Introduzione
Il rapporto allumistico: tra seduzione e molestia morale
In questo lavoro vorrei porre l’attenzione su un fenomeno che per quanto molto diffuso ed empiricamente noto, a quanto mi risulta non è mai stato fatto oggetto di attenzione analitica. Si tratta di una forma di molestia morale [per una recente introduzione al fenomeno si veda Hirigoyen 1998] caratterizzata dalla situazione seguente: una persona (A) fa insorgere o alimenta in una seconda persona, vittima (V) della molestia, il desiderio che avvenga un certo fatto (X), che coinvolge entrambi, che è di grande importanza emotiva e psicologica almeno per V, e in cui A ha un ruolo centrale anche come mezzo per ottenere X. Dopodiché, A rimanda asintoticamente la realizzazione di X, assumendo il ruolo di potere che ne deriva, mantenendo V legato al desiderio e alla speranza che X accada.
La maggior parte delle situazioni reali che possono essere riassunte in questo schema generale sono caratterizzate da un desiderio di V, e da un fatto X, di natura erotico-affettiva. È un tipo di situazione che la nostra società tende a pensare (e rappresentare) dando connotati stereotipati di genere sessuale ai ruoli A e V: la donna femme fatale, o più precisamente allumeuse, colei che fa credere all’altro di concedersi senza poi concederglisi mai, e l’uomo vittima della seduzione femminile, del fascino diabolico, della sua misteriosità. Ma questo è appunto uno stereotipo, legato ai valori tradizionali della cultura occidentale e alle sue forme di narrazione, popolari, artistiche, scientifiche, tradizionali.
Nella realtà A e V sono ruoli del tutto indifferenti alla connotazione di genere, almeno nel nucleo di informazioni che li definisce (non sono da escludere però, a margine per così dire dei loro connotati, alcune caratteristiche di V, o preferenze e possibilità strategiche di A, particolarmente legate al proprio genere di appartenenza). Per di più, la stessa situazione coinvolgente A, V e il fatto X non è incentrata necessariamente attorno a un desiderio di tipo erotico-affettivo, ma può ruotare intorno a qualsiasi desiderio tanto forte da ancorare V al volere di A e al desiderio che si verifichi X, al di là della sofferenza occorsa e del tempo trascorso. La realtà offre una casistica diversificata, ma caratterizzata dalle medesime conseguenze psicologiche: lavoratori frustrati da promesse sostituite nella realtà da fatti avvilenti, studenti affascinati da docenti brillanti e seducenti che poi si rivelano totalmente disinteressati, rispetto alla materia, agli studenti stessi, alle aspettative loro create, ecc. Si tratta in ognuno di questi casi della configurazione relazionale sopra esposta, che, dal termine francese allumeuse, chiamerò rapporto allumistico. Allumeur (A), forma maschile che userò come termine neutro, e vittima (V), sono i due ruoli comunicativi che prendono parte allo schema. Per quanto il corpus che utilizzo in questa sede sia incentrato su un desiderio di tipo erotico-affettivo, ritengo che la caratterizzazione risultante del rapporto allumistico abbia validità generale al di là di tale natura del desiderio.
Il rapporto allumistico, come tutte le molestie morali, sul piano emotivo e psicologico è caratterizzato dalla sofferenza e dalla frustrazione della vittima, e dal distacco emotivo del molestatore, in questo caso l’allumeur. Quale che sia lo scopo dell’allumeur (e i suoi scopi, le sue motivazioni, il grado di coscienza, tutte le individualità insomma, rappresentano una casistica di interesse subordinato all’individuazione delle caratteristiche che governano il rapporto allumistico come fenomeno relazionale generale), egli tende a protrarre il proprio atteggiamento comunicativo, da cui scaturisce la molestia, finché gli è possibile, nonostante la sofferenza della vittima e perfino le sue richieste di chiarimento o di aiuto. I molestatori «[n]on hanno né compassione né rispetto per il prossimo, perché il rapporto non li coinvolge. Rispettare l’altro vuol dire considerarlo come essere umano e riconoscere la sofferenza che gli si infligge» [Hirigoyen 1998, pp. XI-XII]. A tal proposito Emma, una delle vittime del corpus studiato, in una lettera mai spedita fa sua una citazione di Canetti: «Nelle passioni più forti, quelle che rendono la vita degna di essere vissuta, non c’è MISERICORDIA» [EMMA-JACOPO] (indico i casi di rapporti allumistici studiati con queste coppie di nomi, sempre nell’ordine “vittima-allumeur” e indicando l’enunciatore tramite sottolineatura).
Il rapporto allumistico ha conseguenze profonde sulla vittima, che non si limitano alla frustrazione di non ottenere ciò che desidera. Non si tratta (poniamo, nel caso di desiderio erotico) di un comune caso di amore non corrisposto. Molto più gravi sono le conseguenze del prender parte a una comunicazione paradossale, che come mostrerò in seguito è la principale caratteristica del rapporto allumistico. La vittima mette in gioco gran parte di sé, alla ricerca di una «felicità grande e mai conosciuta prima» [CAMILLA-JACQUES] che l’allumeur le prospetta, mostrando la propria capacità di interpretare i desideri della vittima, presentandosi come il mezzo più diretto per realizzarli, per poi frustrarne la realizzazione in modi che fanno cercare alla vittima le cause di tale insuccesso in sé e nei propri gesti, ne minano la stabilità emotiva, ne mettono in crisi l’identità, la capacità relazionale, i bisogni affettivi più profondi.
In questa lettura del fenomeno intendo esporne alcune caratteristiche che sono essenzialmente comunicative. La molestia morale è un fenomeno con conseguenze psicologiche ed emotive, ma in sé è un fenomeno comunicativo: è tramite il linguaggio e la comunicazione in genere (comunicazione corporea, gesti, comportamenti) che si produce la situazione paradossale, leggibile in termini di doppio legame, che è sempre il centro della molestia morale. Nel rapporto allumistico, comunicazione e caratteristiche emotive e psicologiche si alimentano e presuppongono a vicenda; ma, date queste caratteristiche, le strategie retoriche dell’allumeur, le possibilità che tramite la comunicazione la vittima lascia all’allumeur ecc., sono tutti fenomeni comunicativi, che in quanto tali possono essere letti e interpretati con i mezzi dell’analisi linguistica.
Gli strumenti linguistici possono essere di grande aiuto per il terapeuta: capire esattamente come l’allumeur destabilizzi la vittima, o ne vincoli l’attenzione, o come riesca a sospendere la situazione tra concedersi e rifiutarsi, senza tuttavia svelare il proprio gioco, o analizzare i singoli atteggiamenti comunicativi della vittima che favoriscono l’allumeur, e che rendono sistemica la loro comunicazione (fenomeno che per limiti di spazio non posso approfondire qui), è fondamentale perché il paziente, o in generale chi viva una situazione relazionale del genere o la voglia analizzare, possa capire cosa sta succedendo nell’hic et nunc (la domanda goffmaniana per individuare il frame), come affrontare meglio la situazione o prevederne gli sviluppi.
In questo modo, con un’integrazione dei mezzi classici dell’analisi della molestia morale, o, essendo così giovane tale interesse teorico, dei mezzi analitici (psicologici e sociologici per esempio) che più facilmente le si possano adeguare, con i mezzi analitici che vengono dalle scienze del linguaggio, si può individuare il nucleo della molestia morale, e inaugurare uno studio più vasto. Si possono così isolare, comprendere, aiutare, tutti quei fenomeni che sono difficilmente individuabili ma che pertengono comunque al vasto campo della molestia morale, che riguardano contesti che non hanno una formalizzazione giuridica forte, al contrario del mondo del lavoro e della famiglia, nei quali il mobbing e le violenze psicologiche sono già ampiamente studiati.
Esiste tutta una fenomenologia di molestie morali che difficilmente possono essere individuate dalla vittimologia, ramo della giurisprudenza, e che spesso non riescono ad arrivare nello studio del terapeuta che possa aiutare le persone coinvolte, perché esse stesse non si sentono legittimate a cercare aiuto, escluse da una casistica riconosciuta: sono tutti quei casi che riguardano i rapporti non formalizzati, non istituzionalizzati, che permeano la nostra vita quotidiana, e che spesso ne sono il fulcro, pur non trovando riscontro che nello sfuggente mondo interiore.
La dipendenza dal desiderio tra due persone prive di legami formali, tema centrale della mia ricerca, è forte almeno quanto la dipendenza emotiva e psicologica interna ai rapporti di lavoro o familiari, e anch’essa dà origine a forme di molestia. Ma fuori da una formalizzazione giuridica si è spesso convinti di non meritare l’attenzione altrui, per quanto riguarda le conseguenze emotive, il nostro vissuto interiore. In questa area spesso nascosta, che ha però un ruolo centrale nella ricerca della felicità e del senso delle proprie azioni e del vivere sociale, sono spesso annidati gli effetti di molestie morali subite, in passato, nel presente, e che non conosciamo né sapremmo riconoscere se si presentassero di nuovo.
Oltre a favorire il benessere del paziente e la competenza linguistica del terapeuta, un’analisi linguistica della molestia morale individua strumenti di aggressività che possono poi essere riconosciuti e trattati anche al di fuori di tale contesto; è di importanza fondamentale, ad es., per quanto riguarda la risoluzione dei conflitti, perché spesso essi si originano da atteggiamenti assunti involontariamente. Riconoscere tali strategie, scinderne i contenuti aggressivi da quelli referenziali e, per così dire, neutri sul piano della relazione, è un’attività metacomunicativa utile ad entrambe le parti, in varie situazioni comunicative. Il molestatore non deve essere stigmatizzato, e, tanto più quanto più le sue azioni sono inconsapevoli, almeno negli effetti negativi che producono, conoscere il proprio comportamento comunicativo è il primo passo per conoscersi meglio e progredire verso una maggiore salute relazionale.
Capitolo 1
Caratteristiche generali della comunicazione allumistica
1.1. Il doppio legame: paradosso e sofferenza
La comunicazione tra vittima e allumeur (che chiamo comunicazione allumistica) è caratterizzata da costanti formali e contenutistiche che ne permettono il riconoscimento e la descrizione, e perfino la riproposizione in fase sperimentale. Tali dati, per quanto puramente linguistici, sono strettamente legati al contesto emotivo e psicologico in cui la comunicazione allumistica si svolge, non solo nel senso che su questi piani i suoi effetti sono facilmente riscontrabili, ma anche nel senso che le strategie comunicative dell’allumeur presuppongono (e allo stesso tempo ne rafforzano i presupposti) i connotati emotivi della relazione.
Ciò non significa che la comunicazione allumistica necessiti di un’analisi puramente psicologica. In tutti i rapporti di lunga durata e di rilievo emotivo, una volta accertati i dati emotivi e psicologici relativi alla relazione, essi si uniscono ai tratti che definiscono il contesto comunicativo, creando, per es., restrizioni linguistiche mutualmente accettate, favorendo scelte strategiche ecc., allo stesso modo del contesto fisico in cui avviene lo scambio comunicativo, del contesto sociale, del mezzo scelto per comunicare, del contesto sociale di provenienza dei partecipanti all’interazione ecc. Questi fattori sono comunemente accettati dall’analisi linguistica tradizionale, e non la costringono certo a lasciare il campo rispettivamente alla sociologia, alla fisica acustica ecc., ma necessitano che essa integri i propri mezzi con quelli di queste discipline. Allo stesso modo, i più tradizionali metodi di indagine della molestia morale devono essere integrati con l’analisi linguistica, per avere accesso ai meccanismi che governano la comunicazione allumistica.
Solo un esempio: molte strategie dell’allumeur hanno un comportamento molto marcato dal punto di vista temporale. Fatti avvenuti anni prima mantengono valore per ambigui riferimenti analettici, oppure una strategia procrastinante può essere prolungata per mesi e mesi, o ancora la vittima può attingere da fatti recenti per rileggere e interpretare fatti che possono essere lontani nel passato perfino alcuni anni. Queste caratteristiche temporali sono possibili solo date le condizioni di dipendenza emotiva della vittima nei confronti dell’allumeur, che ne provocano un interesse interpretativo costante e duraturo, alimentato dall’ambiguità tipica della comunicazione dell’allumeur.
In particolare, l’intreccio tra caratteristiche comunicative e aspetti emotivi e psicologici nella molestia morale, e dunque anche nel rapporto allumistico, è sempre leggibile secondo lo schema del doppio legame (e questo dato mi pare tanto evidente dall’osservazione dei fatti quanto poco evidenziato nelle analisi esistenti). L’elemento centrale attorno a cui si costituisce un doppio legame [per questo concetto i classici di riferimento sono ovviamente Bateson 1972 e Watzlawick, Beavin e Jackson 1967] è la presenza nella comunicazione di un paradosso pragmatico, ovvero la compresenza di due messaggi, che implicano ognuno un’ingiunzione che in quanto tale chiede di essere obbedita, ma che sono tra loro contraddittori o incompatibili. Se la vittima risponde a un’ingiunzione, contraddice l’altra, e viceversa; allo stesso tempo, l’inazione risultante da questa situazione paradossale è una risposta comportamentale sbagliata rispetto a entrambe le ingiunzioni. Come recita un’espressione inglese, “you’re damned if you do and you’re damned if you don’t“.
Il paradosso pragmatico è un fatto molto frequente, e nella maggior parte delle sue occorrenze non comporta alcuna grave conseguenza. Un esempio classico e semplice: di fronte a due camicie regalateci se ne indossa una, e la lamentela ricevuta (1.1) implica che per ognuna delle due camicie valga l’ingiunzione (1.2):
(1.1) L’altra non ti piaceva?
(1.2) Per dimostrarmi che ti è piaciuta avresti dovuto indossarla.
Indossare due camicie contemporaneamente, cosa che sarebbe l’unica apparente soluzione, è possibile ma produce risultati pragmaticamente inappropriati, dal punto di vista della comunicazione implicata. È, dunque, in tutto e per tutto un paradosso senza uscita.
Il paradosso, che in un caso come (1.1) può essere decisamente non intenzionale, nelle molestie morali è cercato dal molestatore con scopi più chiaramente aggressivi. Osserviamo un esempio tratto dalla casistica di Hirigoyen 1998 [p. 28]: in un divorzio dove i contatti tra i due ex coniugi sono necessari per decidere circa l’educazione del figlio, l’ex marito non risponde mai alle lettere e fa finta di non riceverle.
Il silenzio dell’ex marito, da un punto di vista comunicativo, è ambiguo: potrebbe essere una distrazione, una mancanza inintenzionale, un semplice ritardo, o perfino potrebbe non aver ricevuto alcuna lettera dall’ex moglie, per cui non avrebbe nessun motivo per contattarla. Ma dato l’obbligo di collaborare, l’opinione di lui è necessaria prima di ogni decisione di lei. Questo comporta che, se il silenzio fosse volontario, rappresenterebbe un atteggiamento palesemente non collaborativo per mettere in difficoltà l’ex moglie e non permetterle di agire. I possibili messaggi impliciti nel silenzio dell’ex marito sono dunque:
(2.1) non ho ricevuto nessuna richiesta di informazione.
(2.2) ho ricevuto la tua richiesta ma non intendo collaborare.
L’unico modo per eliminare ogni ambiguità è assicurarsi che lui riceva le lettere, tramite il mezzo della raccomandata postale; indipendentemente dai suoi silenzi, questo è anche un modo per rendere più sicura la comunicazione. Ma lui subito coglie l’occasione per accusarla:
(3) Devi essere pazza e/o disonesta per mandare una raccomandata ogni otto giorni [Hirigoyen 1998, p. 28].
Nonostante i ripetuti silenzi che motivano l’attribuzione di (2.2), egli si presenta come enunciatore di (2.1), e rovescia la situazione suggerendo che l’utilizzo della raccomandata ha origine in qualche impreciso “gioco sporco” dell’ex-moglie («disonesta»), o semplicemente in un’immotivata e “paranoica” sfiducia («pazza»), o, perché no, sommando le accuse («e/o»).
Quello che doveva essere un uso difensivo della burocrazia in seguito a un attacco del molestatore (un attacco indimostrabile perché implicito, compiuto attraverso il silenzio) diviene un pretesto di accusa: “quella burocrazia ti serve per coprirti le spalle”. Come in ogni molestia morale, la verità è indecidibile agli occhi della vittima, e la vittima si sente in colpa per aver sospettato o attaccato, quando in realtà l’aggressione del molestatore è reale, sebbene secondo modalità più sottili e in parte sfuggenti rispetto ad un’aggressione aperta.
Anche la comunicazione dell’allumeur, che chiamo messaggio allumistico, ha i suoi contenuti contraddittori, che chiamo compiacenza e diniego. Con la prima l’allumeur esprime interesse, entusiasmo, al limite passione e attrazione verso la vittima, mentre con il secondo esprime distacco, disinteresse e freddezza. La compresenza di questi contenuti accomuna formalmente il messaggio allumistico alla comunicazione tipica di altri fenomeni che in qualche modo riguardano o usano i mezzi della seduzione, come ad es. la civetteria [cfr. Georg Simmel, “Flirtation”, 1923, trad. ingl., in Simmel 1923]. Ma gli elementi emotivi e psicologici che caratterizzano il rapporto allumistico lo distinguono da questi, per assegnarlo al campo della molestia morale e del doppio legame.
Le due ingiunzioni corrispondenti alla compiacenza e al diniego, che come vedremo più avanti non sono mai espresse così esplicitamente, sono:
(4.1) Avvicinati, puoi avermi.
(4.2) Allontanati, non puoi avermi.
La scarsa intraprendenza della vittima in risposta a (4.2) produce rimproveri dell’allumeur, che già di per sé rinforzano l’ingiunzione (4.1); i tentativi della vittima di farsi avanti, legittimati da (4.1), verranno costantemente dissuasi tramite (4.2); e così via in un ciclo potenzialmente illimitato. Mentre la compiacenza alimenta il desiderio, il diniego lo rende sempre irrealizzato. Il rimando continuo che ne deriva, sempre apparentemente temporaneo, porta avanti il rapporto allumistico.
Ovviamente, lo schema del rapporto allumistico è quello tipico delle relazioni complementari cosiddette forti, ovvero: non vi è alcuna alternanza tra i ruoli one-up e one-down, rispettivamente dell’allumeur e della vittima, e tra i due partecipanti c’è una forte dipendenza emotiva che porta la vittima a piegarsi letteralmente al volere dell’allumeur:
(5) Come il girasole torcerò la mia essenza per seguire l’ombra tua, distratto, confuso. Ma questo è scritto […] [MARCO-SARA].
La vittima, per riprendere le parole di Bateson, Jackson, Haley e Weakland, «sente che è d’importanza vitale saper distinguere con precisione il genere del messaggio che gli viene comunicato, in modo da poter rispondere in modo appropriato» [cfr. “Verso una teoria della schizofrenia”, 1956, in Bateson 1972, p. 252]:
(6) […] pensare di poterti parlare, mi appare […] a volte un esame cui mi sottopongo, da cui dipende la mia vita e alla fine non so mai come sono risultata ai tuoi occhi, e misuro tutti i tuoi presunti giudizi, i miei sottintesi, i tuoi possibili fraintendimenti […] [EMMA-JACOPO].
La vittima del rapporto allumistico vive un rapporto contraddittorio con l’allumeur e con i propri sentimenti nei suoi confronti. L’allumeur è oggetto d’amore ma anche un mostro che fa soffrire, come si palesa nei sogni delle vittime (ma tanta negatività e chiarezza subiranno la censura tipica della comunicazione tra allumeur e vittima, e queste lettere non verranno mai spedite):
(7) Stanotte ho fatto un sogno terribile […] Parlavamo […] e improvvisamente cambiavi atteggiamento, offesa da qualcosa detto o fatto da me, e scontrosa non volevi più parlarmi o considerarmi. Ti ho odiato in quel momento, sicuro di essere nella ragione, convinto di aver scorto in te una stupida illusione di amicizia, di rapporto umano, trascinata sino ad allora, e mai stata possibile. Avrei dovuto odiare me stesso, eppure. Odiarmi o sorridere […] della mia incapacità, del mio illudermi.
Odiavo te invece, miele avvelenato, medusa incantatrice [MARCO-SARA].
(8) Lui mi bacia e d’un tratto mi sembra Cerbero, il mostro con tre teste, mi spavento, poi mi faccio forza e guardo in tutti e sei gli occhi, bacio le tre bocche [EMMA-JACOPO].
La vittima solitamente non riesce, nonostante la propria sofferenza, nella fuga dal rapporto; quando arriva alla decisione di allontanarsi dall’allumeur, ciò accade non perché abbia afferrato la vera natura del rapporto, ma solo perché la vittima è spossata dalla serie di aspettative e frustrazioni:
(9) Ho bisogno di chiudere col contrasto tra certe sensazioni che mi dai e le cose che (non) accadono [DANILO-CRISTINA].
(10) Ti scrivo con un’idea in testa, una richiesta che non so realmente se ti farò alla fine di questa lettera. È questa: vorrei chiederti di non farti vedere adesso, per adesso […] Il nostro rapporto è, per quanto mi riguarda, scisso pesantemente in due lati, abbastanza indipendenti l’uno dall’altro, anche se ovviamente parlo così per farmi capire, un po’ grossolanamente, poi le cose si mischiano in modi complicati, ma ci sono diciamo due centri, due calamite, che attraggono a sé la maggior parte degli aspetti […] da un lato c’è il desiderio, sempre frustrato perché così hai deciso di gestire questa cosa, oppure perché ti aspettavi azioni da me che non ho fatto; dall’altro c’è una sincera amicizia, un affetto credo abbastanza slegato dal desiderio, abbastanza da considerarlo ormai indipendente [DANILO-CRISTINA].
Anche là dove Danilo percepisce contraddizioni («Il nostro rapporto è […] scisso pesantemente in due lati»), non le imputa a una comunicazione ambigua di Cristina, ma relativizza il dato come fosse una propria percezione («per quanto mi riguarda»), giustifica il fatto che ciò che sta affermando potrebbe non risultar così ovvio («parlo così per farmi capire, un po’ grossolanamente»), sospetta alcune proprie mancanze («oppure perché ti aspettavi azioni da me che non ho fatto»); i «due lati» del rapporto, «desiderio» e «amicizia», sono due poli intorno ai quali la comunicazione dell’allumeur fa ruotare la caratterizzazione del rapporto per non farlo diventare in definitiva nessuna delle due cose.
Spesso, a causa del fatto che i silenzi dell’allumeur e la mancanza di spiegazioni sembrano normalizzare ogni suo comportamento, la vittima è portata a provare sensi di colpa (11); nonostante tutto, l’esperienza negativa ormai accumulata può portare la vittima a decidere per una rottura (12):
(11) È colpa mia, sono io che sono sbagliata, ci credo, ma devo allontanarmi da te [EMMA-JACOPO];
(12) Non posso, non voglio permettermi di vederti. Perché temo il dopo, temo mesi di desiderio frustrato, causati dalle modalità con cui ci vediamo quel poco che ci vediamo, troverei questo “dopo” assolutamente insostenibile, ingiustificabile, ingiusto. Questo a causa della malattia del lato desiderio/“gioco degli innamorati” che ha il nostro rapporto; e non parlo di malattia per scherzo. Ne sono convinto […] mi dispiace perché al centro della tua voglia di venire c’era “tanta voglia di chiacchierare insieme, per ore”. Non sai, non so spiegarti quanto lo vorrei, ma per me sarebbe fonte di infelicità [DANILO-CRISTINA].
Anche assumendo un atteggiamento di rifiuto dei desideri-ingiunzioni dell’allumeur, la vittima non esce dalla comunicazione paradossale: rifiutando la compiacenza, ad es., non fa che comportarsi come se acconsentisse al diniego. I due contenuti sono l’uno la negazione dell’altro, e negandone uno, si afferma l’altro, e finché la vittima comunica, dà sempre una risposta sbagliata almeno a una parte del messaggio allumistico.
L’unica scappatoia dalla comunicazione paradossale sarebbe la metacomunicazione, prendere coscienza della natura paradossale del messaggio e comunicare che quel messaggio “non ha senso”, e non può produrre nessuna risposta sensata. Ma un elemento tipico del doppio legame è l’impossibilità a uscire dallo schema, dalla rigidità dei ruoli one-up e one-down. La natura della complementarità instauratasi tra i due attori è tale che non è possibile mettere in discussione il rapporto o la comunicazione che lo caratterizza, per cui il paradosso non può essere fatto oggetto di una metacomunicazione. In parte ciò è dovuto a quanto è noto come ingiunzione negativa, la cui spiegazione è nel forte valore emotivo della relazione, che rende difficile per la vittima relativizzare e mettere in discussione il rapporto e la comunicazione con l’allumeur.
«Sembra tuttavia che in certi casi la fuga sia resa impossibile da certi espedienti che non sono puramente negativi, per esempio volubili promesse d’amore, e cose del genere» [cfr. Gregory Bateson, Don D. Jackson, Jay Haley e John H. Weakland, “Verso una teoria della schizofrenia”, 1956, in Bateson 1972, p. 251]. L’enunciatore delle «volubili promesse d’amore» è colui che qui chiamo allumeur. L’impossibilità di metacomunicare può dunque essere il risultato di strategie retoriche.
1.2. L’inganno dei frame evocati
La compresenza di compiacenza e diniego nel messaggio allumistico è resa possibile dall’implicitezza di entrambi, dal fatto cioè che è la stessa vittima a ricostruirli attraverso una catena di inferenze. Il messaggio allumistico deve allo stesso tempo mostrare i due contenuti, perché insieme svolgano la loro funzione paralizzante, e nasconderli, per non evidenziare la loro paradossale compresenza e inficiare così tutta la strategia, svelando le regole di un gioco che per funzionare necessita la segretezza. Così, compiacenza e diniego non sono mai espressi a un grado pieno, ma la comunicazione porta la vittima a inferirli:
(13) La nostra comunicazione non verbale ha raggiunto livelli patologici: miti, giochi, erotismo, musica, poesia, simbologia transpersonale, fino ad arrivare a proposte matrimoniali. Ma tutto rimaneva sul piano ambiguo del non detto, del magico. Io mi ero innamorata per la prima volta [cfr. Il Venerdì di Repubblica, n. 895, 13/05/2005, p. 179].
Quando la vittima agirà conseguentemente alla compiacenza che ne alimenta il desiderio, facendosi avanti, l’allumeur potrà ritrarsi senza contraddire niente della propria comunicazione precedente:
(14) Quando ho provato a chiedere spiegazioni ha negato, facendomi sentire una pazza, salvo poi continuare [Ibid.].
Tale comunicazione ingannevole è possibile sfruttando le caratteristiche della comunicazione/percezione del frame [si vedano i classici Bateson 1972 e Goffman 1974]: in qualsiasi situazione comunicativa un attore è costretto a comprendere cosa sta succedendo intorno a lui per agire di conseguenza, secondo le norme sociali previste da quel contesto. La complessità del reale è tale che un’analisi dettagliata del contesto, dei partecipanti, dei loro comportamenti, da cui inferire le regole comunicative da applicare, sarebbe letteralmente infinita. Per questo l’esperienza viene percepita come organizzata in frame, costellazioni di dati che l’attore riconosce e ricostruisce nella sua interezza a partire da pochi dati pertinenti (si veda anche Kelly 1955: secondo la sua psicologia dei costrutti personali, ogni uomo basa la propria attività conoscitiva sul modo in cui si costruisce aspettative sugli eventi, tra cui i comportamenti altrui [cfr. p. 95]).
A partire da pochi elementi giudicati sufficienti per il riconoscimento di un frame ricorrente, un attore si forma aspettative sul reale, e da quel momento in poi si aspetta che le cose proseguano coerentemente al frame riconosciuto, come in un copione. Ma i dati sono osservati e valutati velocemente, e la scelta dei principi inferenziali in base ai quali assegnare un frame è la prima fonte di errore, perché «esattamente come nessuno di noi, in quanto essere umano e quindi limitato, potrà mai osservare tutto, così nessuno potrà mai essere certo che le inferenze che collega alle proprie osservazioni siano proprio giuste, né tantomeno che siano le uniche possibili» [cfr. Dell’Aversano e Grilli 2005, p. 30]:
(15) Oggetto del mail: Mi manchi tu.
Mi manca la tua voce. Davvero salirò sul treno giusto, davvero arriverò lì, solo per te, per stare bene, per un abbraccio sicuro. SEI TU!!!!!!!
Anch’io…. [DANILO-CRISTINA]
In questo esempio, l’«anch’io…» finale chiede di essere completato dall’interlocutore, la vittima. In questo mail sono presenti una serie di elementi che richiamano un frame che potrei chiamare “dichiarazione d’amore”: la nostalgia provata per l’interlocutore («Mi manchi tu»), segnalata da dettagli che divengono centro di un’interesse particolareggiato («Mi manca la tua voce»), la volontà di avvicinarsi («davvero arriverò lì») all’interlocutore e a nessun altro («salirò sul treno giusto»; «solo per te»), la spiegazione che questo avvicinamento è quanto farebbe «star bene» l’enunciatario, la volontà di un contatto fisico («un abbraccio sicuro»), il crescendo emotivo sottolineato dall’uso di caratteri maiuscoli, che imitano un tono più appassionato della voce o un volume più alto, e dalla punteggiatura “emotiva” («SEI TU!!!!!!!»). Di una dichiarazione d’amore, o di una comunicazione che presuppone innamoramento, manca solo un elemento, quello centrale: la dichiarazione vera e propria, la sua esplicitazione. Essa è evocata dalla frase di chiusura («Anch’io….») che richiama una comunicazione di Danilo di pochi giorni precedente, in cui lo stesso chiudeva un sms con un esplicito «ti amo».
Ciò che conferma l’aspettativa della vittima è anche l’unica cosa che possa trovar posto in quel contesto. Così la vittima legge “(??) Anch’io ti amo” [con il simbolo (??) indico un’espressione pragmaticamente inadatta a una situazione comunicativa data], ma il contenuto del diniego, qui trasmesso tramite una reticenza, agisce anch’esso sulla vittima, e il fatto che non vi sia altro che dei puntini di sospensione la fa astenere da qualsiasi azione conseguente, e mette al sicuro l’allumeur da qualsiasi pretesa, non avendo dichiarato alcunché.
Tacere l’elemento centrale del frame invalida in qualche misura tutto il testo, rendendolo una specie di gioco, una farsa. Senza quel “(??) ti amo”, anche «Davvero salirò sul treno giusto, davvero arriverò lì, solo per te» diviene solo l’ombra di una promessa, una sua citazione, quasi a dire “ti voglio bene quasi come se ti amassi”, oppure “mi piace tanto comunicare e giocare con te, quasi come se potessi o volessi dirti cose come «Davvero salirò ecc.»”. La promessa evocata è invalidata da quella reticenza centrale, e sia la promessa che la sua mancanza di validità sono comunicate alla vittima.
L’allumeur basa la propria strategia su tale difficoltà di lettura del reale, e la comunicazione dei contenuti di compiacenza e diniego avviene in un modo che definirei evocazione rispettivamente di due frame (in contrapposizione all’attivazione, in cui il frame è comunicato con un elevato grado di esplicitezza e facilmente riconosciuto come attivo). Evocare un frame è possibile attraverso la comunicazione di elementi insufficienti ad attivarlo, ma sufficienti a suggerirlo. Questi elementi producono inferenze deboli, del tipo dell’implicatura conversazionale di Grice [cfr. Grice 1989], che possono essere negate esplicitamente o annullate implicitamente dal contesto [cfr. Cosenza 1997, p. 310]. L’allumeur pone la vittima nella caratteristica situazione di stallo tipica di ogni molestia morale, in cui non può giudicare cosa sta succedendo, non potendo letteralmente rispondere alla domanda goffmaniana che individua il frame: “cos’è che sta succedendo qui, ora, e come devo comportarmi di conseguenza?”.
Jacopo, per argomentare l’impossibilità che lui ed Emma non si “riconoscessero” come esseri destinati a incontrarsi, ovvero per elogiare la loro unicità (16.1), parla della propria esperienza di situazioni simili, inserendo dunque la loro situazione in una categoria già nota, ricorrente (16.2), e contraddicendo così lo stesso contenuto cui voleva portare argomenti probanti. Questo contrasto tra unicità e peculiarità da un lato e ricorrenza e generalità dall’altro ricorda la sirena della poesia di Margaret Atwood, che prima incanta il navigante dicendogli quanto egli sia speciale, per poi riflettere su come tale inganno funzioni ogni volta (16.3):
(16.1) […] se lo stage non fosse durato un mese ma una settimana, io credo che ci saremmo comunque “riconosciuti” [EMMA-JACOPO] (16.2) a me accade sempre, su questo non ho dubbi [EMMA-JACOPO, corsivo mio] (16.3) Only you, only you can, / you are unique […] it is a boring song / but it works every time [cfr. Margaret Atwood, “Siren Song”, in Atwood 1974]
La comunicazione dei due frame di compiacenza e diniego avviene come un continuo passaggio da uno all’altro, un fenomeno che chiamo frame-shifting: quando la vittima pensa di aver chiara la situazione, ecco che l’evidenza va nella direzione opposta:
(17) Dopo un primo periodo (un mese e mezzo) di sporadicissimo contatto iniziamo a vederci e sentirci, inizi a cercarmi quasi ogni giorno… e improvvisamente ecco sparisci […] avevi accelerato il contatto (i ritmi del nostro vedersi li hai sempre decisi tu, per vari motivi che sappiamo (?) e che potrei elencarti) nel momento “giusto”, quando, voglio dire, non aveva davvero più senso il caffè insieme o l’incontro di cinque minuti, avevamo voglia di comunicare, l’hai fatto, te ne ringrazio. Ora vedo i tuoi tempi poco elastici, i tuoi luoghi inaccessibili, i luoghi d’incrocio disertati (pranzi, biblioteche, passeggiate…) [SIMONE-CHIARA].
L’analisi del frame-shifting evidenzia la differenza tra le informazioni in possesso dell’allumeur e quelle che egli consente alla vittima di avere: il rapporto allumistico è un frame (in quanto anch’esso composto da elementi ricorrenti e riconoscibili) di ordine superiore rispetto ai frame che evoca, e alla vittima manca il frame pertinente per individuare la situazione:
(18) […] mi accorgo che, pur non conoscendoci affatto, ho una voglia incredibile di raccontarci un sacco di cose, di dividere con te la magia di queste foto… così ti scrivo… o almeno tento… con ancora negli occhi le immagini di una giornata splendida, di un cielo terso, di un sole impossibile da definirsi… [DANILO-CRISTINA].
Nella comunicazione dell’allumeur non mancano i riferimenti al desiderio di qualcosa di futuro («una voglia incredibile») e all’entusiasmo, e il frame erotico-affettivo, adeguatamente evocato, viene completato dalla vittima, che non si rende conto che il desiderio è, esplicitamente, già sedato scrivendo («ho una voglia incredibile di raccontarci un sacco di cose […] così ti scrivo»), e l’entusiasmo è in realtà tutto rivolto al passato («con ancora negli occhi le immagini di una giornata splendida»).
1.3. L’impossibilità di comunicare: il comportamento non cooperativo
Il frame-shifting allo scopo di fuorviare continuamente la percezione della vittima è un atteggiamento comunicativo che può essere definito non cooperativo. La cooperatività è un concetto introdotto dal filosofo Grice [tutti i suoi articoli di argomento linguistico sono stati raccolti in Grice 1989] che pone l’attenzione sull’interazione, all’interno della comunicazione, di elementi formali, funzionali ed etici. I concetti di Grice sono stati e sono ancora oggi al centro di tentativi di approfondimento e ampliamento, e qui non intendo prendere esplicita posizione circa l’interpretazione di essi. Mi limiterò a evidenziare alcuni aspetti della comunicazione allumistica che possono essere messi in risalto grazie alla riflessione sulla cooperatività.
Grice individua un principio di cooperazione che opera nella comunicazione soprattutto come principio di ricezione. La comunicazione tendenzialmente non è lineare e piana, e i collegamenti semantici tra i vari enunciati non sono sempre palesi ed espliciti. L’enunciatario tendenzialmente dà per scontato che l’enunciatore comunichi con sincerità e cercando di esser chiaro, pertinente ed esaustivo, ovvero seguendo le quattro massime conversazionali del principio di cooperazione. Ciò fa scattare una serie di inferenze in base alle quali interpretare il messaggio dell’enunciatore, e comprenderne, ad es., la in un dato contesto.
(19) A: Sai che ore sono?
B: Mah, è già passato il lattaio [esempio tratto da Levinson 1983].
Dal principio di cooperazione consegue, ad es., che «se un enunciato richiede una risposta […] è lecito interpretare l’enunciato successivo […] come la risposta attesa» [cfr. Levinson 1983, p. 78]. Nell’esempio (19), in base a questo principio inferenziale, A deve inferire che il fatto che sia passato il lattaio, comunicatogli da B, gli comunichi qualcosa sull’ora, tema della domanda: «A può quindi inferire che B intenda comunicare che è almeno un’ora successiva a quella in cui normalmente passa il lattaio» [cfr. Levinson 1983, pp. 146-7].
In una comunicazione non cooperativa, ad es., B può dare intenzionalmente una risposta il cui legame semantico con l’enunciato di A non è chiaro, oppure è fuorviante, come l’evocazione di un frame che sarà contraddetto dai successivi comportamenti comunicativi; B può anche produrre una comunicazione paradossale, quando, come nella comunicazione allumistica, i frame evocati sono due e tra loro incompatibili. Si osservi l’esempio:
(20) […] eppure la bellezza sconvolgente che a tratti s’impossessa del tuo viso… è questa, credimi, ho cercato di osservarti con un po’ più di distanza delle altre volte, anche ciò che non mi piace, ho cercato, riuscendoci, di umanizzarti ai miei occhi, ma quel particolare tipo di bellezza, l’intensità della tua espressione in certi momenti, mica sempre, sai, come quel giorno quando ti ho riincontrato per la prima volta, lì devo distogliere lo sguardo, il pensiero, per non dirti che voglio fare irruzione nella tua vita, crearti problemi, averti, quello che in realtà non desidero, come ti ho già detto [EMMA-JACOPO].
Compiacenza: attenzione sulla bellezza di Emma; quando questa viene percepita è tanto forte da distogliere lo sguardo; desiderio incontrollabile di “fare irruzione nella sua vita”.
Diniego: tentativo di umanizzare Emma e vederne i difetti; la bellezza di Emma non è costante; ammissione di non desiderare di “fare irruzione nella vita” di Emma.
In una certa accezione del termine “comunicazione”, intesa come compartecipazione a un’attività, per qualsiasi fine essa sia, dove vi sia un qualche livello di trasparenza reciproca, o almeno dove entrambi gli interlocutori riescano a raggiungere alcuni degli scopi per i quali partecipano alla comunicazione, quella che avviene nel rapporto allumistico e nelle molestie morali non è comunicazione. Il paradosso, così come blocca il ragionamento, la logica, esponendola allo “scandalo” dell’indecidibile, così congela la comunicazione in un non-senso che può portare beneficio solo a una delle due parti, o almeno sicuramente non alla vittima che non sa di partecipare a una comunicazione paradossale.
Nella molestia morale la comunicazione è un mezzo per il molestatore per ottenere una posizione di potere, per danneggiare o sottomettere l’interlocutore. La vittima, non conoscendo il frame pertinente, continua a comunicare perseguendo degli scopi che crede comuni. L’allumeur ha quantomeno la possibilità di comprendere il contrasto tra il proprio scopo e quello della vittima, ma in genere nessuna volontà di risolverlo, e assume di proposito un atteggiamento non cooperativo che rende impossibile alla vittima di perseguire alcuno dei suoi scopi.
La comunicazione non cooperativa presente nel rapporto allumistico è data da uno scontro tra due atteggiamenti diversi: la vittima si comporta in modo cooperativo, mentre è solo l’allumeur ad assumere un comportamento non cooperativo. L’evocazione dei frame, ad es., funziona proprio perché la vittima cerca di inferire contenuti dalla comunicazione dell’allumeur seguendo come principio inferenziale le massime conversazionali e il principio di cooperazione. Questa situazione è tipica di una comunicazione ingannevole, in cui uno dei due partecipanti inganna l’altro, e si distingue nettamente, ad es., da una comunicazione in cui entrambi i partecipanti comunicano in modo non cooperativo.
Capitolo 2
Un esempio di strategie allumistiche: le strategie deresponsabilizzanti
Il comportamento comunicativo dell’allumeur, e più in generale della coppia allumistica, può essere descritto nelle sue linee generali, come ho fatto nel capitolo precedente, o con uno sguardo più dettagliato su alcune strategie particolari che l’allumeur utilizza per ottenere i propri scopi. Considerando la comunicazione allumistica, nel suo complesso, come l’evocazione di un frame di seduzione o di innamoramento, il ruolo delle strategie allumistiche sarà quello di compensare tale compiacenza con un diniego altrettanto forte che la contraddica. Così, si possono isolare delle strategie retoriche tese, di volta in volta, a deerotizzare il rapporto, a legittimare la distanza e la scarsità di situazioni di compresenza tra vittima e allumeur, a prolungare indefinitamente i periodi di mancanza di contatto.
Altre strategie hanno piuttosto un ruolo accessorio, come mantenere lo status quo raggiunto, non permettere la metacomunicazione, allontanare la vittima dalla conoscenza del frame pertinente, quello che individua il rapporto allumistico. Voglio concentrare qui la mia attenzione su alcune di queste seconde strategie; chiamerei questo sottogruppo strategie deresponsabilizzanti, in quanto esse sono tese a negare qualsiasi ruolo della volontà o della responsabilità in genere dell’allumeur rispetto alla situazione che si configura tra i due attori.
Queste strategie sono fondamentali, perché la configurazione del rapporto allumistico è, nelle speranze della vittima, una situazione precaria, ma allo stesso tempo, l’evidenza di qualcosa di ben diverso dai suoi desideri: una situazione procrastinante, incompleta e frustrante. Per mezzo delle strategie deresponsabilizzanti l’allumeur non permette alla vittima di percepire il proprio ruolo di guida, così che tutta la situazione prende i connotati di qualcosa di fatale, incontrollabile, dove la speranza, per entrambi, è l’unico modo lecito di intervenire.
La responsabilità di ciò che avviene, nei casi più semplici, è attribuita semplicemente a qualunque cosa a cui possa essere attribuita: le giustificazioni, così, si sprecano e divengono prova dell’inventiva e della credibilità dell’allumeur (21). Conchita, l’allumeur del romanzo di Pierre Louÿs La donna e il burattino, è una miniera di giustificazioni grazie alle quali non concedersi (22-24):
(21) queste cose mi fanno un po’ paura, vorrei ma non posso, vorrei amarti ma non posso, perché sono sposato, sono gay, sono prete [DIANA, allumeur, intervista]
(22) Aspetta… Ti amo… ma sto per svenire [cfr. Pierre Louÿs 1898, p. 64].
(23) Vedi, t’avevo promesso per stasera, ma non so proprio se ne avrò il coraggio… [Ibid.]
(24) “No, non subito”.
“Che c’è ancora?”
“Non me la sento, ecco tutto” [Ivi, p. 65].
La deresponsabilizzazione deve operare anche oltre il campo erotico, in tutto ciò in cui l’allumeur mostra delle mancanze, come nell’espressione del sentimento (25), o nella comunicazione in genere (26), o in genere nel non avere tempo da dedicare all’altro, neanche per scrivere una lettera (27):
(25) Ti voglio bene Marco, e penso di non avertelo mai detto (sai, anche io provo il mio imbarazzo) [MARCO-SARA];
(26) Non so scrivere, perciò evito di mandarti una lettera della quale so già non sarei soddisfatta per come è costruita [MARCO-SARA];
(27) Ecco, finalmente, dopo 16 giorni di attesa, un’ora di tranquillità, senza che sia notte fonda e che la mia testa crolli sul foglio [EMMA-JACOPO].
A volte la giustificazione migliore sembra essere la semplice mancanza di qualsiasi giustificazione chiara (28), oppure la dichiarazione di innocenza, come Marianne Charpillon nella lettera che scrive a Giacomo Casanova (29), nel periodo in cui la frustrazione e la sofferenza causata a Casanova dai comportamenti della ragazza lo spingono a tentare il suicidio:
(28) Pensa, un paio di giorni fa sono stato [nella tua città]. Lo so, avrei potuto chiamarti, avremmo potuto incontrarci ma… non era l’occasione giusta [EMMA-JACOPO].
(29) […] non so che cosa vi spinge a sempre volermi fare arrabbiare col dirmi che è colpa mia se siete pieno di bile, mentre io sono innocente quanto un bambino appena nato […] [cfr. Bàccolo 1979, p. 248].
In quest’esempio la Charpillon, dicendo che la vittima la incolpa senza motivo, in qualche modo la accusa; una delle tipiche forme di deresponsabilizzazione consiste infatti nell’incolpare la vittima (esplicitando più o meno ora l’accusa ora la motivazione dell’accusa), o più semplicemente imputandogli di essere la causa del proprio comportamento:
(30) “Voi non mi torcerete mai un capello, e fate bene, perché non v’amo più”.
“Osi dire che mi hai amato?”.
“Credete quel che vi pare. Siete il solo colpevole” [cfr. Pierre Louÿs 1898, p. 74].
(31) Ti sarai, forse, domandata il perché di tanta attesa. Posso provare a risponderti: una vita sempre più disordinata […] E poi una impressione strana che l’ultima tua lettera mi aveva dato alla prima lettura […] e che ancora oggi […] in parte mi trasmette la sensazione di essere una sorta di precongedo, come la constatazione di una duplice sconfitta di fronte al tempo, e questi lunghi dieci mesi, e allo spazio che ci divide, e ai giorni che potrebbero allontanarci sempre più, tutta racchiusa in quell’“ho paura di perderti” o in quel “non sarà facile dimenticarti” [EMMA-JACOPO].
Le motivazioni pratiche («una vita sempre più disordinata») del lungo silenzio epistolare sarebbero una scusa sufficiente, ma Jacopo vuole aggiungerne altre, per incolpare Emma («E poi una impressione strana che l’ultima tua lettera mi aveva dato […]»), nonostante l’insieme delle due motivazioni risulti illogica: la prima implica che Jacopo avrebbe voluto contattare Emma, la seconda imputa alle paure di lei di perdersi di vista la reazione volontaria di lui di non contattarla. La contraddizione è duplice: Jacopo afferma di aver voluto e contemporaneamente di non aver voluto contattare Emma, e inoltre quella che sarebbe una motivazione ulteriore per contattarla (la paura di Emma di perdersi di vista) viene presentata illogicamente come una motivazione per allontanarsi. Ma come spesso accade nella comunicazione allumistica, la logica passa in secondo piano.
Per non permettere alla vittima alcuna possibilità di intervento sulle proprie apparenti responsabilità, l’allumeur può mostrarsi improvvisamente e inaspettatamente deluso, di fronte allo scarto tra la persona reale che ha di fronte e l’immagine ideale che precedentemente si era costruito. In questo modo la vittima è totalmente impotente, priva di nesso causale con l’immagine che l’allumeur aveva di lei, e di qualsiasi potere di raggiungerla, in quanto oramai quell’immagine ha lasciato il posto a un’altra; la vittima non è che un campo di battaglia per le molestie dell’allumeur:
(32) C’è un periodo in cui si va dietro a un’immagine che Jacopo si è fatto di me, immagine che cade non appena ci si avvicina […] i difetti della mia persona insieme alla vicinanza fisica, sono questi elementi ad allontanarlo. Sembra una banale delusione. È lì il gioco. Questa è la scusa, è un’imitazione della delusione [EMMA, vittima, intervista].
In questa serie di imputazioni alla vittima l’allumeur giunge ad identificare il punto di vista della vittima con il proprio, attribuendo ad entrambi la stessa mancanza di volontà di concretizzazione:
(33) […] e che io mi sentissi poco più che spettatore di una storia che mi sfiora, ma che né io né tu abbiamo mai desiderato veramente che mi attraversasse con tutte le sue conseguenze… [EMMA-JACOPO]
In queste imputazioni alla vittima l’allumeur imita una punteggiatura degli eventi diversa da quella reale, presentando i propri gesti come reazioni anziché azioni quali in effetti sono; la vittima è portata a provare sensi di colpa, spesso per azioni che neanche gli vengono esplicitate. Anche una deresponsabilizzazione generica, in cui l’allumeur imputa a cause imprecise i propri gesti, può servire sia a deresponsabilizzarsi sia a indurre sensi di colpa nella vittima, se viene accusata di non capire le cause:
(34) Una sua frase tipica è “Non hai capito che non possiamo?” [DANILO, vittima, intervista].
Fin qui sono state esemplificate delle deresponsabilizzazioni puntiformi; ma quelle più efficaci sono quelle con una portata che si estende a eventi importanti del rapporto e comprende anche il futuro. Una deresponsabilizzazione rispetto alla natura del rapporto può divenire di portata generale, ad es., se applicata al primo incontro, esprimendo un contenuto come: “Non è per scelta mia che sono qui”. Mentre l’allumeur comunica quanto siano speciali lui e la vittima, come formino una coppia resa unica da qualcosa che nessun altro condivide (compiacenza), allo stesso tempo si deresponsabilizza fatalizzando la spiegazione di tutto ciò (diniego) (35); in altri casi l’allumeur si definisce spinto da qualcosa di irrazionale, dal puro istinto, cosicché una carezza, un’attenzione in più, debbano esser ricevute come gesti fini a se stessi, incomunicanti, mentre la vittima tenderà a leggerli come simboli di qualcosa d’altro (36):
(35) [il nostro incontro] non poteva non esserci, anche questo è il destino, esistono dei momenti in cui nasce l’esigenza che due mondi entrino in contatto, e se rileggi gli avvenimenti a ritroso, vedrai che tutto portava in una certa direzione, non so come dire [EMMA-JACOPO].
(36) Tu, Antonio, Giorgio siete così entrati in me che sento necessario capire il perché, sento come bisogno ineludibile fare qualche passo, chissà poi quanti…, vicino a voi, imparare a osservarvi, ad ascoltarvi, a parlarvi. Tre persone diverse, tre urgenze diverse in me; ma sono contenta di sentirle, sono felice di pensarvi, nominarvi in modi diversi per come siete, per come mi siete piaciuti diversamente [DANILO-CRISTINA, corsivi miei].
In (36) Cristina descrive una situazione “subita”: ha incontrato persone (tra cui la vittima) che percepisce come «urgenze», un «bisogno ineludibile», per cui sente «necessario capire il perché»; l’unica reazione è di essere «contenta di sentirle», ma fa di tutto perché lo stesso contatto che porta avanti («fare qualche passo, chissà poi quanti…») appaia come qualcosa di estraneo alla sua volontà.
Jacopo mette in atto fin dall’inizio del contatto epistolare con Emma una potente deresponsabilizzazione: nonostante il contatto nasca da lui, cerca di far assumere la responsabilità ad Emma. Spedendole un oggetto avente l’unico scopo possibile di ricordarle se stesso (un’audiocassetta di un cantante importante per lui e che sapeva non piacerle), applica a sé un’affermazione generale di Emma, secondo cui le piace avere qualcosa di materiale delle persone care distanti, implicitamente autodefinendosi “persona cara ad Emma”, e addossandole la responsabilità del gesto di scriverle, come fosse stato motivato da una richiesta di lei di avere quacosa di lui.
Jacopo dispiega poi tutti i mezzi per rafforzare questa attribuzione di responsabilità: rende la risposta di Emma un gesto particolarmente gratuito (e quindi carico della volontà di lei di continuare lo scambio epistolare), caratterizzandola come non necessaria (37) e affermando esplicitamente che avrebbe voluto evitarla, non indicandole alcun indirizzo di riferimento, ma il fato (nelle vesti degli impiegati dell’ufficio postale) lo ha obbligato (38):
(37) M’è anche rimasta nella penna una postilla che volevo aggiungere: “questa lettera non esige risposta”, solo perché tu non ti sentissi obbligata [EMMA-JACOPO].
(38) […] per verità l’indirizzo del mittente ce l’ho messo perché me l’hanno fatto mettere alla Posta […] [EMMA-JACOPO].
La deresponsabilizzazione rappresenta per l’allumeur un controllo sulle cause dei fatti riguardanti il suo rapporto con la vittima. Mantenere questa forma di controllo del rapporto è tanto importante che anche quando la responsabilità della vittima riguardo una certa situazione è chiara, l’allumeur cerca di reinventarne le cause. Jacopo ed Emma non si sono contattati per molto tempo, e la causa evidente di ciò è una pur sofferta decisione di Emma. Eppure, dopo circa otto mesi, quando Jacopo ed Emma si contattano per incontrarsi, lui le scrive una lettera in cui reinventa la situazione dando nuove spiegazioni circa la lunga lontananza, portando le classiche imputazioni al fato:
(39) Ti sarai, forse, domandata il perché di tanta attesa […] una vita sempre più disordinata, sempre più vittima degli impegni da mantenere, con stanchezza crescente, la quasi assenza di un vero luogo di residenza, o dei tempi di residenza, visto che a casa trascorro in genere 6-8 ore al giorno, anzi a notte […] [EMMA-JACOPO].
Capitolo 3
Alcuni temi ricorrenti (per una caratterizzazione psicologica del ruolo dell’allumeur): la morte, il tempo, il controllo
Corpi belli di morti, che vecchiezza non colse:
li chiusero, con lacrime, in mausolei preziosi,
con gelsomini ai piedi, e al capo rose.
Tali sono le brame che inappagate
trascorsero, senza voluttuose
notti, senza mattini luminosi.
Constantinos Kavafis
Vi sono degli elementi contenutistici nel corpus di questa analisi che sono tipici e ricorrenti, e nonostante ciò difficili da ricondurre a una funzione strategica; sembrano piuttosto essere elementi inerenti alla tipologia di situazione, e che richiamano una caratterizzazione emotiva e psicologica del ruolo di allumeur. Pur non volendo tratteggiare le cause profonde che muovono il comportamento dell’allumeur, l’emergere di questi temi offre innegabilmente possibili spiegazioni del suo comportamento.
L’allumeur si mostra ansioso nei confronti del reale, smanioso di controllarne i vari aspetti: lo spazio (40), il tempo (Jacques necessita di programmare ogni attimo della giornata [CAMILLA, vittima, intervista], Cristina di riempirlo con qualche attività [DANILO, vittima, intervista]), le relazioni (41). Tutto ciò che sfugge alla sua possibilità di controllo lo rende insicuro, dubbioso. Un’immagine ricorrente descrive qualcosa che si muove velocemente, e perciò risulta essere incontrollabile, in contrasto con un tentativo dell’allumeur di sedare tale moto, o con una sconfitta in questo tentativo (42, 43):
(40) Tu penserai che non so come andare avanti per via del mio horror vacui. È vero, mi fa un certo effetto vedere un pezzo di foglio bianco [EMMA-JACOPO].
(41) […] [l’]ordine fittizio che, consapevolmente o meno, cerco continuamente di dare a ciò che mi circonda, persone comprese […] [EMMA-JACOPO].
(42) Ora però il mio tavolo beccheggia, perché sono le mie gambe distese sul seggiolino di fronte, e la penna fatica a mantenere la sua linea perché il treno corre come un pazzo [JACOPO 01/07/1999, corsivo mio].
(43) Ora mi domando: ma perché non la ho ancora spedita?
Non lo so. Come al solito i miei pensieri corrono paurosamente, ma in realtà le conclusioni sono poche [MARCO-SARA, corsivo mio].
Sara si chiede perché non spedisce a Marco ciò che gli scrive; la risposta alla domanda sembra essere soddisfatta da quel «Non lo so». La frase «le conclusioni sono poche» si addice a descrivere il rapporto allumistico in genere, e la situazione cui si sta riferendo, i suoi ritardi epistolari indefiniti e ingiustificati, a metonimizzare l’intero rapporto; dato il valore temporale implicito nella sequenza di frasi, per cui le «conclusioni» seguono i «pensieri», sembra che l’enunciato «i miei pensieri corrono paurosamente» debba riferirsi a ciò che accade in Sara prima di agire in modo che «le conclusioni» siano «poche», ovvero alla motivazione del comportamento dell’allumeur. Senza spiegare esattamente “cosa” («Non lo so»), dice almeno “come” accade ciò: i suoi pensieri «corrono», sono cioè incontrollabili, e lo fanno in modo da provocare paura («paurosamente»). Qualsiasi cosa accada in Sara, non è qualcosa che sente di poter controllare. In (42) è espresso lo stesso contenuto, pur con la descrizione di una situazione concreta: Jacopo vorrebbe controllare, tramite la scrittura, i suoi pensieri, ma il movimento del treno che «corre come un pazzo» glielo impedisce: il treno è un elemento reale del contesto, ma sembra allo stesso tempo metaforizzare qualcosa di incontrollabile, di non riconducibile alla «linea» della scrittura e del pensiero razionale, stategico.
A questa incontrollabilità dei «pensieri che scorrono nella mente» [DANILO-CRISTINA], l’allumeur cerca di rispondere assumendo il controllo di elementi secondari:
(44) Ciao Dani, chissà perché quando si scrive si sente il bisogno intimo di guardare l’orologio, di dare con un’ora definita un ordine inalterabile ai pensieri che scorrono nella mente. E chissà perché poi l’ora che si scrive sul margine del foglio è sempre intera, quasi le manciate di minuti togliessero dignità alle parole, quasi che si volesse fingere disinvoltura, ordine mentale, proprio quando la penna corre sul foglio e si arena tra le righe, tra le cose mai dette, tra i sorrisi invisibili e le lacrime celate… [DANILO-CRISTINA]
Il controllo fittizio sul tempo, quando l’allumeur scrive, serve per «fingere disinvoltura». Come nei casi precedenti l’incontrollabilità è legata o provocata dalla scrittura, che si rivolge all’interlocutore, la vittima: «la penna corre sul foglio» ma «si arena tra le righe», e il risultato è nascondere l’emotività: «cose mai dette», «sorrisi invisibili», «lacrime celate».
Tra le immagini dell’incontrollabile e la comunicazione delle emozioni alla vittima sembra esserci un nesso preciso. Cristina non sembra soddisfatta di aver comunicato alcune sue emozioni:
(45) Sono molto confusa dallo stato di euforia in cui sono piombata dopo esserci visti per poche ore … mi chiedo […] come si possa giocare ad aprirsi in un secondo … Ancora non capisco; non sono una donna razionale, ma so valutare ed attendo prima di farlo … [DANILO-CRISTINA]
Lo scontro tra qualcosa di controllabile e qualcosa di incombente e incontrollabile assume dunque per l’allumeur la fisionomia precisa di un tentativo di evitare la comunicazione delle emozioni, o l’emergere delle emozioni stesse. Dopo aver riportato una poesia che parla di un affetto lontano, Cristina chiude così un mail:
(46) Sono queste parole che mi rimbombano dentro e mi fanno sentire quel rumore di fondo che non permette[…] di essere coperto dalla mia voce [DANILO-CRISTINA].
Anche Jacopo usa espressioni di un campo semantico vicino a quello di «rimbombo» per descrivere ciò che prova per Emma [EMMA, vittima, intervista]; inoltre definisce «attitudine eversiva» [EMMA-JACOPO] il proprio palesare l’attrazione per Emma con un bacio, e dichiara:
(47) mi è assolutamente chiaro che io provo un sentimento e anche il desiderio razionale di sedarlo [EMMA-JACOPO].
Cristina sembra perfino condensare questa idea in una sorta di lapsus, per cui «eludere le proprie reti di sorveglianza» equivarrebbe a “(??) deluderle”; il superamento di determinati limiti è definito alla lettera come qualcosa di «splendido», ma connotato come qualcosa di indesiderato nel caso invece si voglia dare rilievo al lapsus:
(48) Mi stupisco nel percepire l’urgenza di rivedersi e ne sorrido ammettendo che sì, è splendido riuscire ad eludere le proprie reti di sorveglianza e riuscire a meravigliarsi con gesti, fatti e sentimenti … [DANILO-CRISTINA, corsivo mio]
Il sintagma «ad eludere» presenta nella grafia le stesse lettere ed è nella lettura continuata quasi omofono di “a deludere”. La preposizione “a” con la “d” eufonica si presenta solo un’altra volta nel corpus composto dai testi di Cristina, e in un contesto particolarmente formale, un racconto («ad uscire» [DANILO-CRISTINA]), mentre altri sintagmi che permetterebbero la forma “ad” contengono la forma semplice “a” («a esplorarsi») perfino davanti a vocale identica («a aspettare»); tale unicità nel corpus sembra confermare la sua necessità in quel contesto per esprimere un doppio contenuto, quello espresso dalla grafia e quello leggibile nel lapsus.
L’allumeur cerca di non comunicare la propria emotività, il proprio coinvolgimento, di qualsiasi tipo esso sia, verso la vittima. Questa volontà di astenersi dall’esprimere l’emotività deve essere letto a sua volta come un modo di mettersi in mostra, un desiderio di unicità:
(49) lasciarsi andare alle emozioni è una cosa che fanno tutti; controllarsi serve a distiguersi [DIANA, allumeur, intervista].
Diana ripete spesso la battuta «odio innamorarmi di Schwarzenegger», detta di una foto o altra immagine di un soggetto che definisce «troppo sensuale»: un «narcisismo o egocentrismo si infrange contro la coscienza di essere uno come tanti» [DIANA, allumeur, intervista, corsivo mio]. Così l’allumeur cerca di minimizzare il coinvolgimento che pure sta esplicitando:
(50) È scontato, certo, ma mi piacerebbe molto poterti conoscere meglio, poterlo fare subito […] [DANILO-CRISTINA, corsivo mio]
(51) E Voi? Credete di essermi molto simpatica Voi? Avete invece, agli occhi miei, delle qualità allontananti.
Prima di tutto siete bella.
E precisamente di quella bellezza che piace a me. Vi ho veduta poco, ma osservata molto: siete proprio bella (vi giuro che ho dispetto, quasi, di doverne così stupidamente convenire!) [AMALIA-GUIDO, corsivo mio, cfr. Asciamprener 1951, lettera di Guido Gozzano del 10/06/1907].
La vittima occasionalmente può accorgersi, e cercare di sviarlo, del tentativo dell’allumeur di controllarsi, e conseguentemente di controllare l’intero rapporto:
(52) credo forse che non dovremmo insistere troppo su [l’importanza della casualità negli incontri], per non fare qualcosa di simile al “programmare” le sensazioni future [DANILO-CRISTINA].
Il tentativo di programmare il futuro va al di là del rapporto con la vittima, e coinvolge in genere il tempo, che si presenta nella comunicazione dell’allumeursempre connotato come elemento incontrollabile, comportandosi in modo spaventoso, sfuggente, come quando corre e ne resta sempre meno da vivere:
(53) […] noi vecchi […] abbiamo una specie di obbligo di dimostrare a noi stessi e agli altri che stiamo programmando il futuro, perché meno ce ne resta e più lo si deve programmare [EMMA-JACOPO].
I temi dei sentimenti e del tempo che fugge non sono scissi: l’emotività di un rapporto e la corsa del tempo verso la morte evocano entrambi l’ansia per l’incontrollabile percorso che assumeranno, l’ineluttabilità del loro destino:
(54) […] quando ci si innamora di una persona non si riesce ad immaginare il momento in cui comincerà a diventarci sempre meno unica, poi, pian piano indifferente. E non lo vogliamo neanche ammettere, perché è come ammettere l’ineluttabilità del ciclo: tutto nasce, tutto vive. tutto muore. Non so perché, ma tutti i miei discorsi finiscono a ricordarmi la mia angoscia per la vecchiaia. Io non la ammetto, non c’è niente da fare […] [EMMA-JACOPO]
Sono ormai chiari due lati di un bisogno di controllo totale dell’allumeur: i due elementi il cui sfuggire gli crea angoscia sono il tempo e i sentimenti inerenti il desiderio. Il primo corre, irrimediabilmente, verso la morte. Il secondo sembra essere un sottotema, sia pur centrale, dell’altro: anche il desiderio corre verso la propria morte, la morte dei sentimenti forti dell’innamoramento, attraverso il rapporto che si concretizza, diviene abitudine, poi muore:
(55) Non ha paura. Sa perfettamente cosa potrebbe accadere. Conosce il passo dell’innamoramento, conosce il dolore della disillusione. Ma resta. Non può andar via senza sapere. Saprà, la ragazza. Piangerà amare lacrime in quel letto. Già le può sentire se chiude gli occhi. Ma non importa ora. Neanche il sole ha la solita importanza. Stamattina non c’è fretta di porgergli le guance. Aspetta, la ragazza. La primavera. Il dolore. La conoscenza. Verranno [DANILO-CRISTINA].
In questa visione, vivere il desiderio e l’amore porta inevitabilmente alla sconfitta di fronte al tempo, che affievolisce il sentimento: porta a scontrarsi con la morte, nella forma della morte dei sentimenti. Così, l’allumeur è terrorizzato a lasciarsi andare a seguire il proprio desiderio; e l’oggetto del proprio desiderio, la vittima, è un potenziale psicopompo, una via aperta verso l’incontrollabile, verso la morte. L’allumeur vuole quindi controllare, “congelare” l’incontrollabile desiderio erotico.
Cristina, in una cartolina che segna l’inizio del contatto epistolare con Danilo, descrive la propria città con immagini che rimanderebbero alla sensualità, se non ne venisse descritta solo la mancanza. La «calura estiva», che avrebbe una connotazione di vitalità e sensualità, è resa un quadro fisso, freddo, immobile, «addormentata nell’ombra dei vicoli». La figura “viva” è una donna (cioè, nel paragone, un’isola fluviale), ma è «stanca» e «stesa»; altri elementi di vitalità e sensualità sono relegati nel passato: l’amore fisico degli amanti è distante, è solo qualcosa per cui si sente la «nostalgia di vecchi amanti perduti». Eppure tutto ciò non è un quadro negativo, ma per Cristina rappresenta la «magia» della propria città. Non mancano neppure i fantasmi: è una città morta, in cui la morte riguarda principalmente l’erotismo e la vitalità:
(56) I marciapiedi […] servono per ascoltare il fiume, gli spiriti dei ragazzi di una volta che si sono picchiati, derisi, amati camminandovi… [DANILO-CRISTINA]
Questo “congelamento”, guidato dall’allumeur, del suo rapporto con la vittima, teso a non oltrepassare mai una fase preliminare, e che caratterizza tutto il rapporto allumistico, mette in pratica una filosofia del piacere in cui un attore si compiace, in modo marcato in quanto senza eccezioni, nel non raggiungere mai l’obiettivo meno marcato nelle situazioni cui partecipa o che aiuta a evocare (fatto che per la vittima, ignara, si presenta come un rimando asintotico). Tale atteggiamento può essere illustrato dalla seguente definizione del concetto di “sessuale”:
[…] più veramente sessuale mi pare ciò che accade al di qua dell’orgasmo, arriverei a dire al di qua della ricerca stessa dell’orgasmo, che è sospetta […] fino dai suoi primi scavi, dalle sue prime mosse. In qualche modo, sì, la ricerca dell’orgasmo corrompe lo scambio sessuale. […]
Ecco perché quella che ho chiamato fenomenologia del lievemente è più sessuale della fenomenologia del pesantemente. Certo, se non ci fosse dietro, sullo sfondo, l’oscuro bruciante dell’orgasmo e dell’abbandono fisico totale, il lievemente non sarebbe neppure sessuale; sarebbe l’affetto e basta. Ma lo specificamente sessuale, lo squisitamente sessuale è il lievemente che vibra, trattenuto, sulla soglia del pesantemente; e poi, nel pesantemente, ciò che non è ancora il del tutto perdutamente [cfr. Luigi Lombardi Vallauri, 1987, Per una filosofia del piacere, in Lombardi Vallauri 1989, pp. 324-5].
Resta da comprendere quanto di positivo, cosciente e propositivo, e quanto invece di negativo, come una fuga o un evitamento, vi sia nel comportamento dell’allumeur. Quando l’allumeur si lascia parzialmente andare, e concede qualcosa alla vittima, fugge poi repentinamente, come Jacopo: dopo un bacio con Emma cercherà sempre di più di allontanarsi, pur scrivendo lettere sempre più esplicitamente appassionate, e ricche anche dal punto di vista formale (la lettera per dire addio al sentimento, per parlare di un futuro solo amichevole, descrive un possibile incontro futuro in prosa poetica in endecasillabi). Cristina, dopo un incontro erotico con Danilo, lo rivedrà una volta, a un mese di distanza, comportandosi in modo molto distaccato, per poi non farsi più vedere per un intero anno, e attendere solo il secondo anno per cercare Danilo con attenzioni e atteggiamenti che ricordassero il periodo del loro incontro [DANILO, vittima, intervista]. La parentesi potenzialmente passionale tra Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti «[s]i chiude […] per sopravvivere senza più tensioni, all’insegna di una dichiarata devozione all’arte» [cfr. Guglielminetti 1993, p. 12], dopo un paio di episodi in cui Amalia gli mostra inequivocabilmente la propria attrazione, episodi che Guido si affretta a denigrare, esprimendo il tema della paura dell’incontrollabile (vedi corsivi):
(57) Quando l’altro giorno uscii dal vostro salotto con la prima impronta della vostra bocca sulla mia bocca mi parve d’aver profanato qualche cosa in noi, qualche cosa di ben più alto valore che quel breve spasimo dei nostri nervi giovanili, mi parve di veder disperso per un istante d’oblìo un tesoro accumulato da entrambi, per tanto tempo, a fatica. E ieri, l’altro, quando scendeste disfatta nel vestito nel cappello nei capelli, e mi lasciaste solo in quella volgare vettura di piazza, io mi abbandonai estenuatissimo contro la spalliera, dove alla finezza del vostro profumo andava succedendo l’acredine del cuoio logoro… E nel ritorno (orribile!) verso la mia casa, sentivo il sangue irrompermi nelle vene e percuotermi alla nuca come un maglio, e, col ritmo fragoroso dei vetri, risentivo sulla mia bocca, la crudeltà dei vostri canini [AMALIA-GUIDO, corsivo mio, cfr. Asciamprener 1951, lettera di Guido Gozzano del 09/12/1907].
Quando non riesce a perdurare nella sua «filosofia del lievemente», l’allumeur si sente offeso e minacciato: perché ha perso il controllo della situazione (58) e perché ha perso il controllo di sé, banalizzato, in un gesto comune che non gli permette di spiccare tra gli altri; insomma, se Orfeo avesse portato a compimento il salvataggio del suo amore, per amore, non sarebbe diventato Orfeo (59):
(58) […] tu all’inizio parlavi di scegliere, e io tremavo al pensiero che tu stessi veramente nella condizione di scegliere [EMMA-JACOPO].
(59) Chissà cosa avrebbe fatto Orfeo, se non si fosse voltato indietro, se avesse riportato viva Euridice, se l’avesse avuta come la desiderava, chissà se poi pian piano il ricordo di quella musica con cui aveva commosso le pietre, e i custodi dell’Ade, si sarebbe sbiadito […] [EMMA-JACOPO].
Questa fantasia mitologica sembra nascondere una giustificazione del desiderio di morte della persona amata. Nei casi in cui la vittima sia particolarmente pressante nelle richieste, non si tiri indietro, o la distanza e gli impegni pratici non siano sufficienti a distanziare la coppia allumistica, messo di fronte al proprio desiderio, l’allumeur può esprimere l’estremo tentativo di controllo sulla situazione, di eternazione del presente, di “congelamento” del percorso verso l’incontrollabile, desiderando o immaginando di uccidere la vittima, come Jacques durante una potenzialmente romantica passeggiata in campagna, sulla riva di un laghetto (60), o Jacopo, dopo le richieste di Emma di chiarimenti immediati sulla sua condotta (61):
(60) Se io ti uccidessi qui, non lo verrebbe a sapere nessuno [CAMILLA-JACQUES].
(61) Mi sento come un ragazzino che ha catturato una lucertola con la bottiglia per vederla morire lentamente [EMMA-JACOPO].
Il rapporto allumistico è quindi un compromesso tra voler vivere il rapporto con la vittima e non permetterne alcuno sviluppo: il rimando asintotico con cui si manifesta non è che un tentativo di eternare il rapporto, per fermarlo in una sua fase iniziale, dove i sentimenti sono forti e lo sviluppo è reso impossibile, e dunque, paradossalmente, diviene controllabile. La paura dell’allumeur di avere la vittima è riconducibile alla stessa ansia della morte, la morte delle cose: entrare in un rapporto significa anche vederlo evolversi, col rischio di viverne la fine. Per questo, e per la sua stessa spinta ad accondiscendere il desiderio, l’allumeur teme la vittima fino al desiderio di ucciderla. Mentre eternare un rapporto è la risposta al desiderio di viverlo, il desiderio di uccidere la vittima è la risposta all’incontrollabilità del desiderio di viverlo.
L’analisi contenuta in questo paragrafo offre delle possibili cause profonde del comportamento dell’allumeur. Ciò significa che, rispetto all’analisi linguistica proposta in questo lavoro, è necessario fare alcune precisazioni. Il rapporto allumistico è una situazione relazionale leggibile in chiave linguistica, con una sua semiotica ricorrente che ne permette il riconoscimento; i suoi ruoli possono essere interpretati da chiunque e con qualunque motivazione, seguendo semplicemente una retorica che può essere descritta nei dettagli, ad es. per burlare una persona, o farla coscientemente soffrire. Molto più spesso però sembra che le caratteristiche del rapporto allumistico si collochino in un territorio di mezzo, tra la volontà cosciente dell’allumeur di attuare una retorica per ottenere gli scopi che lo caratterizzano, e la spinta a incarnare il proprio ruolo data dalle motivazioni individuate in questo capitolo, spinta profonda, e incontrollabile in una misura che non è dato sapere.
Ringraziamenti
Intendo ringraziare il prof. Pierangiolo Berrettoni, per avermi insegnato negli anni le trame in cui si intersecano linguaggio e potere; la dott. Carmen Dell’Aversano, senza la quale questa ricerca non sarebbe semplicemente iniziata, per la sua continua e preziosissima opera maieutica; il dott. Giovanni Lancellotti, per l’entusiasmo con cui ha accolto questo lavoro; e infine tutte le persone che, in misura diversa, con letture, suggerimenti e indicazioni hanno contribuito a questa ricerca: Rachele Carini, la dott. Cristina David, il prof. Alessandro Grilli, il dott. Mauro Nervi, Simone Dragoni, Federico Melosi, la dott. Simona Beccone, Lorenzo Filipponio, il dott. Arrigo Stara; e infine tutti coloro che hanno fornito pagine e documenti della loro vita privata.
Riferimenti bibliografici
Nota: Il corpus è costituito, nella sua totalità, da una quindicina di casi di rapporti allumistici, tra cui cinque molto documentati e centrali per l’analisi. Nel numero complessivo sono compresi alcuni casi di finzione narrativa.Asciamprener, Spartaco, (1951), (a cura di), Lettere d’amore di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, Milano, Garzanti, 1951.
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Grice, Paul, (1989), Studies in the Way of Words, Cambridge & London, Harvard University Press, 1989. Guglielminetti, Marziano, (1993), Introduzione a Guido Gozzano, Roma-Bari, Laterza, 1993.
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Gabriele Lenzi
E-mail: gabrilenzi@yahoo.it