Convegno OPIFER: “Morte e amore per la vita”. Ravenna 5-6 giugno
Triste anima passata
e tu volontà nuova che mi chiami,
tempo è forse d’unirvi
in un porto sereno di saggezza.
Ed un giorno sarà ancora l’invito
di voci d’oro, di lusinghe audaci,
anima mia non più divisa. Pensa:
cangiare in inno l’elegia; rifarsi;
non mancar più.
(Eugenio Montale, Ossi di seppia)
Cento e più anni or sono, Freud scoperchiò un bel vaso di Pandora, individuando nell’inconscio la sede del determinismo psichico. Copernico aveva decentrato la Terra, Darwin la specie umana e ora Freud quella coscienza consapevole di sé che, illuminata dalla ragione, avrebbe dovuto renderci tutti ugualmente signori, sovrani di noi stessi.
Cento anni più tardi, siamo ancora più disorientati. Non solo la Terra non è al centro dell’universo, ma l’universo ci appare assurdo nella sua inconcepibile vastità che pure sarebbe nata da una singolarità senza dimensioni, mentre il mondo materiale intorno a noi non ci sembra più quella cosa neutra e inesauribile da cui attingere e di cui disporre arbitrariamente per i nostri fini. Inoltre, dalla fisica è emersa la natura interattiva della realtà, motivo per cui a un certo livello di studio della materia scopriamo esattamente quello che noi stessi creiamo.
La nuova epistemologia si ripropone nelle scienze umane e soprattutto nella psicologia del profondo, la scienza dell’indagine intima, ingarbugliando questa disciplina più di tutte le altre.
Infatti, oltre che nei rapporti fra le particelle elementari, anche nei rapporti fra le persone ognuno è quello che è soltanto ad una certa distanza ed in prima approssimazione. Se ci avviciniamo di più, come per indagare il nucleo costitutivo, il modo peculiare di essere di una persona, non possiamo fare a meno d’interagire con esso e di alterarlo, se non addirittura di produrre, in certi casi, gran parte di ciò che andiamo ad osservare. Possiamo indagare i riflessi condizionati con un martelletto, ma per conoscere la trama sottile dei contenuti affettivi non abbiamo altro strumento di osservazione che l’immedesimazione partecipe.
Winnicott inventò il concetto di spazio transizionale, mentre Kohut elaborò la matematica di questo paradosso. La creazione dei concetti di “oggettosé” e di “rapporto d’oggettosé” mi ha sempre impressionato come un coniglio tirato fuori dal cappello. Siccome il Sé non vive al di fuori dell’atmosfera empatica creata dal suo oggettosé, si assume che lo stato di non distinzione fra il sé e l’oggetto sia la condizione psicologica vera, “normale” perché si dia l’integrità del Sé, cioè un soggetto. Tale condizione di non distinzione evolve da forme infantili arcaiche di tipo fusionale a forme più mature, di semplice risonanza empatica, ma non cessa mai del tutto. Non abbiamo bisogno d’ininterrotta comunione totale, ma possiamo vivere emotivamente soltanto in un mondo capace di parlare la nostra lingua, all’inter-no del quale i nostri significati valgono in quanto riconosciuti: in altre parole, non possiamo rinunciare alla risonanza empatica, l’ossigeno che i nostri polmoni hanno bisogno di respirare per mantenere l’integrità del sé.
Mentre per Winnicott lo spazio transizionale era un’illusione necessaria, per Kohut esso costituiva la realtà psicologica primaria. Quando il borderline riesce a stabilire un rapporto d’oggettosé con l’analista sufficientemente empatico (un rapporto di tipo fusionale, data la patologia in causa), egli smette di essere agito dalla “aggressività primaria”, e ritrova i propri sentimenti che sono configurazioni psicologiche complesse e non pulsioni.
Stolorow, Brandchaft e Atwood (1987) hanno descritto in termini relazionali e non istintuali la “reazione terapeutica negativa”, mentre Hoffman ha creato il concetto molto promettente dell’interdipendenza interattiva: «l’individuo è concepito come “co-creatore” o “co-costruttore” di realtà personali, dove il prefisso “co-” indica un’interdipendenza interattiva con il suo ambiente fisico e sociale» (Hoffman, 1998, trad. it.: pp. 47-49).
Mitchell sosteneva che il compito dell’analista non è quello di evitare, ma di accettare di cadere nei tranelli a lui tesi dalla nevrosi del paziente, perché la terapia consiste nell’esperienza a venirne fuori insieme (Mitchell, 1988, trad. it.: p. 267).
Io stesso ho sostenuto la necessità della crisi: qualcosa di più della sua inevitabilità. Soltanto nelle crisi s’incontrano quelle paure arcaiche e quei nuclei di follia che sono alla base del disturbo grave, perché essi si possono manifestare soltanto nella forma concreta di un intenso e coinvolgente “psicodramma” (Lorenzini, 2006). Se si potessero già incontrare e trattare tali contenuti in forma simbolica, è tautologico che il disturbo non sarebbe da considerarsi grave.
Ma a questo punto, ammessa la natura relazionale, l’interdipendenza e l’interattività di ogni fenomeno psicologico profondo, si è forse ammorbidita la dura realtà dei fatti, quel determinismo psichico, pietra dello scandalo e pietra angolare dell’edificio della psicoanalisi?
La mia tesi è che la psicoanalisi postmoderna, nella necessità di decentrare e decostruire il soggetto classicamente inteso, ha elaborato una versione debole della prospettiva relazionale, fondata sull’equivoco che l’interattività sia una proprietà esclusiva della relazione fra persona e persona, un fenomeno di natura prettamente intersoggettiva. Ma l’interattività caratterizza, prima di tutto, l’intima relazione fra il soggetto e se stesso, oltre che la sua relazione generale con il mondo, inteso come sfondo o ambiente terzo di ogni relazione duale.
Allora ripartiamo dal determinismo psichico e consideriamo il fatto che possiamo comunicare e intenderci gli uni con gli altri soltanto perché abbiamo un mondo in comune. È l’esperienza immediata delle cose che ci fa essere ciò che siamo e determina la nostra appartenenza al mondo: un ricco tessuto di coscienza preriflessiva che si organizza attorno alle percezioni. Come nella storia dell’universo, così anche nella storia dell’individuo, più si retrocede e più è densa la trama degli eventi.
Nel concetto “chiasmatico” del soggetto di Merleau-Ponty
«il chiasma è il rapporto che sussiste fra l’organismo e il suo ambiente, rapporto che non è riconducibile a quello fra due entità separate, ma una relazione dinamica di scambio fra due entità che sono sì distinte, ma inseparabili. Ne consegue che l’organismo non rappresenta un soggetto che avrebbe il mondo come suo oggetto, ma che esso è l’altra faccia del mondo, da cui certo è distinto, ma non separabile con una linea netta di demarcazione fra esterno e interno.[…] Da questa concezione del visibile emerge anche cosa significhi il tema della carne del mondo, che è fondamentale per comprendere il nuovo tipo di soggetto a cui Merleau-Ponty pensa: la carne del mondo è un avvolgimento spazio-temporale abitato dal soggetto e di cui egli è un’emersione, una finestra; la concezione della teoria dei sistemi, secondo cui ogni sistema vivente si accoppia con l’ambiente, e con altri sistemi viventi, istituendo uno scambio e un equilibrio dinamico con essi, trova in questo concetto di Merleau-Ponty la sua espressione filosofica più coerente e adeguata» (Iofrida, 2010).
Per Morin il vivente è un soggetto fino dalle sue forme più elementari, un soggetto-nel-suo-mondo, che organizza se stesso organizzando il mondo in una forma di circolarità ricorsiva o di “autoriflessione arcaica”, che chiama il “computo”.
«Il nostro essere soggetti – o meglio il nostro divenire soggetti – non si produce attraverso l’anello ricorsivo del cogito, ma anzitutto attraverso l’anello ricorsivo del computo. Attraverso computazioni viventi che rimangono per loro natura largamente inaccessibili alle ragioni dell’io cosciente. Il cogito cartesiano produce la coscienza del “sono”. Il computo, per parte sua produce ilsono, cioè simultaneamente l’essere, l’esistenza e la qualità del soggetto» (Manghi 2009, pp. 79-80).
Da ultimo, l’infant research e la video-microanalisi ci hanno presentato l’evidenza scientifica della realtà della “danza relazionale” (Bateson, 1979) e del “soggetto che auto-eco-organizza” (Morin; cfr.: Manghi, 2009).
Inoltre, oggi possiamo letteralmente “sfatare un mito” e collocare concretamente all’età di due anni o poco più la cacciata dal paradiso, la perdita dell’originaria pienezza dell’essere. Infatti, anche sulla scorta delle osservazioni rese possibili con l’insegnamento del linguaggio dei gesti agli scimpanzé (Fouts, 1997; Cimatti, 2002), siamo oggi in grado di comprendere molto meglio ciò che avviene a quell’età: la riorganizzazione della coscienza attorno alla parola e, in particolare, attorno a quella forma di ininterrotto dialogo interno che chiamiamo coscienza riflessiva. Il linguaggio, con tutte le sue ramificazioni, è davvero l’albero della conoscenza. Ma quando la parola s’innesta e toglie il primato alla percezione (un primato conservato per milioni di anni!), inevitabilmente essa instaura un mondo “rappresentato” e per certi versi finto, al quale occorre credere, perché non può più essere direttamente percepito e sperimentato. A quel punto non siamo più come l’ape che danza con i fiori e con il sole o come il predatore che insegue la sua preda. La presa rappresentativa e concettuale sul mondo inaugura la modalità dell’avere, contrapposta a quella di essere, inoltre la lingua, per dirla con Fromm, acquista anche la sua funzione di filtro, impedendo a gran parte dell’esperienza umana di farsi consapevole (Biancoli, 1997).
Non possiamo sottovalutare la portata di questo cambiamento. È qui che si colloca la possibilità della nevrosi, la possibilità per l’essere umano, come meravigliosamente diceva Karen Horney, di porsi come “il Pigmalione di se stesso”, ossia di «estraniarsi dal suo vero sé… [e di deviare] la maggior parte delle sue energie nel compito di modellarsi, mediante un riggido sistema di dettami interiori, in un essere assolutamente perfetto» (Horney, 1981, p. 11).
Con l’adolescenza, normalmente, si dà la possibilità di una negoziazione decisiva: andare con quanto si è appreso alla ricerca di quanto si è perduto.
In realtà, non possiamo disinnestarci dall’essere pre-riflessivo che continuiamo ad essere e non possiamo fare a meno della coscienza riflessiva che abbiamo sviluppato, perché, volenti o nolenti, siamo frutto di un innesto e l’albero non vive né senza radici, né senza tutto il resto. La psicoterapia non può “liberarci dal male oscuro” come la chirurgia ci libera da un tumore, perché essa ha a che fare con un male molto più intrinsecamente costitutivo dell’organismo psico-fisico che siamo. Quando una psicoanalisi funziona, non è per le spiegazioni che lo psicoanalista dà al paziente e di cui questi si avvarrebbe per capirsi meglio e cambiarsi. Dal mio punto di vista, questa idea canonica del trattamento è pura superstizione. Non esiste una tecnica per intervenire sul “mondo interno”: esso è una metafora e non esistono pinze e bisturi per intervenire sulle metafore. Una terapia riuscita, come riconobbe Balint, è in realtà un nuovo inizio. La psicoanalisi ci cura quando ci fa scoprire che le parole, oltre a servire per qualche scopo come tutte le altre cose, possono essere “piene” e riempirsi incredibilmente di noi stessi. Per questo essa è la talking cure, la cura che si svolge attraverso le parole, perché solo la parola, causa di malattia, può diventare essa stessa causa di ritrovata salute psichica. A quel punto, per riprendere Morin, il cogito non è più nemico del computo, ma lo ricostituisce facendosi esso stesso ulteriore anello ricorsivo. Nello stesso senso, la guarigione è il ritrovato chiasma di Merleau-Ponty.
Voglio portare un breve esempio clinico, per spiegare meglio la cosa.
Si tratta di una donna ferita nell’autostima, soprattutto nel senso della propria femminilità. Nell’inganno della nevrosi, il fatto di essere sovrappeso si presentava come la causa dell’esclusione da una vita sessuale e affettiva soddisfacente con gli uomini. Qualora fosse riuscita a dimagrire e a ritrovare in quel modo l’immagine giusta di sé, ne sarebbe conseguita anche la capacità di impegnarsi diversamente nella sua vita. Ma le diete fallivano una dopo l’altra, nonostante lo sforzo di volontà. In analisi, la cosa è stata affrontata in maniera totalmente diversa: l’essere sovrappeso ci è apparso come espressione e non causa di autostima ferita. La necessità inconscia di “dare corpo” ad una verità interiore (di bassa autostima), superava la necessità conscia di avere una bella vita sessuale e relazionale, nella quale, se fosse riuscita, la donna si sarebbe sentita, oltre tutto, sdoppiata e falsa. Non sarebbe mai riuscita ad entrare in un corpo bello con un’immagine interiore così brutta di se stessa. Per descrivere il cambiamento prodotto seguendo questa seconda via, cedo la parola alla diretta interessata:
«Caro Alberto, mercoledì mi ha telefonato… e mi ha invitata a cena. Sono uscita con l’occorrente per fermarmi a dormire, in piena consapevolezza. Sapevo e volevo ciò che stavo facendo e volevo viverlo fino in fondo. Quasi inutile dirtelo, no? Abbiamo cenato e chiacchierato… lo guardavo, mi piaceva, immaginavo di fare l’amore con lui e lo desideravo. Intanto mi osservavo, mi sentivo. Nessun imbarazzo, nessuna paura. Sentivo di essere una donna attraente, desiderabile, me lo sentivo dentro il sangue, lo percepivo nei miei movimenti. Non ho fatto nulla per attirarlo a me. Mi sono sentita magnetica. E in lui ho avuto conferma delle mie sensazioni. Ma anche se non avessi avuto conferma, per me sono state importanti le mie sensazioni, aver scelto io di far l’amore, seguendo il mio desiderio. È stato lui a baciarmi, ma è stato come se i fili li avessi tirati io, senza strategie, semplicemente restando attimo per attimo in contatto con me stessa. Ho vissuto qui e orain quel momento. Ho trovato in me la bellezza, la sensualità, l’eros… li ho contattati, lasciati fluire… e ho sentito che tutto questo era naturale, spontaneo. Su canali che ancora stento a identificare e che non avevo mai sperimentato prima, c’è stato tra noi uno scambio non solo fisico. Ho frequentato quest’uomo per tre anni, eppure mi sembrava di “sentirlo” e di entrare in contatto con lui per la prima volta. L’ho visto, perché mi sono permessa di vedere me stessa. M. L.»
Da quel momento, inutile dirlo, la paziente cominciò a perdere peso senza più lotta titanica contro l’oggetto psicologico della bulimia o comunque vogliamo denominarlo.
A mio avviso, questo esempio si può facilmente generalizzare. Si può citare di nuovo Merleau-Ponty, secondo cui l’omosessualità di Proust non è ciò nonostante cui egli ha saputo fare il quadro di un mondo, ma ciò attraverso cui egli ha potuto ritrarre, dal suo punto di vista, che però ha saputo allargare a tutti gli altri, un’intera stagione storica (M. Merleau-Ponty 2003, pp. 75-76). La singolarità di Proust, la sua omosessualità, non è qualcosa di cui egli si sia dovuto (o potuto) spogliare per rendersi conto degli aspetti universali dell’amore, ma proprio ciò attraverso cui egli li ha saputi cogliere.
La psicoterapia deve accogliere l’illusione che sia possibile manipolare gli automatismi interiori o intervenire operativamente su di essi, ma quello che veramente facciamo è un prolungato e disciplinato confronto con il significato della struttura psicopatologica individuale. Essa viene finalmente decifrata attraverso il riconoscimento di uno straordinario doppio del proprio io. Il soggetto che ci viene incontro nei sogni dal buio della notte, o dall’inquietudine dei sintomi nevrotici non restituisce l’immagine speculare del nostro io, ma una visione nuova che ci disorienta completamente, ma che ci può anche profondamente ri-orientare.
Al seguito di Freud, vorrei scegliere anch’io un mito e considerarlo come un riferimento calzante del discorso sviluppato fino a qui: sto pensando per questo al personaggio biblico di Giobbe. Giobbe sperimentò l’inferno, cioè cadde in uno stato nevrotico particolarmente grave. Non poteva farsene una ragione, perché l’atteggiamento di coscienza da lui perseguito era quello di sentirsi un “giusto”. Si comportava irreprensibilmente dal punto di vista burocratico delle norme religiose e presuntuosamente sfidava Dio, perché si sentiva da lui perseguitato e voleva conoscere le ragioni di tanta ingratitudine. Dovette immergersi nella crisi più nera per venire a capo del suo male. Sprofondato nell’abisso della peggiore di tutte le crisi ebbe finalmente la sua svolta terapeutica: Dio gli apparve nella forma delle mostruosità più stupefacenti mai create e delle forze più devastanti di cui dispone la natura e Giobbe in esse finalmente vide… il doppio perturbante di se stesso, la risposta del “vivente” che grottescamente gli restituiva tutta la sua presunzione. Giobbe vide la propria tracotanza, amplificata a dismisura. Improvvisamente, non ebbe più nessuna lamentela da fare e si espresse semplicemente così: «Per udito avevo saputo di te, ma ora l’occhio mio ti ha visto, perciò io mi ritratto, e faccio penitenza in polvere e cenere» (Giobbe 42,5). Con ciò Giobbe guarì e Dio gli restituì moltiplicate le ricchezze, la salute e figli che gli aveva tolte.
Ricapitolando, sono partito dal determinismo psichico e sono arrivato alla coscienza preriflessiva, il danzatore plurimillenario che si auto-eco-organizza nell’interazione incessante con gli altri esseri viventi e con il mondo. La coscienza riflessiva nasce come un innesto e fatalmente stabilisce un rapporto dissociato con questo altro, più fondamentale e antecedente noi stessi. O meglio, noi stessi, dissociandoci per mezzo della riflessione, corriamo il rischio di compiere una pericolosissima hybris e di porci come i creatori di noi stessi, privandoci di un indispensabile fondamento e patendo paradossalmente il limite che nasce dalla non accettazione di un limite. In questo senso ha ragione la tradizione religiosa e il peccato originale è davvero un peccato.
Cosa possiamo trarre da queste argomentazioni a vantaggio di una riflessione filosofica più ampia che riguardi la morte e il morire?
A tal punto la consapevolezza della morte caratterizza il pieno sviluppo della coscienza riflessiva, che i due termini appaiono praticamente coestensivi. Per questo, Heidegger ha chiamato “essere-per-la-morte” il modo di essere dell’autenticità. Questa consapevolezza crea il senso di un limite assoluto che incombe sull’esistenza nostra e di tutti coloro cui siamo affettivamente legati e genera angoscia, “angoscia esistenziale”, ma si potrebbe anche dire angoscia assoluta.
La domanda è: concepire il soggetto diversamente che un’isola, non interamente coincidente con la coscienza riflessiva e così intrinsecamente connesso con l’essere alla radice del proprio essere, per cui attraversando la barriera della rimozione primaria non ritroviamo l’amplesso fra i genitori ma l’anello ricorsivo che ci forma nella continua interazione col mondo, tutto ciò cambia qualcosa nel modo di porci di fronte al limite definitivo della morte che di qui a poco tutti ci attende?
Ovviamente, non possiamo attenderci molto dalla pura e semplice adesione ad una diversa prospettiva intellettuale. Ma, in effetti, quando la dissociazione fra le due forme di coscienza diventa meno rigida e oppositiva, qualcosa cambia nel riconoscimento di sé. Infatti, perché Giobbe smette di lamentarsi e perché le sue tormentose domande gli muoiono improvvisamente in gola?
Nello sfoggio sopraffacente di potenza divina, Giobbe vede due volte se stesso. Vede il riflesso della propria assurda tracotanza e si cheta. Ma vede anche dell’altro. Attraverso la barriera della propria psicopatologia, ma potremmo anche dire per il tramite e nella chiave della propria psicopatologia, come Proust nella chiave della propria omosessualità, vede la propria radice, vede se stesso nell’anello ricorsivo dell’essere. Ugualmente la mia paziente ha visto qualcosa nel proprio essere sovrappeso e attraverso il proprio essere sovrappeso, che ha cambiato drasticamente la percezione di sé. Volendo esplicitare maggiormente il senso della cosa, potrei dire che ha visto un essere straordinariamente tenace e determinato all’autenticità, a essere senza infingimenti ciò che sentiva di essere, senza compiacere nessuno.
A quel punto finisce la psicologia come idea di una tecnica di manipolazione del mondo interiore, sulla falsa riga della medicina o della chirurgia, secondo la consolidata metafora di Freud. A quel punto finisce anche la religione come intuizione e fede in una dimensione trascendente nella quale proiettivamente salvare l’anima, l’intimo, il profondo di se stessi.
Cosa succede a quel punto? L’ho già detto: succede un diverso riconoscimento di sé, alla luce del quale non dobbiamo più riunirci all’essere o ritrovare il paradiso dal quale siamo stati anzitempo cacciati. Ci accorgiamo in quel momento che noi ancora siamo immortali.
Alberto Lorenzini
alberto.lorenzini(at)gmail.com
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