Il percorso personale e professionale che mi ha portata a diventare psicoterapeuta nell’Approccio Centrato sulla Persona, mi ha dato il privilegio di operare sia come professionista delle relazioni di aiuto in contesti di ascolto che di counselling e psicoterapia. Credo che sia necessario specificare che quello che oggi considero un privilegio, l’ho vissuto come un tallone di Achille per molti anni. Il mio percorso di studi e professionale è quello di parecchie persone della mia età che non sono passate dalla facoltà di psicologia perché al momento della scelta universitaria la facoltà era nuova, o ancora non esisteva, o non era ritenuta interessante. Il mio avvicinamento è stato graduale e basato sulle esperienze, esperienze di vita che, un po’ alla volta, alcune volte in modo drammatico, mi hanno fatta entrare in contatto con l’utilità, non mi viene in mente nessuna altra parola più efficace, che percorsi di consapevolezza e riflessione sul proprio modo di essere potevano avere per esseri umani su cui niente altro sembrava poter fare breccia. Si è trattato di un percorso parallelo che mi ha messo in contatto con i programmi di recupero per tossicodipendenti e, in un secondo momento, con il lavoro di anni in un centro di recupero, e con le vicende scolastiche ed umane, di ragazzi in età di scuola media superiore a cui insegnavo dal lontano 1977. E’ così che sono arrivata all’I.A.C.P. Per anni mi sono trascinata dentro il peccato originale di non avere una laurea specifica e devo alla mia determinazione a fare fronte alla carenza, ed alla pazienza più che decennale del mio supervisore, la possibilità di guardare al mio percorso come ad un privilegio che ha i suoi limiti e le sue risorse. E’ con timore e tremore che mi accingo ad affrontare il tema di questa relazione a cui penso da tempo e che nasce dalle riflessioni di questi anni e dalla possibilità che ho avuto di essere o essere stata persona che ascolta, counsellor e psicoterapeuta. Si tratta di riflessioni che nascono anche dal confronto con colleghi del nostro stesso orientamento teorico e di orientamenti anche molto diversi da questo, e sono in debito con tutti loro come con tutti i clienti che attraverso l’esperienza di vita che portano nel mio studio mi danno continuamente la possibilità di verificare cosa funziona e cosa non funziona, nel senso di cosa facilita e cosa non facilita. Direi che la massima “I fatti sono amici” rimane un importantissimo punto di riferimento che mi guida sia nella professione che nella vita di tutti i giorni. La domanda fondamentale che mi sono fatta e che continuo a farmi è: cosa rende possibile nell’A.C.P. utilizzare la stessa metodologia sia in un contesto di ascolto che di counselling e psicoterapia, mentre così tanti approcci ritengono necessario individuare il setting ed anche la diagnosi per definire le strategie di intervento? Eppure noi sappiamo che sia il nostro approccio che altri sono efficaci. Non dedicherò altro tempo e spazio al confronto con altri approcci, la riflessione che propongo parte anche dai confronti ma si basa su quello che nell’utilizzo dell’A.C.P. mi sembra di avere rilevato.
Parto con quelle che sono le mie esperienze dell’oggi, momento della mia vita in cui la stragrande maggioranza del mio tempo-lavoro è dedicato alla psicoterapia. Negli anni ho visto persone che hanno portato sofferenze molto diverse tra loro, alcune con problematiche più recenti e superficiali, altre con problematiche nate molto in là nel tempo e molto più radicate nella loro struttura di personalità. Quando dico superficiali non intendo usare il termine in senso riduttivo bensì in senso descrittivo e quindi proprio come “stare più in superficie”, con maggiore facilità di accesso alla coscienza ed alla consapevolezza,. Molte delle persone che incontro, invece, hanno da molto tempo costruito il loro modo di essere intorno a costrutti che hanno avuto la loro ragione di essere ma che, con il tempo, sono diventati la sola musica che quelle persone sanno suonare,. La suonano in modo ripetitivo, “coatto” come dice un mio cliente che riconosce in sé la coazione a sentire in un certo modo prima ancora di pensare e di agire di conseguenza. O, forse, dovrei dire che sentiva, perché oggi riconosce tutto questo, lo sente nel qui ed ora delle sue esperienze di vita e può liberamente pensare e scegliere.
L’utilizzo delle condizioni necessarie e suffìcienti promuove la crescita-cambiamento di individui così diversi tra loro? Come è possibile che, insomma, si possa usare la stessa cura per qualunque tipo di malattia, per usare termini medici che credo possano rappresentare meglio di qualunque altro il problema, così come io stessa lo vedo?
Desidero partire dalla fiducia nella tendenza attualizzante, con un pensiero ad Anna Gagliardi, uno dei Maestri che mi hanno portata fin qui, quando in momenti di supervisione durante il corso di specializzazione chiedeva, con semplicità “Ma tu, ti fidi dell’altro?”. Insomma, ci credi nella possibilità di chi ti sta di fronte di trovare dentro di sé le risposte che sta cercando, di cui forse non è nemmeno consapevole? Ci credi profondamente che la persona che ti sta davanti non ha bisogno di te come di una guida ma di un accompagnatore che conosce la strada perché l’ha vista sulla cartina ma non sa dove tu metterai i piedi, che percorso sceglierai di fare e tanto meno dove andrai esattamente, e quando ti vorrai fermare? Ti fidi? Ce la fai ad affidarti alla saggezza interna di quella persona che oggi è così sofferente, che vuole cose diverse per sé nella sua vita, che magari pensa di avere sbagliato tanto ma che, allo stesso tempo, è lì davanti a te a cercare le sue risposte dimostrando anche solo con questo la saggezza che la anima? Ci credi che qualunque siano state le sue scelte ha comunque cercato di rispondere ai suoi bisogni fondamentali, che ha forse sbagliato le ricette ma che i suoi bisogni sono buoni e saggi? Accogliere il postulato di base dell’Approccio è la reale conditio sine qua non, senza la quale avremo bisogno di sapere più dell’altro, di guidare l’altro e di sostituirci a lui nella definizione di quello che è buono per lui fosse pure solo in termini di definizione delle strategie operative.
E’ questa fiducia che ci permette di rimanere fermi ad aspettare che l’altro scelga la direzione da prendere, in un colloquio, nella terapia, nella sua vita. E questo lo facciamo sia che siamo lì come insegnanti in un Centro di Informazione e Consulenza, sia che siamo in un Centro di Ascolto e Consulenza ad offrire counselling sia che siamo nel nostro studio privato ad offrire psicoterapia. E’ questa fiducia che ci permette di accettare anche passi che a nostro parere sono sbagliati senza tremare troppo, senza sentirci inefficaci; è questa fiducia che ci permette di rispettare le difese dell’altro e dargli il tempo di cui sente il bisogno.
A volte mi chiedo perché un Cliente non propone di concludere la terapia, mi interrogo se ho co-creato un rapporto di dipendenza, se sto comunicando in qualche modo che potrei non essere d’accordo. A volte succede che l’autoanalisi o la supervisione, tra pari o con un supervisore, mi fanno sentire e vedere che sì, ahimè, è così; molte altre volte ho osservato con stupore e commozione che il Cliente, con la sua saggezza, sapeva di volere esplorare ancora aree della sua vita che non aveva voluto toccare non perché le percepiva prive di importanza ma perché minacciose per il proprio Sé e, quindi, si stava dando del tempo, il suo tempo.
Secondo punto che ritengo fondamentale, nella nostra visione che propone ” un modo di essere “nei diversi setting, è la valutazione della qualità dell’alleanza terapeutica.
Non tutte le persone che si rivolgono a noi ci piacciono nello stesso modo, a volte alcune ci piacciono troppo poco, a volte altre ci piacciono troppo. Generalmente non ha a che fare con loro ma con noi e con le nostre storie di vita e con i nostri vissuti. Siamo in grado di ammettere francamente che forse non siamo lo psicoterapeuta più adatto alla persona che ci sta davanti? Siamo in grado di valutare se non ci sono approcci che riteniamo più adatti del nostro a facilitare la persona rispetto ai bisogni che esprime? Siamo altrettanto disponibili a guardare senza paura se ci sembra che la persona che abbiamo davanti sta davvero scegliendo e non sta facendo una scelta di ripiego come può accadere se, per esempio, il nostro nome è stato consigliato da un’amica che ha lavorato bene con noi, ? Il Cliente sta usando un criterio di valutazione diverso dal suo e non si sta fidando del suo sentire che potrebbe fargli percepire che non ritiene possibile un’alleanza terapeutica con noi? Siamo in grado di facilitare anche un processo di questo tipo a costo di perdere il Cliente? Siamo cioè davvero capaci di mettere l’interesse del Cliente, e la percezione del Cliente, davanti ai nostri bisogni senza colpevolizzarlo? In una parola, siamo capaci di essere onesti con noi stessi e con chi ci sta davanti? Sappiamo che se non si stabilisce un’alleanza terapeutica, la possibilità, per il Cliente, di percepire un clima facilitante sarà pesantemente danneggiata. Il nostro fine è la promozione dell’autoconsapevolezza in un percorso in cui la persona si senta libera di fare un viaggio dentro al suo Sé; come può farlo se non ci percepisce alleati affidabili in questo viaggio?
La valutazione dell’alleanza terapeutica ci rimanda inevitabilmente all’ accettazione positiva incondizionata, all’empatia ed alla congruenza con la possibilità della trasparenza.
Per quanto riguarda la prima delle tre, mi sembra di poter dire che è la base dell’alleanza terapeutica. Non la comunichiamo mai verbalmente ma il nostro modo di essere nella relazione risente fortemente della nostra capacità di accettare incondizionatamente l’altro con la sua esperienza.. Quando dico “risente” , penso al linguaggio non verbale nelle sue manifestazioni più sottili, spesso involontarie e proprio per questo più significative. Se noi siamo davanti al Cliente con una posizione interna giudicante, potremo avere delle confessioni, se la persona è abituata a subire il giudizio degli altri, potremo avere delle ribellioni, se la persona è sensibile al giudizio e non lo accetta , potremo, quindi, avere reazioni molto diverse tra loro ma, tra tutte, nessuna che abbia a che fare con l’alleanza terapeutica così come noi la intendiamo,:un’alleanza tra due esseri umani, uno che è lì con un ruolo professionale ed un altro che è lì in un momento di sofferenza e bisogno, che costruiscono la possibilità di collaborare per raggiungere gli scopi del Cliente in un clima che offra prima di tutto rispetto alla persona Cliente . Sappiamo bene che solo un reale clima di accettazione permetterà alla persona di guardare anche gli aspetti di sé che maggiormente lo spaventano, o di cui si vergogna, o che svaluta. Senza l’accettazione positiva incondizionata l’abbassamento delle difese che permette la ristrutturazione dei costrutti, semplicemente non è possibile. Mi sembra di non avere altro da aggiungere alla necessità di verificare con noi stessi se sentiamo di potere accettare la persona per quello che è, senza volerla modificare a nostro piacimento anche se non ne approviamo i comportamenti. Sappiamo bene che l’accettazione è, se possibile, più eterea delle altre condizioni e solo se la viviamo profondamente può arrivare al nostro interlocutore in modo autentico. Non è un proclama quello che può fare sentire una persona accettata profondamente per quello che è ma, come ho già detto, la comunicazione non verbale e le nostre spontanee modalità di interazione. Le altre condizioni, empatia e congruenza, possono veicolare in modo più esplicito l’accettazione ma sappiamo che anche questo a volte non basta perché ci sono persone che non immaginano neanche di potere essere profondamente accettate e che avranno bisogno di tempo e, a volte, anche di metterci alla prova. Possiamo accettare anche questo, che l’altro ci veda attraverso il filtro delle sue esperienze pregresse senza sentirci sminuiti e continuando ad accordargli fiducia ed accettazione? Possiamo avere la pazienza ed il coraggio di accogliere l’altro e di valutare se possiamo essere compagni di viaggio, incoraggiandolo ad esplorare anche la possibilità che così non sia? Proprio perché il nostro è un approccio che non offre strategie e metodi, nel senso comune della parola, proprio perché è una metodologia così inestricabilmente legata al nostro modo di essere ed a come veniamo percepiti nella relazione terapeutica, da parecchi anni ho preso l’abitudine, alla fine del primo colloquio, di invitare la persona a chiedersi se vuole tempo per valutare se fissare un nuovo appuntamento. Comunico che la qualità della relazione tra noi sarà di fondamentale importanza per il percorso che potremo intraprendere e che sarebbe un peccato ed una perdita di tempo non farsi questa domanda prima possibile; cerco di facilitare l’altro a sentirsi in diritto di dire che vuole pensarci. Ci riesco? Spero di si, altro non posso dire. Comunico anche che se ci rivedremo proporrò altri tre incontri e che al quarto appuntamento faremo il punto, in modo che la persona possa valutare il da farsi e che io possa dire con maggiore sicurezza se credo di potere essere io la persona giusta per chi mi sta davanti.
Quattro incontri possono sembrare tanti, anche in termini economici, ma non sono una perdita di tempo. Vengono utilizzati per definire meglio la domanda, per raccogliere la storia di vita, per accogliere l’urgenza di sentimenti e situazioni. Come è ovvio, il contenuto dipende dai bisogni che la persona manifesta ma, allo stesso tempo, mi pare che permettano a chi, spesso per la prima volta, chiede dei colloqui, di farsi un’idea di cosa si può aspettare e davvero di valutare se si sente di potersi fidare della persona –terapeuta. Mi pare un buon investimento, vista la complessità di una terapia, senza che sia una perdita di tempo perché i bisogni che emergono in queste prime sedute servono anche a valutare l’intervento di elezione. Può succedere che si verifichi che la richiesta è di counselling, per esempio, o che sia opportuno inviare da un collega psichiatra o da un collega che per approccio o per altre ragioni può essere più utile al Cliente. Rimane, comunque, che la persona ha, a mio avviso, più possibilità di scegliere se vuole lavorare con me o no. All’inizio della professione temevo di potere essere percepita minacciosa se specificavo che anche io avrei valutato se ero la persona giusta. Oggi vedo che se questo viene detto con una intenzionalità pulita, viene quasi sempre percepita per quello che è: il tentativo di essere onesti. Quando, molto raramente nella mia esperienza, così non è, se ne parla, ci si lavora. A proposito di “intenzionalità del terapeuta”, desidero citare Barabara Temaner Broadley, Presidente del Chicago Counselling Center, quando in un incontro presso l’I.A.C.P. di Roma (28 settembre 2002) ,ha detto.” Le tre condizioni è meglio pensarle in termini di attitudini, e questo fa la differenz atra una tecnica manipolativa e una tecnica centrata sulla persona. La differenza è data sostanzialmente dalla intenzionalità del terapeuta. Fra esseri umani è impossibile non avere tecniche o contenitori. La Terapia Centrata sul Cliente si differenzia per l’intenzionalità, per l’attitudine del terapeuta, per la fiducia nel cambiamento del Cliente”. Torniamo sempre al “ modo di essere”.
Il nostro è un lavoro che prevede la capacità di stare con quello che non sappiamo cosa sarà, e quindi non tutte le opzioni sono prevedibili. Mi sembra inevitabile, a questo punto, evidenziare una caratteristica che, pur appartenendo a molti approcci, se non a tutti, è particolarmente significativa nell’A.C.P. Noi siamo lo strumento del nostro lavoro. Possiamo fidarci di noi stessi tanto da non volere per forza definire tutte le opzioni? Possiamo credere in noi stessi tanto quanto basta per sapere che se lavoreremo in scienza e coscienza nell’interesse del Cliente saremo in grado di affrontare le imprevedibilità che ci sono nei rapporti umani da persona a persona?
Abbiamo due strumenti preziosi per farlo, l’empatia e la congruenza.
L’empatia, così come viene intesa nella nostra formazione, è uno strumento potente. Ci permette di entrare in contatto con l’altro e di facilitare il contatto dell’altro con sé in un modo che risulta spesso sorprendente per i Clienti stessi. La possibilità di guardarsi nello specchio che il terapeuta offre attraverso i vari tipi di rimandi empatici, concretamente permette di vedersi meglio, da più angolazioni, in modo più autentico; facilita quindi la definizione di obiettivi legati ai propri autentici bisogni che attraverso l’ascolto empatico possono finalmente emergere. Non starò qui a definire l’empatia, c’è chi lo ha fatto molto meglio di come io potrei farlo. Mi preme, invece, evidenziare il potere diagnostico dell’empatia. Nella presentazione di Relazioni Ferite di Anfossi e Verlato, Gianluca Greggio fa il punto su cosa molti rogersiani oggi pensano della diagnosi. Come per tutto il resto, la mancanza di rigidità ci permette oggi di accogliere la diagnosi come una possibilità di lavoro se è nell’interesse del Cliente e del lavoro terapeutico che stiamo facendo con lui. L’importante è non vedere la persona attraverso una diagnosi ma considerare la diagnosi la possibilità di descrivere una parte di quella persona che è molto più ricca di qualsiasi definizione. Proprio perché mi pare che non ci siano rigide contrapposizioni su questo punto, sento maggiormente il desiderio e la libertà di parlare del potere diagnostico dell’empatia. Credo, se mi posso permettere un paradosso, che nessun approccio abbia mai fatto diagnosi più dell’A.C.P. L’empatia, ovvero la capacità del terapeuta di vedere il mondo dal punto di vista dell’altro, come se fosse l’altro senza mai perdere la condizione del “ come se”, non è forse la possibilità di vedere come la persona interagisce con se stessa, con gli altri e con il mondo? E questa, non è una diagnosi? Ecco, credo che, quando andremo a parlare del counselling questo punto ci tornerà utile. E’ la nostra capacità di essere empatici che ci permetterà di cogliere il possibile stile di attaccamento della persona, i suoi probabili Modelli Operativi Interni, le rigidità o le aree di lassità, le difese che chi ci sta davanti sembra utilizzare. Essere empatici ci farà comprendere che uso fare della nostra empatia perché forse in qualche caso la dovremo dosare e in qualche altro la potremo esprimere compiutamente, sempre nell’interesse del Cliente. Ci fideremo, ancora una volta, della capacità del Cliente di autodescriversi e ci fideremo della nostra capacità di cogliere le aree di incongruenza.
Ultima per ordine, e prima per importanza, la congruenza del terapeuta. La congruenza è la condizione che ci permette di sapere se sentiamo autenticamente di accordare fiducia alla persona che ci sta davanti, se davvero stiamo accettando l’altro incondizionatamente o no, la congruenza è la condizione che ci permette di stare accanto all’altro e non essere trascinati inconsapevolmente altrove dai nostri vissuti, la congruenza quindi è la base dell’empatia, quella reale, che non è tecnica ma modo di essere. La congruenza sola fa sì che, continuamente, possiamo monitorarci e chiederci se stiamo applicando un metodo o se ci stiamo proponendo con un modo di essere, all’interno della relazione terapeutica, che è il perno che regge la coerenza interna del nostro approccio.
La congruenza, così come ho cercato di definirla, da sola può non bastare se non è accompagnata dalla capacità di essere trasparenti. La capacità, non la libertà di essere trasparenti. Rogers è chiaro ed illuminante su questo punto più che su altri. Noi, nello svolgimento della professione, abbiamo il dovere della trasparenza ogni volta che riteniamo che essere trasparenti può facilitare il Cliente. Il criterio è, quindi, semplice. Siamo in grado di essere trasparenti, di farci vedere anche per quello che ci suscita la relazione con la persona che ci sta davanti? Siamo in grado di essere trasparenti senza la voglia di celarci? Siamo in grado di essere trasparenti senza essere aggressivi? Credo che questo sia un punto su cui dovremmo lavorare di più nella formazione sia degli psicoterapeuti che dei counsellor. Quello che vediamo dell’altro, quello che sentiamo nella relazione con l’altro non ci appartengono, sono della persona che ci sta davanti e se esserne messo a parte può facilitare il suo processo di crescita, abbiamo il dovere di aprirci all’altro.
Anna diceva “ Il nostro è un approccio difficile”, ed aveva ragione. Non c’è tecnica che ci salvi, e che salvi i nostri Clienti, se perdiamo di vista l’importanza del nostro modo di essere secondo la proposta, per niente modesta, cha Carl Rogers ci ha fatto.
Ho lavorato per dieci anni circa, in un Centro di Ascolto e Consulenza e, contemporaneamente, nei Centri di Ascolto presso scuole medie superiori, una sullo stesso territorio del Centro di Ascolto ed un’altra, invece, in un diverso comune. Faccio formazione e supervisione a colleghi, operatori psico- sociali ed insegnanti che lavorano negli sportelli nelle scuole, anche di ordine e grado diverso da quello in cui ho lavorato direttamente, e ai volontari nel carcere di un’associazione molto radicata sul territorio pisano. Credo di avere fatto un’esperienza abbastanza lunga da poterne ricavare delle osservazioni sul counselling e sull’ascolto e, in particolare, sul counselling secondo l’Approccio Centrato sulla Persona che è il nostro punto di interesse.
La prima osservazione che propongo è che accogliere una persona in un contesto di counselling è più difficile che accoglierla in un contesto di psicoterapia, ragione per cui ho sempre condiviso la serietà con cui il nostro Istituto forma i counsellor ed il contratto formativo che propone: un biennio che abilita a lavorare nel proprio contesto lavorativo ed un terzo anno che abilita alla professione libera.
I centri di consulenza sono, per loro natura, strutture che offrono servizi a bassa soglia, chiunque può arrivare in modo semplice, senza troppi passaggi intermedi. Spesso sono gratuiti, proprio per facilitare l’accesso delle persone a cui si è pensato di offrire il servizio.
Questo significa che la varietà delle problematiche e l’entità della sofferenza delle persone che si rivolgono ad un centro di counselling , sono entrambe variabili significative. Al counsellor si rivolgono adolescenti con difficoltà relazionali ma anche adolescenti con un disturbo del comportamento alimentare; donne alle prese con decisioni difficili per la loro vita matrimoniale e persone così sofferenti da apparire fortemente inadeguate a svolgere il loro ruolo genitoriale; arrivano i ragazzi in crisi rispetto alla loro definizione sessuale come pure quelli che mettono a rischio la vita. Spesso le persone vengono per loro scelta ma molte volte sono stati inviati e quindi va verificata la loro motivazione: ultimo per ordine, ma non per importanza, il counsellor può fare meno paura dello psicologo e può capitare che si preferisca passare da lui invece che dai servizi sanitari quindi possono arrivare anche drop out dei servizi di salute mentale.
Tutto questo, da solo, fa pensare che bisogna offrire ai counsellor una formazione molto solida. I counsellor nel nostro approccio, possono essere in grado di svolgere in scienza e coscienza la loro professione? Possono farlo senza travalicare i limiti del counselling? Ed è possibile, per tornare alla domanda iniziale, che il modo di essere che proponiamo per la formazione degli psicoterapeuti sia altrettanto efficace per i counsellor?
Credo di sì, e non sulla base di una fede ma sulla base dell’esperienza.
La differenza fondamentale tra la psicoterapia ed il counselling è che la prima ha come scopo la ristrutturazione della personalità e questo ha a che fare con il modo in cui una persona si relaziona con i propri sentimenti, con il suo grado di incogruenza, con la qualità dell’experiencing, con il livello e la qualità della sua comunicazione del Sé, con la ristrutturazione dei costrutti personali, con le modalità di affrontare i problemi e le relazioni personali, a volte anche con un lavoro sul proprio stile di attaccamento e sull’influenza che questo ha sui modelli operativi interni. Il lavoro che come rogersiani proponiamo è sul qui ed ora ma siamo disponibili ad accompagnare il Cliente anche nella rivisitazione del suo passato e dei legami che questo ha con il suo presente se è questo che desidera. La persona che giova del counselling è una persona che, invece, vuole ristrutturare una parte problematica che sicuramente si innesta sulla sua personalità ma che non necessita una ristrutturazione della personalità nella sua complessità rispetto al problema-bisogno che porta. Già dall’analisi della domanda e poi nel processo di ricerca delle proprie soluzioni rispetto ai bisogni che emergono, fino ad arrivare alla fase di verifica, il counsellor rogersiano metterà a disposizione il proprio “modo di essere” che è fatto di fiducia nella tendenza attualizzante, capacità di facilitare l’alleanza, con il counsellor in questo caso, congruenza, accettazione positiva incondizionata ed empatia perché in terapia come nel counselling, per le stesse ragioni che abbiamo visto in psicoterapia, sono questi gli elementi che facilitano l’autoconsapevolezza e l’acquisizione di potere personale. Sia come terapeuti che come counsellor, dobbiamo conoscere la mappa ma sarà il Cliente che sceglierà se percorrere la strada e fino a dove percorrerla. E se, invece, nel corso del counselling, dovesse emergere che non è quello l’intervento di elezione per il bisogno del Cliente, avremo fatto un buon intervento di counselling se l’ottica è che non siamo lì a fare problem solving ma a facilitare, sempre e comunque, la consapevolezza dell’altro rispetto alla sua vita ed alle sue scelte,
Mi sembra , a questo punto,, di poter dire che la capacità del counsellor di empatizzare con il Cliente per facilitare il suo processo di autoconsapevolezza rispetto alla definizione degli obiettivi, quello che ho precedentemente definito come “il potere diagnostico “ dell’empatia, sarà fondamentale nella fase iniziale come pure durante il resto del percorso che, sempre e comunque, tenderà a valutare la realisticità, nel contesto di counselling, dell’obiettivo che è stato definito. A questo proposito vorrei aggiungere che credo che uno dei punti focali della formazione dei counsellor debba essere l’acquisizione di una competenza molto specifica, il riconoscimento dei propri limiti di intervento. Proprio perché la metodologia legata al modo di essere risulta essere efficacemente la stessa che viene utilizzata in psicoterapia, e proprio perché i counsellor generalmente non sono psicoterapeuti, la capacità di definire i limiti , valutare cioè se l’intervento di elezione è il counselling, e non rischiare di andare “oltre” credo debba essere al centro della loro formazione.
Mi capita di sentire colleghi che esprimono preoccupazione rispetto al counselling e magari in particolare rispetto ai counsellor nel nostro approccio che vengono formati ed incoraggiati ad utilizzare la stessa teoria del cambiamento che viene proposta agli psicoterapeuti. Mi sento di poter dire che se non perderemo di vista il valore centrale di questo approccio, che è quello di incoraggiare quelli che vogliono diventare professionisti in questo approccio a diventare persone quanto più possibile congruenti, capaci di accettazione positiva incondizionata ed empatia, avremo a che fare con professionisti che saranno in grado di facilitare gli altri a definire i propri bisogni e, di conseguenza, la propria reale richiesta di aiuto. La definizione dell’obiettivo del Cliente , ristrutturazione della propria personalità o una richiesta più circoscritta che non richiede un cambiamento della struttura di personalità del Cliente, separerà senza dubbi il campo del counselling da quello della psicoterapia.
Quando, invece, entriamo nel campo dell’ascolto, quello che Pete Sanders chiama, a mio avviso efficacemente, ascolto di base secondo le modalità del counselling, siamo, nella stragrande maggioranza dei casi, davanti a professionisti di altri settori, che , nella sequenza sapere-saper fare-saper essere, per quello che riguarda il “modo di essere” che Carl Rogers ci ha proposto, spesso sono al primo di questi livelli. Conoscono il nostro approccio, a volte hanno letto libri che parlano dell’Approccio Centrato sulla Persona, hanno usufruito di brevi corsi di formazione tesi a creare soprattutto una sensibilità. Questi corsi, proprio per la loro brevità, non arrivano a verificare dei cambiamenti di lunga durata nei partecipanti. Certo ambiscono a promuovere un cambiamento. Questi professionisti, nello svolgimento della loro professione si trovano ad offrire ascolto. Non mi stancherò mai di ripetere che il ruolo di chi ascolta, anche una sola volta, una persona che chiede di essere accolta ed ascoltata, è un ruolo di valore. Qui spesso non ci sono obiettivi specifici, spesso non c’è il tempo per arrivare a definirli, magari non c’è neanche la disponibilità ad essere inviati. Spesso mi è capitato di sentire la frustrazione di chi ascolta come se “ascoltare e basta” fosse merce a buon mercato e quindi di poco valore. Le occasioni di essere ascoltati con interesse e con modalità rispettose, quali sono quelle che noi proponiamo, penso che siano esperienze niente affatto comuni e, proprio per questo, significative. Ascoltare è un dono che offriamo a fronte di una specifica richiesta. Non sapremo quasi mai come quell’ora o quelle poche ore che possiamo dare, entreranno a fare parte della vita di quella persona che ce le ha chieste, ma credo che possiamo gioire del fatto che l’altro ci ha permesso di incontrarlo in modo significativo e che, se lo vorrà, potrà fare l’uso che vorrà di quell’attenzione ricevuta e noi, se lo vorremo, potremo portarci dentro quell’incontro.
Relazione presentata al Congresso nazione dell’ ACP (Associazione per l’Approccio Centrato sulla Persona), Palermo, 3-4 Novembre 2007.
MARIANGELA BUCCI BOSCO.
Psicologa, psicoterapeuta rogersiana, vicepresidente dell’Associazione SCRIPT Centro di Psicologia Umanistica di Pisa, libera professionista.
Didatta in formazione nei trienni di specializzazione in counselling dell’Istituto Centrato sulla Persona (rogersiano). Si occupa di consulenza nelle scuole e di formazione. Esercita l’attività libero professionale a Pisa e a Santa Croce sull’Arno (Pisa).
E-mail: drmbucci@libero.it