Serenella Pegna [1]
Nonostante l’apparenza, questo titolo non è un’etichetta di tweet, ma l’immagine finale dello spot di un’acqua minerale che compare a pieno schermo, su fondo azzurro, mimando i vari #restiamoacasa o #andràtuttobene governativi. E, se non lo si prende male, è più bello dei tanti che oggi propagano energia ed ottimismo per la ‘ripartenza’. Perché citare pubblicità e slogan per parlare di questa lunga e incerta quarantena? Perché, come ipotesi, per chi non ha avuto esperienza diretta del virus, la comunicazione (pubblica, social, contraddittoria, l’infodemia come dice l’OMS) è stata il contenitore delle nostre vite.
Queste pagine ripercorrono i giorni che vanno dalla prime avvisaglie di epidemia in Italia fino all’avvio del lockdown nazionale, momento in cui i messaggi, per così dire, si stabilizzano. È stato un periodo intenso e caratterizzato da fasi diverse, per cui è opportuno ricordarne le date e la cronaca.
Il 31 dicembre 2019 la Cina segnala la diffusione di ‘casi di polmonite ad eziologia ignota’. L’epicentro è la città di Wuhan, capitale del maggior distretto produttivo cinese e, si scopre, piena di stranieri e di italiani. Moltissimi Cinesi si spostano in occasione del Capodanno. Verso fine gennaio le autorità italiane avviano un controllo dei transiti aeroportuali con corridoi sanitari e scanner termici. Il 30 gennaio l’OMS dichiara ‘emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale’ l’epidemia di coronavirus in Cina e il 31 a Roma due turisti cinesi, al termine di un tour per varie città italiane, vengono ricoverati affetti da coronavirus; un terzo viaggiatore, italiano, proveniente da Wuhan, si mette autonomamente in quarantena. Lo stesso giorno il Consiglio dei Ministri delibera lo stato di emergenza, che consente nel limite di sei mesi la concentrazione dei poteri nell’esecutivo, la sospensione di alcune libertà personali “al fine di consentire l’emanazione delle necessarie ordinanze di Protezione Civile”. Contro le raccomandazioni dell’OMS e con gran battage pubblicitario, vengono sospesi i voli diretti fra Italia e Cina; il transito continua attraverso scali intermedi e si perde traccia dei potenziali malati.
I Cinesi in quanto Cinesi, viaggiatori, trapiantati, italiani, diventano ‘la’ minaccia. Il presidente della regione Veneto propone due settimane di ‘isolamento volontario’ dei cinesi in età scolare, si verificano aggressioni verso persone dall’aspetto asiatico, i giornali di destra tuonano contro ‘il virus comunista’, mentre è politicamente corretto attestare la propria solidarietà frequentando i ristoranti cinesi, finché cautelativamente tutte le attività cinesi in Italia chiudono. Mentre si accusano le autorità di Pechino di aver deliberatamente e colpevolmente taciuto, se non anche prodotto, l’epidemia e di usare metodi terroristici verso la popolazione per combatterla (circolano anche falsi video), si insinua un filo di ammirata curiosità per l’efficienza consentita ad un governo dispotico. Il 3 febbraio viene inaugurato a Wuhan un ospedale 10.000 posti costruito dal niente in dieci giorni. I telegiornali mostrano in accelerata, in pochi secondi, l’area vuota, lo scasso, le fondamenta, le mura che salgono.
Il 2 febbraio un’equipe dell’ospedale Spallanzani isola il virus e nei giorni seguenti ne sviluppa il genoma. Il virus è stato isolato da mesi in Cina ed il genoma è noto, ma la notizia va sulla prima pagina dei giornali perché sono state ‘tre donne, meridionali, una delle quali precaria’ (pare nell’equipe ci fossero anche due uomini, ma non rilevano). La campagna sui cervelli e le eccellenze italiani in fuga o sacrificati, il disinteresse per la ricerca, la riscossa del meridione e delle donne entra, temporaneamente, a far parte della retorica dell’orgoglio nazionale e del ‘noi contro tutti gli altri’. La valorizzazione del meridione e delle donne sfuma fino a perdersi. Negli stessi giorni l’OMS, denuncia il rischio di ‘infodemia’: “una sovrabbondanza di informazioni – alcune accurate altre no – che rende difficile alle persone trovare fonti attendibili e indicazioni affidabili quando ne hanno bisogno”. Lo fa attraverso il suo report e ma anche con un tweet del suo direttore generale.
Il 21-22 febbraio quasi contemporaneamente a Codogno nel Lodigiano e a Vò, in Veneto, si manifestano focolai di infezione. Inizia la caccia al paziente zero inseguendo ogni possibile traccia di contatto tra i malati italiani e la Cina, in modo da isolare i possibili contagiati. Dopo molte ipotesi e tentativi, si troverà solo un paziente 1, anomalo sia perché giovane e in buono stato fisico mentre particolarmente colpiti sono gli anziani, ma soprattutto perché estraneo ad ogni incontro con Cinesi (pare il contagio fosse avvenuto attraverso la Germania). Il 21 febbraio un’ordinanza del Ministero della Salute, della Regione Lombardia e del Comitato operativo sul Coronavirus stabilisce la chiusura di scuole, locali ed attività produttive non indispensabili nei dieci comuni lombardi interessati. Il 23 un decreto del Consiglio dei Ministri, vista ‘la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni per contrastare l’emergenza epidemiologica’ attribuisce all’esecutivo poteri straordinari. D’ora in poi ‘dpcm’, decreto emanato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, atto amministrativo ‘sovrano’, diventa una parola corrente. Conseguentemente, già nella serata del 23 febbraio un dpcm instaura una quarantena in 11 comuni (i 10 lombardi più Vò).
L’esercito sorveglia i confini dei paesi e controlla i varchi di entrata e uscita, ma qualcuno evade e comunque, si scoprirà dopo, interi autobus di anziani dalle province vicine sono stati a Codogno per un festival di ballo liscio poche settimane prima. Il pronto soccorso dell’ospedale di Codogno diventa il principale incubatore della malattia. Il virus è diventato un problema interno e l’Italia, primo paese in Europa, prende il posto della Cina come minaccia e potenziale ‘untore’. Dal 23 febbraio i paesi confinanti sospendono i voli dall’Italia, ma la notizia viene ridimensionata da ulteriori precisazioni, comunque rientra nel tema ‘l’orgoglio dell’Italia sola’.
La variabile principale diventa la tenuta del sistema sanitario del paese, diseguale per dotazioni e caratteristiche e di competenza, fatti salvi gli indirizzi generali, delle singole Regioni. Uno dei primi nodi del sistema paese che vengono al pettine del covid.
Nel frattempo i virologi italiani, pesantemente divisi, sono molto sollecitati dai media. Le interviste televisive vengono raddoppiate e rincarate dai social media. Dal proprio sito o dalla propria pagina Facebook, per alcuni si tratta poco più di una forte influenza (“A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale.” Gismondi, ospedale Sacco di Milano) per altri di una grave/mortale minaccia pandemica (Burioni, San Raffaele). Sia una parte che l’altra esortano: ‘Guardate i numeri!’, dai quali però essi estraggono conclusioni opposte. I numeri, con le loro ambiguità e impotenze, diverranno un elemento chiave della comunicazione nei quotidiani bollettini della Protezione Civile delle 18 (così come nelle more della ‘fase 2’ l’esasperato Ministro Boccia: “Chiedo alla comunità scientifica, senza polemica, di darci certezze inconfutabili e non tre o quattro opzioni per ogni tema … CdS 14/4).
Mentre i tentativi di arginare la diffusione del contagio ricostruendo i primi contatti sono ormai inutili (‘la finestra si è chiusa’), nei talk show ad una prima fase di allarme estremo, evidentemente controproducente, segue un tentativo di abbassare i toni, come se si cercasse un punto di equilibrio nella comunicazione. Per un po’ viene ripetuta una saggia distinzione: ‘paura sì, panico no’. La paura infatti è un sentimento utile, che ci avverte di un pericolo cosicché razionalmente possiamo farvi fronte, mentre il panico ci padroneggia e ci rende impotenti. Ma basta articolare questo chiaro discorso perché si autodistrugga: “quando, come nel caso di un virus, la minaccia non è visibile né localizzabile né riconoscibile, la paura si trasforma. E diventa angoscia…”, ‘la paura della paura..’. Già dal tardo pomeriggio del 23 febbraio, mentre le strade sono vuote, lunghissime file di carrelli si formano davanti ai supermercati nelle regioni del Nord. Temendo una chiusura generalizzata o l’esaurimento delle scorte vengono vuotati gli scaffali. In particolare scompaiono pasta, carta igienica, pelati, farina e lievito (per fare il pane in casa). Un addetto agli scaffali osserva: ‘Fino a un mese fa erano tutti intolleranti al glutine ed improvvisamente.’. Amuchina e mascherine sono introvabili. Si vedono interi carrelli di confezioni da 6 di acqua minerale. Le fotografie scattate col cellulare e postate immediatamente sui social, riproposte da giornali e televisioni, fanno da moltiplicatore. Ci salva l’ironia: a fronte di interi scaffali vuoti, le scatole di penne lisce (e in parte le farfalle) rimangono suscitando una nube di commenti del tipo “Pasta liscia il male assoluto, peggio del coronavirus”. In favore delle penne lisce interviene, il 29 febbraio, il sito dell’autorevole e quasi centenaria rivista ‘La cucina italiana’.
Il 25 febbraio le restrizioni vengono estese a tutte le sei regioni del Nord, vengono chiuse scuole, università, luoghi di possibile assembramento, attività e commerci non indispensabili, limitata la mobilità.
Dalla Lombardia, che sia per il numero dei contagiati, sia per il peso economico, sia per l’orientamento politico, si presenta come il primo contraltare del Governo, (ogni giorno prima del bollettino delle 18 della Protezione Civile, la Regione Lombardia sul proprio canale Youtube emette il suo) arrivano messaggi e fatti contraddittori. In seguito alla positività al virus di una sua collaboratrice, il presidente Fontana compare in televisione con una mascherina dichiarando di essersi messo in quarantena. Il gesto viene criticato in quanto potenziale moltiplicatore di panico. Intervistato da Repubblica (28/2) conferma l’importanza dell’uso delle mascherine ma ammette “fino a qualche giorno fa tutti dicevano che questo virus era peggio della peste bubbonica. Poi improvvisamente, senza che sia successo qualcosa, sembra che il coronavirus non esista più…”. A Milano intanto il 27 febbraio il segretario PD Zingaretti partecipa ad un affollato aperitivo sui Navigli a sostegno del sindaco PD di Milano, Sala, che lancia lo slogan #Milanononsiferma. Nel video, bellissimo, scorrono veloci i nomi di molte città, inclusa #Codognononsiferma, e l’ultima immagine si fissa su #l’Italianonsiferma. Lo stesso giorno l’assessore alla Regione Lombardia Gallera ipotizza che in 7-14 giorni si potrebbe uscire dall’emergenza. PD e Lega intrecciano sfumature di strategie. Dieci giorni dopo (il numero dei giorni di incubazioni è da manuale) Zingaretti, colpito dai sintomi del virus, si mette in autoquarantena.
Il 27 febbraio, secondo i dati della protezione Civile, i contagiati sono in tutto 650, di cui più di 400 in Lombardia, sui cento in Veneto ed Emilia Romagna (nessuno in Lazio dato che i coniugi cinesi ed il ricercatore passato dalla Cina sono guariti); i morti sono 17, il primo decesso è del 21, in Veneto e si tratta di persone anziane e dalla salute compromessa. Il moltiplicatore del contagio si è avviato, ma prevale l’incertezza.
Mascherine e tamponi diventano oggetti o miraggi familiari. Beni a bassissimo valore aggiunto, nessuna mascherina viene più prodotta in Italia poiché la loro produzione è stata completamente delocalizzata in Cina, che in questo momento non è in condizione di esportarne. In un sussulto di autocelebrazione nazionale le case di moda italiane (Fendi Gucci etc.) si esercitano nella produzione di mascherine, ma la cosa si ferma lì, apparentemente a poche centinaia. Diventano quindi un bene rarissimo e prezioso, oggetto di accaparramento e speculazione ma soprattutto di controversa utilità. Ce ne sono che proteggono gli altri dai nostri eventuali virus, che proteggono noi sputandoli fuori o che proteggono tutti ma ostacolano la respirazione, più moltissimi altri tipi mai visti né immaginati. I consigli degli esperti (incluso OMS e ISS) sono i più contraddittori: sono inutili, sono utili ma fin lì, anzi sono pericolose se usate male, andrebbero sostituite e smaltite come residuo pericoloso ogni quattro ore altrimenti diventano delle colture batteriche e virali, ma -sia detto tra noi- si possono anche riciclare, sono obbligatorie nei luoghi pubblici o chiusi ma aperti al pubblico, ‘ma non se ne trovano!’, ‘ve le dà la Regione!, ‘evviva, tutti (noi) con le mascherine!’ (e non quelle da coniglio Bunny distribuite in Campania dalla Protezione Civile. Vedi video De Luca). Viene il dubbio che anche le alte autorità che sconsigliavano l’uso delle mascherine lo facessero soprattutto in funzione della loro rarità. Anche, forse, per arginare un panico che d’altra parte era funzionale a convincere intere popolazioni ad adottare comportamenti di cautela ed in sostanza a chiudersi in casa. Insomma, ben lontano dall’oggettività dei numeri, un aggiustamento millimetrico e costante. Il dramma è che le mascherine, ed i loro stretti protocolli igienici, sono mancate nei momenti cruciali dove sarebbero state necessarie, cioè negli ospedali e nei ricoveri per anziani. Su questo punto si preannunciano lunghe e penose rese dei conti.
Il tampone diventa un’altra entità familiare in questa occasione, in quanto maggior diagnostico del virus. Anche in questo caso c’è scarsità, o scarseggiano i reagenti, o il personale qualificato o i laboratori abilitati ad analizzarli. I tamponi producono numeri e quindi la loro comunicazione ufficiale è potenzialmente un regolatore della situazione di panico. Aumentando il numero di tamponi aumenta la probabilità di intercettare malati asintomatici, ma contagiosi, evidenziando la diffusione del contagio, ma si assottiglia l’indice di mortalità, cruciale dal punto di vista della comunicazione ufficiale. La differente preparazione e strategia delle sanità regionali complica ancora la situazione e rende i numeri poco più che messaggi emotivi.
Dopo l’iniziale affollamento dei pronto soccorso ospedalieri da parte di persone spaventate (causa a sua volta di diffusione di contagi) OMS ed ISS raccomandano di somministrare tamponi solo alle persone ‘sospette’, che mostrino almeno uno di 4 sintomi su valutazione del medico di famiglia. E anche qui verrebbe il dubbio che forse a questa cautela non sia estranea l’aspirazione ad adeguare le disponibilità di questi presidi alla loro domanda. La regione Veneto, disobbediente, utilizza molti più tamponi. Se sia stato questo a limitare relativamente il contagio pare oggi certo.
Il 4 marzo sempre con dpcm vengono chiuse scuole, stadi, vietate le visite ad istituti penitenziari ed ospedali. Nella notte fra il 7 e l’8 marzo un ulteriore dpcm proibisce gli spostamenti da un comune all’altro, salvo casi di documentata necessità. Una fuga di notizie nel pomeriggio del sabato è all’origine di un’ondata di partenze dalle ex zone rosse verso il Meridione e verso le case di vacanza (dal’Engadina alla Sardegna), configurando così il più classico meccanismo di contagio. I telegiornali mostrano con scandalo l’affollamento convulso alla stazione di Milano, anche se, con ogni probabilità, la ‘grande fuga’ era già avvenuta e la stazione poco più affollata del normale (Rep 24 aprile). Dal 7 all’8 marzo scoppiano contemporaneamente rivolte in dieci carceri, 13 detenuti muoiono, varie decine evadono. Con il rischio altissimo di contagi, il sovraffollamento cronico delle carceri è un altro dei nodi antichi che emergono per poi essere presto accantonati e travolti da altri eventi. Quel fine settimana è probabilmente il momento di maggior confusione e allarme. Alle 17 di sabato 7 marzo Luca Sofri de Il Post pubblica come tweet una foto che ha appena preso a Milano ‘Navigli il sabato al 50%, a occhio (sono tutti dal lato del sole, di là è più vuoto)’. I tavolini dei locali sono occupati, non è impossibile camminare ma la strada nereggia di gente. Le reazioni sono immediate: molti (soppesando l’inclinazione delle ombre ed il livello del Naviglio) insinuano che la foto risalga ad una o due settimane prima, quando l’allarme era più basso, ma la maggior parte prende un tono aggressivo: ‘senza esercito per strada e cancelli delle case saldati non ne usciamo’ ‘questa umanità merita l’estinzione’ ed un ciclico ‘non ce la possiamo fare’…
Il 10 marzo viene decretato il lockdown esteso a tutto il paese, chiudono negozi e magazzini, e lo slogan diventa ‘#iorestoacasa’. Almeno in teoria l’unica possibilità di comunicazione al di fuori di casa è la connessione online (il telefono e la televisione, ma anch’essi elettronici?) o gli occhi, allarmati se proprio non li conosciamo bene, dei pochi commercianti abilitati. Online per l’occasione viene offerto di tutto: dalle ricette di cucina ai consigli degli psicologi per stabilizzare l’umore, visite virtuali a musei, piattaforme per chat fra amici, per seminari lezioni esami. Sono proibite le funzioni religiose e le cerimonie pubbliche. Chi esce di casa deve essere provvisto, o compilare nel momento in cui viene controllato, un’autodichiarazione nella quale ne giustifica il motivo: comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità (ad esempio fare la spesa) e motivi di salute. Dall’11 al 26 di marzo si susseguiranno tre modelli di autogiustificazione, dal testo sempre più lungo e più minaccioso. Chi lo leggesse con attenzione, dopo averlo firmato, ritroverebbe l’inanellarsi dei provvedimenti legislativi. Con il decreto (o dpcm?) del 25 marzo le sanzioni arriveranno a 3.000 euro e a 5 anni di carcere per chi, riconosciuto malato e confinato in casa, violasse la quarantena uscendo.
Le voci che giustificano le possibilità di uscire, complicate da ordinanza regionali e comunali, creano una nube di dubbi su cosa si può o non si può fare e si moltiplicano; sui siti istituzionali o associativi, liste di FAQ che lasciano molti dubbi. La passeggiata igienica va sotto la voce ‘salute’, ma si deve restare nelle vicinanze di casa, la vicinanza è relativa, ci si può allontanare di 100 o 200 metri, bisogna muoversi velocemente quasi come si facesse ginnastica, attività in sé vietata, o meglio stare composti, ci si può anche sedere? Quanto posso sgarrare se la strada è deserta? Posso agire secondo il mio buon senso o devo obbedire ad un comando vuoto? E quali saranno i margini di elasticità concessi dalla polizia di turno che eventualmente mi controlla? Oscillando fra un occasionale gusto della birichinata e l’attivazione di fantasie persecutorie ci salva, ogni tanto, l’ironia. Mentre chi non ha problemi più grossi aggiusta di giorno in giorno i propri desideri alle possibilità del momento, la comunicazione pubblica non usa sfumature.
Chi nel talk show introduce qualche dubbio sulla legittimità costituzionale delle limitazioni alle libertà o sul carattere di catastrofe epocale del covid viene bloccato. Il ‘restate a casa!’ con cui Lilli Gruber chiude ogni sera la sua trasmissione ‘otto e mezzo’ da La 7 (parlo di questa trasmissione perché non ne perdo una e certamente è stata una delle più composte) assume in questa fase una severità che tocca una punta di isteria, lentamente raddolcita con la riuscita del lockdown. È chiaro che, per quanto possano essere pesanti le sanzioni, concrete e morali, il ‘distanziamento sociale’ che dovrebbe depotenziare la contagiosità del virus non può essere efficace se non diventa una convinzione.
La pedagogia allarmistica (o una vena civica nascosta) ottiene effetti insperati: gli italiani fanno le file davanti ai pochi negozi aperti, mantengono distanze ben superiori a quelle prescritte, l’intima adesione alle norme di sicurezza trasforma alcuni in severissimi controllori e censori dei comportamenti dubbi. Uno strumento retorico che si attiva quasi naturalmente nelle situazioni critiche è l’adozione di metafore belliche, che dividono un noi e un loro, individua il nemico (volta a volta, dopo la riabilitazione dei cinesi, i runner ed occasionalmente i rider che portano pizze, le persone che siedono sulle panchine o non indossano mascherine…) e ‘i nostri eroi e martiri in trincea’. “Quando la politica affronta un problema molto complesso e suggerisce di averlo compreso e di sapere come sradicarlo dichiarandogli guerra, il processo di studio, decisione e considerazione delle alternative è già sostanzialmente terminato” (A. Solidoro, Doppiozero 2/4/20).
Un sondaggio Yougov (Rep.2/4/20) mostra come gli Italiani intervistati non siano affatto contrari alle misure restrittive: il 44% le giudica sufficienti, ma il 41% ne vorrebbe di più, solo il 7% ne vorrebbe di meno. Fra i giovani dai 18 ai 25 anni, preoccupati più dalla crisi economica globale e dai suoi riflessi sul proprio futuro che dalla malattia, chi vorrebbe misure più severe raggiunge il 52% e, contrariamente a tutte le aspettative, solo il 14% è ‘preoccupato per il divieto di viaggiare o di un possibile coprifuoco’ (Rep.3/4/20). La globalizzazione è sotto accusa, il numero di chi la vorrebbe ridotta è un multiplo di chi la vorrebbe incrementata; anche se su questo i giovani sono più perplessi. Si può osservare che, essendo un sondaggio online, questo ritaglia un campione di popolazione abitualmente connessa ed aggiornata.
Adesso la ‘fase 2’ è scivolata nella ‘2 bis’, troppo rapidamente secondo le centinaia di esperti governativi, troppo lentamente secondo le esigenze degli industriali. Dopo l’attesa del picco posticipata di giorno in giorno, dopo un lunghissimo plateau appena inclinato, i numeri del contagio (sempre discussi e relativizzati) sono decisamente ridotti. Sparite le bande di plastica bianca e rossa da giardini e spiagge, possiamo muoverci dentro la regione senza giustificarci né cercare scuse. Negozi e ristoranti, non tutti, sono aperti e organizzati, come da delibere, con plexiglas e numeri programmati. Giriamo con le mascherine, più o meno ben calzate, e facciamo le file, chi più chi meno, ai negozi. Lilli Gruber, che per un mese e mezzo ha chiuso la sua trasmissione con un invitante ‘teniamo duro!’, chiude ora i soliti dibattiti senza ammonimenti. La pubblicità, che in Italia come dappertutto evidenziava solo parole come ‘famiglia, insieme, protezione’, ha ricominciato ad allargare il proprio campo semantico.
Tutta questa esperienza, della quale si è detto che nulla sarà più come prima, ha evidenziato molte lacerazioni e drammatiche ineguaglianze, dalla salute in fabbrica e nel territorio, al sovrappopolamento delle carceri, all’inadeguatezza di certi sistemi sanitari, ai problemi dei trasporti pubblici, alla situazione dentro le famiglie. Dopo decenni di individualismo si è chiesto più intervento pubblico, più investimenti in welfare, più sanità diffusa. Abbiamo vissuto dentro un quadro interpretativo, un frame, che, di aggiustamento in aggiustamento, era diventato coerente e che adesso torna ad essere frazionato e forse individuale. È possibile che per ognuna di queste lacerazioni si attivino sperimentazioni e soluzioni, ma mentre prima, nei momenti più critici, questa si presentava come una progettualità nazionale, conosciuta, chiara e condivisa, ora, se qualcosa cambierà, lo sarà per la buona volontà di alcuni, al di fuori degli interessi e della consapevolezza del pubblico. Di effervescente, per il momento, si vede soprattutto la movida, e comunque è la fatica della democrazia.
[1] Serenella Pegna (Parma, 1953) ha studiato Scienze Politiche presso l’Università di Pisa e ha insegnato, come ricercatrice, la storia sociale nella stessa università. Si è occupata di immigrazione e di gruppi marginali.
ERBARIO URBANO. Tutte le fotografie sono state scattate dall’autrice a Pisa, sui marciapiedi del trapezio fra Via del Borghetto, Lungarno Buozzi e Via Ridolfi il 5 maggio, tarda mattinata, con cielo coperto. Con il 4 maggio è finita la ‘fase 1’ e tutti, come le lumache, abbiamo rimesso la testa fuori casa; l’avevamo fatto anche nelle settimane precedenti, ma in modo ansioso e frettoloso, con la regola del cane, della spesa, dei 200 metri d’aria. Ora, mascherati e inguantati, si può star fuori e guardare con calma, qualche negozio ha alzato la saracinesca e la strada ha cominciato a ripopolarsi. Tutto sembra come lo avevamo lasciato quasi due mesi prima, salvo una vegetazione spontanea e piena di vita che ha cambiato l’aspetto della strada. Non calpestati né asfissiati né strappati, gerani selvatici, oxalis, plantago, tarassaci, tante parietarie, ortiche, muschi e qualche papavero, ma anche qualche fico e cappero e molti altri sono esplosi. Hanno ridisegnato i margini delle pietre, escono dalle grate dei tombini e dalle fessure fra intonaci e marciapiedi.