigile rispetto al proprio controtransfert, non coltivando mai l’illusione di poter non essere coinvolto emotivamente, considerandolo una precisa fonte di informazioni sull’andamento del processo terapeutico e sul paziente. In sostanza, il terapeuta viene inevitabilmente invaso da produzioni affettive proprie indotte dal paziente che danno una coloritura peculiare ad ogni trattamento e stimolano l’analista a decodificare la situazione della quale anch’egli è parte integrante. La capacità del clinico dipende prevalentemente dalle sue risposte soggettive, dal suo stato d’animo, i suoi sentimenti

  1. Paziente ed analista si influenzano sempre reciprocamente. (L’attenzione di Wolstein è portata sui due sé separati, mentre Levenson accentua il coinvolgimento dell’analista nei confronti del paziente.)
  2. L’enactment controtransferale e/o l’intenso coinvolgimento emozionale dell’analista sono inevitabili e necessari per la riuscita della cura.
    Anche se involontariamente, l’analista è preso dal processo interazionale.
  3. Il controtransfert è spesso scoperto solo dopo l’enactment o il coinvolgimento. L’enactment reciproco è sempre finalizzato alla cura. Il cambiamento avviene in fase di post-enactment (Hirsch, 1995).

L’attività analitica (diagnosi, comprensione della storia del paziente, decisione della fine analisi), dunque, riflette inevitabilmente la soggettività dell’analista. Senza questa partecipazione personale, la psicoanalisi diventa potenzialmente artificiosa e soprattutto intellettualistica.
L’accettazione della partecipazione controtransferale affettiva ed interattiva porta gli analisti interpersonali ad usare con una certa libertà i dati dell’esperienza personale come strumento di comprensione del paziente. Sebbene manchi un criterio sicuro per stabilire quanto appartenga al paziente e quanto all’analista, si ritiene che l’autoanalisi dell’analista porti a cogliere dati significativi del paziente e la considerazione dell’interazione arricchisca il processo.
In ambito interpersonale, insomma, essere un buon analista non implica obiettività, ma una sviluppata facilità nell’usare se stesso per porre domande adeguate e fare interventi connotati affettivamente. Degno di nota è il fatto che per gli interpersonalisti l’analista è solo più allenato ad usare la propria esperienza personale.
“Se l’analista resiste alla realtà interattiva, la relazione muore o diventa esercizio intellettuale”. (Wolstein, 1975)
Questo, quindi, per ciò che riguarda il sapere di base a partire dal quale mi muovo.

Ora, sappiamo che i fattori terapeutici hanno occupato l’attenzione della psicoanalisi sin dagli inizi, come ho accennato in apertura. Basti pensare in proposito ai due congressi di Marienbad, nel ’36, e di Edimburgo, nel ’61, dedicati proprio all’approfondimento di questo argomento. Come ricorderemo, i fattori terapeutici da sempre ritenuti tali sono la comprensione e l’attaccamento, cui più tardi si unirà l’integrazione, per arrivare a stabilire, al di là di ogni appartenenza, che l’attaccamento favorisce l’integrazione ed è una forma di comprensione. (Friedman, 1988)
La domanda da un milione di dollari cui siamo qui chiamati a rispondere allora è: a quali componenti soggiacciono i fattori terapeutici?, ovvero come, con cosa, in che modo otteniamo o possiamo ottenere il loro effettivo funzionamento? In sostanza, qual è il “vero meccanismo d’azione” della terapia psicoanalitica? Si può quantificare? O si può comunque valutare?
E in che rapporti questo qualcosa sta col “soggetto” che lo esercita? Ed infine, che cosa ritengo terapeutico del mio modo di lavorare? E in generale del lavoro analitico?

Per rispondere a tutte queste domande, voglio ora parlarvi di quella che Heinrich Racker, che fu il primo a riconoscere il controtransfert come espressione della patologia del paziente, per primo chiamò «equazione personale»: “è importante che il terapeuta riconosca la propria equazione personale, cioè il modo in cui reagisce a determinate situazioni o comportamenti o emozioni con una relativa persistenza e stabilità.” (pg.169).
Questo caratterizza, come sappiamo, l’«identità terapeutica», che a mio avviso si declina attraverso la tolleranza dell’incertezza e necessita di un “soggetto” che la eserciti, per cui tutta la discussione sulle istituzioni entro le quali viene “formato” tale soggetto e come, che altrove ho affrontato in profondità (Loiacono, 2011, 2013).
L’«equazione personale» è in sostanza quel residuo di personalità che è rimasto non risolto, o che non è risolvibile, dall’analisi.
Ritengo che l’«equazione personale» sia un concetto molto utile al nostro scopo, e che esso affranchi del tutto, liberi dalla staticità il concetto di fattore terapeutico. Almeno per quanto mi riguarda, rappresenta l’obiettivo più importante da raggiungere per esempio nel lavoro di supervisione: aiutare i terapeuti, giovani e non, a capire e utilizzare al meglio la propria «equazione personale», per lavorare in scioltezza e sentendosi a proprio agio, dando il meglio.
All’interno di questo, la propria equazione personale ha bisogno comunque a mio avviso di un tagliando di revisione abbastanza periodico. Teniamo presente che Freud, in Analisi terminabile e interminabile (1937), aveva sostenuto l’importanza, per chi pratica la professione analitica, di sottoporsi ogni 4/5 anni ad una tranche di analisi e ricordiamo pure che Schafer (1983), ne L’atteggiamento analitico, sosterrà che terapeutico non è l’analista ripulito ma quello che non fa interferire la propria nevrosi nella relazione col paziente.

Detto questo, cosa ritengo fattore rilevante dalla mia equazione personale?
Ho cercato di fare un esame di coscienza quasi nella direzione degli esercizi prescritti da Sant’Ignazio de Loyola per la Compagnia di Gesù e “ovviamente” ho potuto ricostruire vari momenti della mia equazione personale terapeutica, momenti che hanno subito molte variazioni nel corso della mia vita e con caratteristiche che, anche se posso riconoscerle abbastanza stabili nel loro complesso, sono variate nel tempo e in alcuni momenti mi hanno resa più capace di lavorare con una certa patologia che invece in altri momenti non riuscivo nemmeno a tollerare.
Devo dire che sono meridionale, un incrocio tra Calabria e Puglia, trasportata piuttosto giovane al nord. Non sono riuscita a tutt’oggi ad educare un fondo di  passionalità immediata con la quale devo convivere. All’inizio non è stato facile, lo consideravo, e molti supervisori me lo facevano considerare, un difetto da correggere. Ci ho provato in molti modi, a correggerlo, attraversando tante tappe di insicurezza, spendendo un sacco di soldi per farmi educare e rieducare, sempre con la sensazione di essere un caso incorreggibile, e che in fondo non sarei mai diventata una vera analista. Poi man mano nel corso degli anni è accaduto il miracolo: quello di diventare sempre più sicura nel lavoro terapeutico, ricavandone grandi soddisfazioni, e di muovermi con sempre maggiore scioltezza, proprio quando si avvicina l’età della pensione.
Nel frattempo, avevo visto di colpo voltare pagina alla trasparenza dell’analista per cui la sbracatura analitica finiva col diventare addirittura un pregio e raccontare i fatti propri in pubblico una prerogativa da grande analista.
La cosa non mi piace in questi termini, per cui, mentre per molti anni avevo lavorato su me stessa per cercare di essere poco trasparente, adesso sono costretta a scoprire i vantaggi e il piacere della riservatezza rispetto ai racconti pubblici sulla propria infanzia e i propri traumi.
Entrando nel merito, ho pensato di presentare un caso che ho in trattamento dal 2009 e di fare uno schema in parallelo di quello che ho fatto e sto facendo e di come avrei fatto 15 anni fa su indicazione degli esperti di allora. Mi permetto di farlo ora che, avendo ormai molta esperienza clinica, posso riconoscere di non essere un esperto e quindi di poter insegnare a colleghi più giovani come muoversi nell’esperienza di lavoro quotidiano.
Mi sento insomma abbastanza sicura per la raggiunta capacità di arrangiarmi nelle situazioni difficili. Se devo sintetizzare in una frase il mio pensiero, ritengo che per decenni la nostra professione è stata caratterizzata dal rendere patologiche le possibili situazioni di rapporto normale con la vignetta dell’analista silenzioso e impenetrabile, dove anche un normale gesto può prendere la dimensione mitica come se Giove scendesse di colpo dall’Olimpo e chiedesse a un tizio per strada indicazioni per raggiungere l’acropoli. Ritengo che un po’ meno di mitologia dell’analisi, non solo quella cosiddetta ortodossa ma quella eventualmente appartenente a tutte le parrocchie, e un po’ di dissacrazione ci permettano meglio di bere in santa pace quando abbiamo sete e di essere più vicini a coloro della cui sofferenza ci dobbiamo occupare.

Ecco quindi, entro questa cornice, il materiale clinico che ho selezionato.

CASO CLINICO DI M.

M., 16 anni. In analisi con me dal gennaio 2009 a una seduta alla settimana.

<>Il coming out di M. con i genitori, li portò a contattarmi perché seriamente preoccupati per il suo futuro, sia a causa della sua omosessualità sia per l’andamento scolastico meno che mediocre del figlio, il quale sognava invece di interrompere il liceo per dedicarsi allo studio per divenire direttore d’orchestra. Ai genitori pareva impossibile che, non riuscendo ad applicarsi al normale studio scolastico richiesto (a gennaio aveva già fatto 40 assenze al liceo classico che frequentava!), M. riuscisse invece in quello, a loro parere molto più complicato, di direttore d’orchestra.Le ragioni più profonde del loro rivolgersi a me erano tuttavia di natura diversa, come emerse dai miei colloqui con loro, prima di vedere il ragazzo, che in quel momento aveva da poco compiuto 16 anni. Il padre aveva sempre temuto di avere figli per paura che, se maschi, divenissero omosessuali. Riguardo a questo suo timore, adduceva tanto la consapevolezza delle ingiustizie e delle discriminazioni talvolta violentemente subite dai gay, quanto soprattutto il ricordo, risalente alla sua gioventù, di un suo conoscente di grande talento artistico, morto suicida, per impiccagione, proprio a causa dell’ostracismo sociale di cui era pesantemente fatto oggetto. La madre, invece, appariva dispiaciuta per il dolore del marito, ostentando una certa nonchalance di tipo cultural-progressista, ma palesando di avere avuto molti problemi  di incomunicabilità con il proprio padre. Mi fu evidente, attraverso il suo dire, che fosse sempre stata molto impaurita dall’universo maschile.

Seduta del 12/03/09

“Mi viene il sospetto che la mia omosessualità sia un modo di rifugiarmi in un comportamento per evitare le relazioni. Io ho problemi di relazione”.
Mi sembra così serio, e anche sofferente, mentre dice queste cose, ma la mia paura è che M. cerchi di capire da ogni mio gesto, parola, azione, sguardo, come io lo voglio, cosa io vorrei da lui.
Perciò gli rispondo complimentandomi per aver riflettuto così profondamente, è evidente che ci ha pensato molto durante quei giorni per arrivare a quelle affermazioni, che si è applicato a cercare di capirsi. Non saprei però, continuo, se la sua omosessualità possa addirittura essere il paravento che gli attutisce le sue problematiche relazionali. Può essere, certo, ma non lo sappiamo ancora.

Nella seduta seguente viene fuori che M. ha avuto una fugace love story con una ragazza tedesca, ospite a casa sua in quel periodo, che si era invaghita di lui.

1 anno dopo…
10/06/2010

E’ stato promosso! Mi comunica che la settimana successiva non ci sarà perché, per premio alla promozione piena (successo che ottiene per la prima volta da quando è al liceo, e che arriva dopo mesi di seria preoccupazione di essere addirittura respinto), va a passare alcuni giorni nella casa di campagna dei genitori, con alcuni compagni di classe e L..
L. è l’amico del cuore (ne ha un altro, G.), col quale c’è stata intimità erotica e sessuale, benché L. abbia una ragazza e non si dichiari omosessuale, come invece M. fa da quasi due anni.
Tornando a M. e al suo rapporto con L., bisogna aggiungere che la base del loro rapporto è sempre stata l’amicizia e non la passione. Hanno pure avuto un rapporto a tre con una amica comune, cosa che a M. è piaciuta. Ricordo di aver ascoltato contenta quando mi aveva raccontato del menage a trois sperimentato, in quanto mi pareva che pian piano M. stesse consentendosi di fare le sue esperienze sessuali, come ampliando la sua curiosità per la vita, oltre a venire maggiormente in contatto con la sua bisessualità. Non ho avvertito la morbosità e quel che di perverso che sentivo quando l’ho conosciuto, in giro per discoteche gay a cercare un partner occasionale soprattutto per cercare di capire quanto potesse piacere, come conferma cioè al suo corpo di maschio attraente in erba. Si considerava bruttino e privo di attrattive, infatti. Nella realtà, al nostro primo incontro M. a me apparve un acerbo adolescente dallo sguardo insicuro, quasi impaurito, che dimostrava anche qualcosa meno dei suoi 16 anni; attualmente lo trovo un bel ragazzo, con sguardo molto intelligente e begli occhi chiari.
Nella seduta di cui ci stiamo occupando, tengo a fissare con lui di recuperare, la settimana successiva al suo soggiorno in campagna, la seduta che avremmo perso. M. dichiara di non aver tanta voglia di andarvi, non ricordo bene perché, ma probabilmente non gli sembrava che la cosa potesse riservargli sorprese di sorta, ulteriori conoscenze ed esperienze.

Seduta successiva.
Arriva con gli occhi luminosi. Mi accorgo che sono circa due mesi ormai che ho la sensazione di avere davanti un giovane uomo, non più un ragazzino con movenze isteriformi, scimmiottanti un femminile forzato e un po’ ridicolo, come capita con certi omosessuali. Si siede e, guardandomi come se stesse per rivelarmi qualcosa di sensazionale, mi dice: “Mi sono innamorato!”. Sono felice per lui, ma la sorpresa c’era davvero, perché si trattava di una ragazza, sua compagna di classe.
Credevo si trattasse di un maschio mentre lo sento dire che si chiama Fiorenza, e mi meraviglio a pensare che in effetti dentro di me sono felice perché mi parla per la prima volta di sentimenti e non solo di attrazione, di estetica, di corpi e di forme senz’anima.
Mi porta un sogno: “Sono a New York, con L. e l’amica americana (che lo ha realmente ospitato l’anno scorso). Sono felice, sto bene, ma ad un tratto penso che purtroppo non rivedrò mai più i miei genitori né mia sorella. Mi assale la tristezza di questa cosa ineluttabile.”.
Mi guarda. Non posso trattenere lo sguardo che sicuramente carpisce nel mio viso nel vis-a-vis: mi sembra un bellissimo sogno di separazione, e, benché sappia quanto si soffre nelle separazioni, mi sembra un segnale importante, che mi commuove.
Credo che se M. avesse accettato il lettino (ci aveva provato, su mio invito, ma aveva poi optato per il solo vis-a-vis), avrei potuto evitare – forse! ma non lo sapremo mai – di interpretarglielo, lasciando che il processo continuasse col suo flusso spontaneo, ma lui stesso mi chiede di tradurgli il mio sguardo, che comprendeva all’unisono commozione, gioia e insieme il sottile strappo che si avverte quando non puoi fare nulla per alleviare la sofferenza dell’altro, anche se sai che essa costituisce segnale di crescita.
Così gli restituisco le mie impressioni immediate, con tanto di riferimento a me per ciò che atteneva al simbolo New York, come coincidenza del suo inizio di cammino personale, affrancato dalle aspettative genitoriali, tramite l’identificazione con me. Alcuni mesi dopo l’inizio del trattamento, infatti, io ero andata a NY per lavoro; dopo la fine della scuola, M. era riuscito ad andarci anche lui, tornandone entusiasta e soddisfatto. Degno di nota è il fatto che là M. ha comprato un quaderno per annotarvi i sogni.
Solo in seguito, riflettendoci, ho colto che il suo sogno contiene anche un inizio di separazione da me, percepita inizialmente soltanto nello strappo viscerale che avevo avvertito nel corpo.
La seduta finisce con me, questa volta, che catturo un suo sguardo, un attimo di malinconia che mi pare gli attraversi il volto. Dice di non averne mai più parlato a nessuno, e forse non vorrebbe farlo neanche con me adesso, quasi ha evitato di pensarci, ma gli ritorna forte il dispiacere di dover rinunciare al suo sogno di diventare direttore d’orchestra. Ogni volta che ci pensa gli compare davanti il volto di suo padre convinto che sia una follia, un votarsi al fallimento e alla povertà perenni. Pochi giorni prima lo aveva sentito rispondere ad un amico di famiglia in modo inequivocabile circa l’università che M. avrebbe fatto dopo il liceo. Gli si era stretto il cuore. Mi confida di sentirsi disperato al pensiero di non poter nemmeno provare, almeno. Lo dice in modo così diverso da un anno e mezzo fa! Così mi racconta che si tratterebbe di decidere entro il prossimo gennaio per iscriversi ad una scuola del nordeuropa, che gode ottima fama. Mi sembra che sia un sogno percorribile, se lui in cambio dimostra di impegnarsi responsabilmente nella scuola e per il suo futuro. Sono certa che, messa in questo modo, anche i genitori non ostacoleranno in modo così risoluto l’iniziativa, perché lui la propone diversamente.

Qualche mese dopo…
Mi racconta che il rapporto sessuale con una donna gli sembra “più naturale, più facile e più soddisfacente” di quello con un ragazzo, ma al contempo confessa di sentirsi attratto maggiormente dal bel corpo nudo di un maschio.
Di nuovo cattura nel mio sguardo le riflessioni che andavo facendo, e mi chiede. Gli rispondo che pensavo al nutrimento che un Sé debole e ferito trova nell’avvicinare se stesso tramite l’approfondimento della conoscenza di un altro uguale, e alla diversità dell’esplorazione e dell’intimità con l’altro differente, riguardo al genere, come spinta verso il mondo fuori, dopo la certezza di quello dentro.
In sostanza, ma questo tra me e me, pensavo al richiamo dello specchio e alle riflessioni di Sullivan sull’esperienza dell’intimità, quando essa viene trasferita da una persona dello stesso sesso ad un’altra di sesso opposto. Mi attraversavano la mente i conflitti che il desiderio sessuale (“il dinamismo più potente nelle relazioni interpersonali”) scatena, all’inizio dell’ultima fase dell’adolescenza, da una parte al livello del mantenimento del senso di sicurezza e dall’altra della realizzazione del bisogno di intimità.

Dal punto di vista clinico emergono tanti spunti in queste vignette che distano tra loro di un anno e di alcuni mesi. Mi soffermerò soltanto su una questione tecnica rilevante che ho selezionato.
Dieci anni fa non avrei mai esplicitato nulla circa il viaggio a NY, fatto per andare al White, sede storica dell’interpersonalismo, portando con me allievi e colleghi, non avrei mai interagito in quel modo. Invece, in questo caso mi è sembrato ovvio farlo per essere così in consonanza con lo sviluppo di M., avvertendo questa mia rivelazione non come il rischio di una fusionalità col paziente ma per mostrargli il modo in cui io agisco e quello che faccio, mostrandogli il mio piacere nell’aver fatto questo, legittimando così il suo nel farlo a suo modo e non come me. Ovvero, gli presento non la cosa come gestione a farla, ma il mio rapporto con la cosa, così lui trova il suo rapporto con le sue cose. Questo produce l’identificazione non con me persona, ma con il modo autonomo in cui io mi muovo: dichiarato in quel modo, autorizzo lui a usare il suo. In questo modo l’identificazione è davvero un processo di autonomia del pensiero anziché di limitazione, facilita quindi un passaggio maturativo.
Il punto adesso non è: si può fare così o non si può fare così. Il punto è perché nella mia scelta ho fatto in quel modo e non in un altro. E’ importante riflettere su tutte quelle cose che si è tentato di sottoporre a regole e dobbiamo riconoscere che non ce n’è una che tenga davvero, una volta applicata al singolo momento del singolo caso, in quel momento di quel singolo caso e in quel momento della vita dell’analista. Ricordiamo per es. Greenson (1967, 1972), per il quale l’assenza doveva essere in simmetria con la quantità di tempo che l’analista stava via, e c’erano una serie di precetti da osservare al riguardo, regole. Ricordiamo anche Meltzer (1967): tutta una generazione di analisti inglesi, italiani e americani, anche se meno, ha creduto alle regole di Meltzer, col vestito grigio, la camicia bianca, lo studio senza nessun segnale perché sennò si perdeva la neutralità. Una intera generazione di analisti italiani e più generazioni di analisti inglesi, hanno adottato quelle regole.

Un’altra questione clinica simile che intendo sottoporvi riguarda non direttamente una vignetta, bensì la discussione fatta su un caso clinico da me portato il 9 Marzo scorso fa ad un seminario che ho tenuto per la Società Italiana di Psicoanalisi Interpersonale.
Non entro nel caso in sé, dico solo che in quella occasione avevo esposto il mio modo di agire dopo aver ascoltato il primo sogno che un paziente mi portava, alla sua quinta seduta. Si trattava di un paziente al suo quarto tentativo di analisi, che usava molto la razionalizzazione benché percepissi il suo bisogno di poter lasciar andare le difese e abbandonarsi con fiducia. Era molto cerebrale e auto interpretativo.
Gli rimando le mie sensazioni sul suo sogno, sottolineando che non si tratta di un’interpretazione, per mostrargli attraverso l’esempio diretto cosa possa voler dire lasciarsi andare ad associare senza la fretta di sancire un significato, anche se a voce l’invito in tal senso l’avevo fatto più volte.
Ciò che voglio sottolineare è che lui mi porta questo sogno e secondo me il modo che ho io di restituirglielo gli da la possibilità di potersi rilassare e andare nella direzione delle fantasie, imparando che il sogno si può costruire, si può evocare, ci si può lasciar trascinare in un incontro possibile con se stessi. Con uno che ha già fatto tre tentativi di trattamento, abortiti tutti…
Poche sedute dopo, il paziente mi riferisce di aver letto che non è vero che si sogna di più in analisi perché si mette in atto un processo, si sogna e basta, ed è stato dimostrato dalle neuroscienze che non c’entrano nulla gli eventuali simboli. I sogni non vogliono dir nulla insomma, e lui c’è rimasto male.
Ovviamente vedo in questo un tentativo di svilire il lavoro fatto sul suo sogno poco tempo prima, per cui gli dico: “mah, può darsi, che le neuroscienze abbiano ragione e che mi sbagli io, ma è strano che in 30 anni di esperienza mi sia sempre capitato invece di assistere a questa cosa. Sarà anche vero, ma a me piace pensarla così!”
In questo modo, ma lo dico molto tempo dopo, interpretando ciò che ha prodotto il mio modo di fare, che è dipeso dal mio modo di essere, mi sono levata anche dalla competizione con le neuroscienze e non mi sono posta come intellettuale che pensa e sciorina le sue competenze, magari facendole cascare dall’alto come se stesse rivelando il sapere, col risultato, davvero disastroso per l’analisi, di instillare il timore di me, il timore di contraddirmi e di offendermi. Non perché ci abbia riflettuto sopra, ma perché mi é venuto di fare così ed ero completamente a mio agio.

Nella discussione durante il seminario cui accennavo pocanzi, un collega ha espresso il suo contributo dicendo che secondo la sua equazione personale avrebbe lasciato più spazio alla resistenza venuta fuori attraverso le neuroscienze. Secondo lui, quella era la prova che il paziente mi aveva sentito intrusiva. Lui sarebbe quindi stato in silenzio per almeno tre o quattro sedute, per capire meglio il significato profondo dell’affermazione del paziente e per non rischiare di essere ancora più intrusivo.
Questo è un commento sul quale ho da ridire da molti punti di vista.
In primis, non va bene dire “secondo la mia equazione personale io avrei agito così”: questo è in realtà un giudizio, altrimenti non si è compreso il concetto di equazione personale. Non si può sapere cosa si sarebbe fatto in quella situazione. Ovvero, per interagire in questo senso, bisogna vedere innanzitutto se riesco a carpire come si muove il flusso di coscienza della persona, perché se si va sui contenuti si danno invece dei giudizi di valore, che sono in realtà attribuzioni personali. Bisognerebbe vedere soltanto il movimento, altrimenti ciò che il terapeuta ha fatto o detto potrebbe sempre essere interpretato in un altro modo, ovvero il paziente poteva voler dire questo, e un altro direbbe no, il paziente voleva dire quest’altro, etc.. Ma come stabilisco che sono vicina a ciò che sta davvero accadendo nel caso in questione?

Un altro aspetto sta nella parvenza di maggiore serietà di certe affermazioni. Voglio ricordare che tutto è comunque un’azione. Wittgestein (1953) scriveva che le parole sono anche atti. Noi aggiungiamo che anche i silenzi sono comunicazione, quindi atti. Allora non c’è solo da spiegare perché io, che mi riferivo a sensazioni personali precise che mi rimandavano una richiesta implicita del paziente a condurlo in quel momento, ho ritenuto di procedere restituendogli le mie sensazioni –rischiando certamente di poter essere intrusiva-, ma dovremmo anche spiegare perché tre o quattro sedute in silenzio e non due o cinque, per esempio. Non c’è solo il rischio di essere intrusivi, c’è anche quello di essere algidi. Ricordiamo quanti danni ha fatto l’analista “neutrale”, quante ferite narcisistiche ha provocato.

Per quanto mi riguarda, ritengo che se si guarda il movimento e la forma e non il contenuto allora restiamo dentro al processo analitico, perché assistiamo a come man mano vengono sperimentate le emozioni che si manifestano con l’aspetto verbale, il non verbale, l’atteggiamento etc…

Voglio chiudere il mio intervento con una specie di appello: se riteniamo che l’idea forte chiamata psicoanalisi, che ancora si colloca tra le maggiori sfide del pensiero, abbia ancora da dire alla condizione umana ben oltre la cura di malattie e disturbi, smettiamola di muoverci per spartiti, usciamo dalla logica del “si fa così” e torniamo a confrontarci sulla clinica “oltre la siepe dei saperi”.

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