Il primo dei sogni tipici e ricorrenti, elencati da Freud nell’Interpretazione dei sogni è quello relativo all’imbarazzo della propria nudità. Anche a me è capitato qualche volta di ascoltare questo motivo, ma certo non metterei questo sogno al primo posto in ordine di frequenza fra i sogni tipici e ricorrenti: qui possiamo scorgere, evidentemente, un piccolo cambiamento nella “psiche collettiva”, o meglio un piccolo cambiamento di carattere storico-culturale. Nessuno oggi s’imbarazzerebbe così tanto per la propria nudità, soprattutto se

per lo più, l’essere spogliati è così vago, che viene reso nel racconto mediante un’alternativa: «ero in camicia o in sottoveste» (Freud, L’interpretazione dei sogni , Opere, Boringhieri, vol. III, p. 226.)

C’è un aspetto, però, nel sogno tipico riferito da Freud, che mi ha sempre incuriosito e che, nel corso del tempo, ho effettivamente riscontrato con notevole frequenza nei sogni dei miei pazienti. Mi riferisco alla paralisi psicologica che impedisce al sognatore di agire come vorrebbe e di compiere l’azione da lui ritenuta necessaria per togliersi dalla situazione di pericolo o d’impaccio in cui si trova – in questo caso, rivestirsi e togliersi di torno. Come sapete, Freud interpretò il particolare della paralisi psicologica come strettamente collegato al tema della nudità: per dirla in breve, secondo lui si trattava di un impulso esibizionistico bloccato. Pulsione e difesa agivano contemporaneamente. Nel sintomo e nel sogno, Freud non vedeva mai l’espressione diretta, per quanto confusa, di un’esperienza psicologica soggettiva, ma la maschera, la difesa, la traccia di una verità che restava celata “altrove”, cioè nell’inconscio. Per questo motivo, Paul Ricoeur accomunava Marx, Nietzsche e Freud in quanto maestri della “scuola del sospetto”.[1]

Quello della paralisi psicologica del sognatore, che si scopre privato della capacità di reagire proprio in un momento critico, venendosi così a trovare in balia delle intenzioni altrui, costituisce il vero elemento onirico ricorrente e non è necessario collegarlo con il tema specifico della nudità e nemmeno con quello della sessualità, per quanto cercherò di dimostrare in seguito.

Lo spunto per queste riflessioni mi è venuto dall’ennesima ricorrenza dell’elemento psicologico onirico di cui stiamo parlando:

Mi trovo all’interno di un edificio pubblico, albergo o piscina. Sto inseguendo M. Forse ci siamo dati un appuntamento, forse semplicemente so che M. è passato di qui, che è da queste parti. Mentre attraverso un corridoio, mi accorgo di essere a mia volta inseguita. È un tipo dall’aspetto losco, semiparalitico, che cammina con un’andatura irregolare e si trascina un braccio. Mi rifugio nell’ascensore, mentre l’uomo guadagna terreno e si avvicina sempre più, con l’intenzione di avventarsi su di me. Dovrei premere subito il pulsante per chiudere le porte e sfuggirgli, ma il mio braccio è paralizzato e non si muove.

La paralisi della capacità di reagire nel modo opportuno in una situazione di emergenza, generalmente di tipo interpersonale: così ridotto ai minimi termini, si può dire davvero che l’elemento in questione ricorra piuttosto frequentemente nei sogni. Per esempio, una ragazza fa il sogno ricorrente di essere inseguita: quanto più cerca di mettere energia nelle gambe per sfuggire al suo inseguitore, tanto più le sente pesanti e lente, per cui la corsa si trasforma in un’andatura snervante da lumaca. Un uomo vorrebbe reagire, colpendo un antagonista che lo ha ferito moralmente nel peggiore dei modi, ma i suoi pugni si muovono al rallentatore e l’avversario non ne riceve alcun danno. Una variante è la paralisi della voce in una situazione di pericolo. Una bambina di 12 anni ha ripetutamente sognato che c’era un estraneo in casa: cercava di gridare, ma per quanti sforzi facesse la voce non usciva dalla gola. Una donna di 32 anni, dopo avere subito un maltrattamento sul lavoro che l’ha messa in una posizione di conflitto interiore, ha sognato due topi che bisticciano e s’inseguono sul suo letto. Vorrebbe gridare, ma non riesce ad emettere alcun suono.

La sognatrice del sogno riferito sopra per esteso, una donna di trent’anni, presenta un bisogno impulsivo e coattivo di piacere e, attualmente, M. è l’uomo a cui “vuole” piacere. Non posso negare che, in questo caso, l’elemento sessuale sia presente, esso anzi appare totalmente manifesto, ma un episodio accaduto qualche tempo prima del sogno ci mette sull’avviso di una spiegazione più sottile di questo elemento sessuale. Per caso, infatti, la donna era venuta a sapere da terzi della grande stima professionale che M. nutriva per lei. Questo la sorprese profondamente e bastò a calmarla per circa un mese: l’impulso a volerlo sedurre era misteriosamente scomparso, sostituito dal ricordo delle parole che le erano state riferite. Le ripeteva spesso, tra sé e sé, quasi incredula, rievocando il tono di voce col quale s’immaginava fossero state pronunciate e da questo esercizio d’immaginazione traeva in qualche modo la capacità di calmarsi, di riscaldarsi e di volersi bene. Ultimamente, però, l’impulso è ricomparso, tornando ad occupare un posto importante nei pensieri della donna. Utilizzando una spiegazione cavallo di battaglia della psicologia del sé, mi sembra di poter affermare che la sessualità seduttiva e impulsiva di questa paziente serva da veicolo, o meglio serva a contrabbandare un altro genere di bisogno, impellente e fondamentale, che non è di natura sessuale: intendo dire che si tratta di un fenomeno di sessualizzazione di un bisogno d’oggettosé [2]

Devo aggiungere che, corso della stessa seduta, la donna mi aveva già riferito come preambolo un altro sogno:

Sono incinta, poi ho già partorito. È un neonato molto carino e mi rallegro della mia fortuna, ma faccio male perché essa si capovolge subito. Il mio bambino è diventato adesso uno strano animale, un gufo, e mi becca.

La madre si rispecchia nel proprio bambino: nel luogo più ovvio, potremmo pensare, dove attingere una conferma del senso di sé. Ma qui si vede che la stabilità del sé, o meglio del nuovo volto, del nuovo riconoscimento di sé che in lei sta avendo luogo (una nascita), entra subito in crisi, perché questo autoriconoscimento non appare sufficientemente consolidato. Per rendere più comprensibile il sogno, bisogna aggiungere che nell’area geografica di appartenenza della sognatrice esiste l’espressione “gufare”, analogo del meridionale “jettare”, gettare il malocchio, rovinare la felicità e la fortuna che appartiene a qualcun altro e non a se stessi.

Nel sogno, la donna non cammina tranquilla, ma corre addentrandosi nel labirinto dei corridoi d’albergo come in un cortometraggio muto che io, chissà perché, m’immagino in bianco e nero: inseguendo M., agisce l’impulso di sessualizzazione del bisogno d’oggettosé da cui è dominata ed agita, cioè il bisogno di rafforzare quel senso di sé che non riesce a mantenere stabile. Insegue ed è inseguita. L’inseguitore potrebbe essere, per così dire, l’ombra del suo bisogno d’oggettosé, cioè l’oggettosé deficitario, colui che, avendo fallito nel proprio compito, ha fatto insorgere nel sé la vergognosa esperienza di non essere all’altezza del compito (professionalmente inadeguata). Questo gioco di specchi mi sembra, in effetti, meravigliosamente rappresentato nel sogno: la mano e il braccio dell’oggettosé che non sono stati capaci di sostenere e di rassicurare si sono trasformati nel deficit motorio dell’inseguitore, mentre il senso di tormentosa mancanza di validità del sé si concretizza nell’incapacità di reagire, di usare il proprio braccio e la propria mano. In questo senso, l’incapacità di reagire si presenta come una ferita che porta l’impronta dell’arma che l’ha causata.

Siamo abituati a pensare che la ferita inferta al sé dia luogo alla rabbia narcisistica. Si tratta di un fenomeno molto comune, al quale assistiamo anche troppo spesso e che raggiunge, a volte, dei livelli di spaventosa intensità. Mentre scrivo queste righe, mi arriva la notizia che a pochi chilometri da qui, in periferia di Pisa, un camionista di passaggio ha ammazzato a bastonate un signore anziano il quale, con la sua “Ape”, si era rifiutato di dargli la precedenza. Bisogna ammettere, però, che in altri casi la ferita inferta al sé produce delle conseguenze completamente diverse, di cedimento invece che di rabbiosa reazione. È il caso delle persone violentate che non sporgono denuncia e di coloro che, sopravvissuti agli orrori della guerra, soffrono di un male oscuro che impedisce loro di riprendere la vita normale e di rientrare nei soliti ruoli. Dalla mia storia personale, posso trarre un piccolo fenomeno psicologico, accaduto nella mia infanzia, di cui soltanto molto più tardi sono riuscito a darmi spiegazione. Mi accadeva talvolta che, essendo rimproverato da mia madre per qualche cattiva azione che non avevo commesso, mi imbarazzavo e arrossivo fuori dal mio controllo (cosa che non succedeva quando ero convinto della mia reale colpevolezza). Da ciò, mia madre poteva trarre la conferma che le sue accuse fossero fondate, per cui io arrossivo ancora di più, sprofondando in una spirale vergognosa che mi risultava incomprensibile e mi privava della capacità di argomentare in mia difesa. Penso, amplificando la cosa, ai dissidenti rinchiusi in carcere o in manicomio dai regimi totalitari: quanti di loro avranno goduto dell’impossibile salute mentale necessaria per evitare di fare il gioco dei loro persecutori?

Stolorow e collaboratori, sulla scorta di Kohut, hanno descritto mirabilmente la dinamica della reazione terapeutica negativa:

Il concetto di reazione terapeutica negativa è stato creato dagli analisti per spiegare quelle inquietanti situazioni in cui interpretazioni che si suppongono corrette in realtà peggiorano anziché migliorare lo stato del paziente. Classicamente, queste reazioni sfavorevoli ai ben intenzionati sforzi interpretativi dell’analista vengono attribuite esclusivamente all’azione di meccanismi intrapsichici interamente situati all’interno del paziente… in realtà, il paziente [va in crisi perché] percepisce le interpretazioni errate come grossolani fallimenti di sintonizzazione. Di conseguenza, al paziente vengono ripetutamente inflitti dei traumi la cui influenza è analoga a quella degli eventi patogeni della sua infanzia (Kohut, 1971; Stolorow e Lachmann, 1980).[3]

Come dice Stolorow, la reazione terapeutica negativa non s’identifica con la comparsa improvvisa di un’intensa aggressività nel transfert, ma con il “peggioramento” dello stato psicologico del paziente. Anche qui si ripropongono, in effetti, le due possibilità: l’espressione della rabbia narcisistica o il crollo della validità del sé.

Esporrò adesso brevemente una mia ipotesi riguardante l’origine di questa differenza. Mantenendo la spiegazione basata sul fallimento dell’oggettosé, io penso che nel primo caso, per essere fatto oggetto di attacco rabbioso, l’oggettosé deve poter essere riconosciuto come non totalmente identico al sé. Evidentemente, fa parte del concetto di oggettosé che l’oggetto sia percepito come parte non separata del sé, e Kohut paragona la rabbia narcisistica all’emozione che proveremmo se un nostro piede o una nostra mano volessero agire indipendentemente da noi. Egli però ammette uno sviluppo maturativo della relazione sé-oggettosé, che va dall’iniziale fusionalità arcaica ad una forma matura di legame con l’oggettosé, caratterizzata dall’esperienza della risonanza empatica e da un certo grado di riconoscimento dell’esistenza separata dell’altro.[4] Ebbene, la mia ipotesi è che la crisi di validità del sé, cioè il blocco che si riscontra nei sogni di paralisi come nei casi di insulto particolarmente grave all’integrità del sé, abbia luogo sulla base di un bisogno d’oggettosé più arcaico e decisamente fusionale. Quando, in una situazione totalmente insostenibile per la sproporzione delle forze in campo, il bisogno d’oggettosé diventa particolarmente drammatico, proprio allora si verifica uno slittamento verso la fusionalità. In questo modo, il fallimento dell’oggettosé diviene indistinguibile dal fallimento del sé e non è più possibile reagire verso l’esterno. Oppure, detto in altri termini, si verifica l’impossibilità di reagire contro qualcuno di cui c’è bisogno per tenere in piedi il sé e per dargli la capacità di reagire. Mentre nell’esplosione della rabbia narcisistica viene rivissuto e drammatizzato il fallimento di un oggettosé sufficientemente differenziato dal sé, penso che nell’improvvisa perdita della capacità di reagire venga invece drammatizzato il fallimento di un oggettosé vissuto ancora come puntello indistinguibile dal proprio sé. In questo caso, l’esperienza prende direttamente la via di un crollo della capacità di reagire. Viene meno il terreno sotto i piedi e la capacità manca proprio nel momento in cui più urgentemente ce ne sarebbe bisogno.

Questa forma di debolezza del sé, questa predisposizione a cedere e a subire, trova un’espressione più sfumata e nella qualità kafkiana caratteristica di molti sogni.

Nell’Oxford English Reference Dictionary (II Ed., 1996) troviamo la seguente definizione: Kafkaesque = (of a situation, atmosphere, etc.) impenetrably oppressive, nightmarish, in a manner characteristic of the fictional world of Franz Kafka.” Ma cos’é realmente quest’atmosfera oppressiva e inconfondibilmente persecutoria che Kafka, secondo l’ammissione dei critici, ha copiato dai sogni, mettendola a fuoco in maniera così perfetta da obbligarci per sempre a notarla e ad esserne acutamente consapevoli?

Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. Poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato… udì bussare e vide entrare un tale che non aveva mai visto in quella casa… “Chi è lei?” domandò K. Alzandosi subito a sedere sul letto. Quello però non tenne alcun conto della domanda, come se la sua comparsa fosse da accettare…

Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi… Le gambe, sottili da far pietà, rispetto alla sua corporatura normale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinanzi ai suoi occhi.

I due esempi che ho scelto riguardano, rispettivamente, l’incipit del Processo e l’incipit della Metamorfosi, due momenti di eccezionale potenza, nei quali il carattere “kafkiano” del testo si dispiega al massimo grado. Essi dimostrano, senza ombra di dubbio, che le inquietanti vicende che caratterizzano la prosa kafkiana saltano veramente fuori dal sonno: sono sogni che si concretizzano accanto al sognatore e lo aspettano al suo risveglio. Alla base della qualità dell’esperienza di sé di tipo kafkiano risiede, in definitiva, una particolare disponibilità ad accettare preliminarmente e senza riserve l’incomprensibilità e la disumanità del mondo intorno, una predisposizione a mettere in dubbio se stessi e non il mondo.

Riporterò adesso alcuni sogni di tonalità kafkiana. Ho scelto tre sogni, sognati a distanza di qualche mese l’uno dall’altro, da uno studente prossimo alla laurea, affetto da “ansia sociale”:

1) Qualcuno mi dice che, se voglio essere “ammesso”, devo fare tre giri di pista entro un determinato tempo. Non mi soffermo a chiedermi a cosa dovrei essere ammesso e comincio subito a correre. Ansiosamente, cerco di scansare la folla di persone che occupano la pista, evidentemente ignare dell’uso a cui è stata adibita. Grido loro di farsi da parte, ma non mi prendono sul serio. Inoltre, non ho le scarpe adatte. Sulla pista c’è sabbia e scivolo in continuazione. Alla fine, per quanto mi dicano che basta così, decido di fare ancora un altro giro, per maggiore sicurezza.

2) Sono in montagna, a ridosso di una pista di sci. Per la pista scende un pullman a tutta velocità. Salta e si schianta rovinosamente contro un albero. Afferro il cellulare e compongo il numero 113. Risponde una segretaria e mi dice che il numero è cambiato. Mi detta il numero nuovo che è lunghissimo e impossibile da ricordare. Decido di andare personalmente a protestare, ma mi smarrisco nel dedalo dei corridoi che dovrebbero condurre all’ufficio.

3) Esco da un pub sul lungarno insieme ad un amico. Gli propongo di fare footing ed egli accetta. Ad un certo punto, mi sfida ad una gara di corsa in salita, su per una lunga scalinata. L’amico corre e, mentre m’inerpico velocemente dietro di lui, mi accorgo della pericolosità dell’impresa. Vedo infatti il cielo davanti al mio volto. Questo mi fa capire che la scala è completamente verticale, una fragile impalcatura sospesa, senza nessun punto d’arrivo. Istintivamente retrocedo fino a terra. Guardo in su: l’amico è già altissimo. Penso che, se non ha paura lui, non devo avercene nemmeno io e sto già per costringermi e ritentare, quando egli precipita e si sfracella davanti a me, ai miei piedi della scala.

Un tratto particolare della psicologia di questo paziente è la necessità di non avere mai bisogno di nessuno, di cavarsela da sé in qualsiasi circostanza; cosa che ha creato qualche difficoltà all’inizio del trattamento (peggiorava dopo ogni seduta: vedersi venire da me lo portava ad una crisi del senso di sé). Quando falliscono le sue strategie di autosufficienza, viene invaso da un penoso senso di vergogna. Il non chiedere aiuto e l’ansia sociale potrebbero dipendere dell’incapacità di mettere in questione le richieste dell’ambiente circostante, anche quando si manifestano come pericolose o assurde (“non si sa mai cosa mi potrebbero chiedere”)? Il terzo sogno testimonierebbe, in questo senso, un piccolo miglioramento: il paziente si accorge in tempo dell’assurdità e del pericolo e riesce a reagire con una reazione istintiva di paura.

Tra i sogni dall’atmosfera kafkiana, vorrei inserire un altro sogno tipico, anche questo originariamente citato da Freud: “Il sogno d’esame”. In questo caso, si tratta davvero di un sogno che ricorre molto frequentemente. La prima spiegazione di Freud è abbastanza convincente: “Sono i ricordi indelebili delle punizioni inflitteci nell’infanzia per le nostre malefatte che si sono ridestate nel nostro intimo, in corrispondenza dei… punti cruciali dei nostri studi, nel dies iraedies illa dei severi esami” [7]. Certo Freud minimizza, parlando di punizioni e di malefatte e, d’altra parte, ciò è in linea con la spiegazione della nevrosi come conflitto fra pulsionalità (malefatte) e repressione culturale (punizioni). Penso piuttosto che i pazienti kafkiani siano stati messi tante volte, nell’infanzia, in un’incomprensibile condizione d’inferiorità, negando loro ogni possibilità di ribellione o di replica. L’esame è una situazione particolare, dove, quanto meno, quell’esperienza inquietante viene ripetuta in una forma che appare come dotata di senso e per questo accettabile, una situazione nella quale dipende da me l’esito e non mi vivo come totalmente succube.

Ma per quale motivo la psiche dovrebbe perpetuare la propria sofferenza e trasformare ripetute esperienze negative in un carattere, in un modo di essere, in una perseverante tendenza a ricercare, invece che rifuggire, la ripetizione di un passato così insoddisfacente e penoso? È necessario ipotizzare, come fece Freud, l’esistenza di istinto di morte all’interno della psiche stessa, che si esprime in una forma intrasformabile di masochismo primario? In realtà, la particolare disponibilità ad accettare preliminarmente e senza riserve l’incomprensibilità e la disumanità del mondo intorno e la predisposizione a mettere in dubbio se stessi e non il mondo di cui prima ho parlato si possono spiegare anche in un altro modo, senza bisogno di sconfinare dalla psicologia nella biologia o alla filosofia. Ciò a cui non ci possiamo contrapporre è ciò di cui abbiamo ancora bisogno per tenere in piedi il nostro sé. Quello che la psicoanalisi degli inizi ha spacciato per masochismo generalmente non è altro che una forma di attaccamento tramite sofferenza. A dimostrazione di ciò, valga ciò che scrive Ann Rasmussen, a proposito di quelle donne che fanno disperare il personale dei centri di accoglienza perché continuano a tornare dai partner che non smettono di massacrarle:

Quando vengono separati dai loro aguzzini, molti di questi soggetti sprofondano in un abisso di disperazione talmente acuta da cadere nelle depressioni gravi e non avere più un funzionamento normale… Molte riferiscono di essere incapaci di mangiare da sole, di scendere dal letto e interagire con gli altri. Come ha espresso uno di questi soggetti: “Quando eravamo separati non sapevo più come affrontare la giornata… il mio corpo dimenticava come si fa a mangiare, ogni boccone era come un sasso nello stomaco”. Gli abissi in cui affondavano quando erano sole non erano confrontabili con nessuno stato di disagio vissuto insieme ai loro compagni violenti.[8]

Note:

[1] “Se risaliamo alla loro intenzione comune, troviamo in essa la decisione di considerare innanzitutto la coscienza nel suo insieme come coscienza falsa. Con ciò essi riprendono, ognuno in un diverso registro, il problema del dubbio cartesiano, ma lo portano nel cuore stesso della fortezza cartesiana. Il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia così come appare a se stessa; in essa senso e coscienza del senso coincidono; di questo, dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi dubitiamo. Dopo il dubbio sulla cosa, è la volta per noi del dubbio sulla coscienza.” (P. Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, 1967, p. 47).

[2] “Gli oggettisé sono oggetti usati al servizio del sé… oppure oggetti che vengono sperimentati come parti del sé” (H. Kohut, Analysis of the Self, 1971, p. XIV). “Gli oggettisé sono quegli oggetti che sperimentiamo come parte del nostro sé. Il controllo che ci aspettiamo di avere su di essi si avvicina maggiormente al controllo che un adulto si aspetta di poter avere sul proprio corpo e sulla propria mente, piuttosto che a quello che si aspetta di avere sugli altri. Ci sono due generi di oggettisé: quelli che rispecchiano e rafforzano il senso innato di vitalità e di perfezione del bambino e quelli che il bambino può ammirare e con i quali può fondersi in un’immagine di calma, infallibilità e onnipotenza. Quelli del primo tipo sono gli oggettisé rispecchianti e quelli del secondo tipo corrispondono all’imago parentale idealizzata” (H. Kohut, The Search for Self, pp. 361-362). Traduzione mia.

[3] R. D. Stolorow e G. E. Atwood, I contesti dell’essere, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 110-111.

[4] P. Ornstein, in Why Self Psychology Is Not an Object Relation Theory: Clinical and Theoretical Considerations (pubblicato in Progress in Self Psychology, A. Goldberg Editor, vol. 7, The Analytic Press, 1991), ha addirittura proposto di eliminare completamente dalla psicologia del sé il termine di oggetto e di sostituirlo con quello di oggettosé maturo.

[5] F. Kafka, Il processo, Oscar Mondatori, 1994, p. 3.

[6] F. Kafka, La metamorfosi. Tutti i racconti, Oscar Mondatori, 1979, p. 157. “Gregor Samsa”, dice Kohut, “… è il bambino la cui presenza nel mondo non è stata benedetta dalla calda accoglienza empatica di oggetti-sé, è il bambino di cui i genitori parlano impersonalmente, alla terza persona singolare; e ora è una mostruosità inumana persino ai propri occhi” (H. Kohut, La guarigione del sé, Bollati Boringhieri, 1980, p. 250).

[7] S. Freud, L’interpretazione dei sogni, in Opere, vol. III, Boringhieri 1966, p. 254.

[8] Citato da Nancy McWilliams nella Diagnosi psicoanalitica, Casa Editrice Astrolabio 1999, p. 290.

Alberto Lorenzini
Medico, psicoterapeuta, bolognese di nascita. Formatosi inizialmente alla psicologia analitica junghiana, si è successivamente interessato alle relazioni oggettuali e alla psicologia del Sé di Kohut. Attualmente si riconosce nel movimento della Psicoanalisi Relazionale. Ha pubblicato diversi articoli su riviste specializzate e due libri: La psicologia del cielo e Lo Zen e l’arte dell’interpretazione dei sogni, entrambi presso le Edizioni Mediterranee. E’ membro della SIPRe (Società Italiana Psicoanalisi Relazionale). Esercita a Pisa continuativamente, da trent’anni, la professione privata di psicoterapeuta.
E-mail: alberto.lorenzini(at)gmail.com


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