… continuiamo a scrivere versioni di un testo che resta comunque invisibile, come un bambino che con le dita traccia effimere linee nell’acqua della pozzanghera… e l’adulto che lo guarda sorride distratto dell’alto della sua consapevolezza, ma ignora che in quelle improbabili tracce c’è il disegno di un progetto futuro, l’ambiziosa architettura che sostiene la speranza ed anche un destino … (anonimo)
La lettura che noi diamo di un evento è sempre un’interpretazione, è una distorsione operata dalle lenti che poniamo tra gli occhi e l’oggetto, per vedere meglio. L’evento nudo e crudo non esiste, in quanto evento psichico, poi, e per la sua stessa natura, non è osservabile senza correre il rischio di essere deformato, in qualche modo.
Le nostre lenti sono la nostra teoria, il sapere, l’esperienza, sono ciò che ci permette di vedere, forse meglio degli altri, vedere più da vicino, ma questi strumenti filtranti sono anche la causa della deformazione di ciò che stiamo osservando.
Lo psicologo nella comunità di recupero, come in altri contesti non istituzionali, si confronta soprattutto con la richiesta di aiuto, una richiesta di aiuto che spesso viene espressa secondo le modalità che hanno condotto alla non-risoluzione del disagio, cioè attraverso il sintomo. La richiesta di aiuto più forte, mirata e disattiva può essere rappresentata da quella del tossicodipendente: non c’è niente di più vero e di più falso in quella richiesta.
Non c’è niente di più vero perché la richiesta di aiuto viene profondamente e autenticamente dal biologico e dallo psicologico, nello stesso tempo non c’è niente di più falso perché le sostanze sono l’esatto contrario di ciò che serve alla persona per uscire dalla situazione di disagio.
Le “sostanze” hanno questo drammatico potere proprio perché intervengono su entrambi i piani. Possiamo pensare al loro effetto e al loro richiamo con un’immagine universalmente nota: se pensiamo ad un neonato che ha fame, allora il cibo, il latte, diventa la soddisfazione del bisogno biologico e di quello psicologico. La soddisfazione dell’uno non serve a far dimenticare l’altro. Il neonato cesserà di allattarsi, di avere bisogno di essere nutrito (da altri), ma avrà comunque bisogno del nutrimento psichico, della madre, o, prima ancora, del seno gratificante. Questa situazione ha luogo in un arco temporale circoscritto, ed è caratterizzata da una tendenza innata verso la crescita, ovvero verso la differenziazione tra il latte-cibo / latte-contatto-madre.
Il nostro processo di svincolo dura molti anni, tutti noi conosciamo l’importanza rivestita dalle figure parentali di accudimento per un equilibrato (o meglio ancora, possibile) sviluppo psichico.
Possiamo immaginarci la dipendenza dalla sostanza come una regressione massiccia verso una modalità di soddisfacimento del bisogno equivalente alla dipendenza neonatale. La struttura stessa della comunità, (da quelle più fisicamente contenitive, a quelle emozionalmente contenitive) può essere pensata come luogo fisico, ma soprattutto psichico, altro, un luogo diverso dall’esterno, dal fuori. La comunità si propone come luogo intermedio tra il dentro e il fuori, dove lo “svezzamento” viene riproposto soprattutto attraverso un legame affettivo verso il gruppo dei pari e verso le figure di “accudimento”, operatori/figure professionali.
Non c’è la proposta di un legame simbiotico con persone e/o terapie, non c’è neanche la solitudine dell’individuo che non potrebbe altrimenti sopravvivere contando soltanto sulle proprie forze. Il rapporto con se stessi e gli altri, tra il dentro e il fuori passa attraverso il gruppo, unione di forze e destini che sostiene l’aspettativa del cambiamento della persona e di emancipazione dalla dipendenza.
La comunità ripropone quindi un periodo di accudimento, di svezzamento dal “latte materno” verso altri cibi; periodo in cui si ripropone la separazione dal “seno”, sollecitando il tossicodipendente a lasciare un piacere ed una fusionalità – sebbene deleteria e autodistruttiva – che nella vita non sarà più possibile sperimentare se non nella sublimazione. Non è un caso che molte delle persone che passano attraverso la comunità pensano di fare in futuro l’operatore, di compiere quindi quella sorta di “riparazione trasversale” che conoscono bene coloro che passano dall’esperienza della genitorialità, “..come tutti coloro che rifiutandosi di ammettere i flagelli, si sforzano di essere medici” (Albert Camus, La Peste 1948).
Il compito degli operatori, di base o professionali, è quello di aiutare i ragazzi a rassegnarsi all’idea che il piacere, nella forma intensa in cui lo hanno sperimentato, non lo troveranno mai più. Uscire dalla dipendenza da sostanza significa recidere un cordone ombelicale.
Il momento del reinserimento è uno degli aspetti fondamentali del programma perché si tratta di verificare il lavoro fatto per più di un anno insieme a educatori e professionisti. L’aspettativa di “successo” è stata per certi versi il motore che ha attivato speranze ed investito energie nell’alleanza terapeutica proposta dalla comunità. Nel nostro caso credo quanto mai opportuno fare riferimento a questo concetto, che nella pratica psicoterapeutica si riferisce alla dimensione collaborativa tra terapeuta e paziente, individuandola come “quel livello di collaborazione che permane nonostante le emozioni forti e spesso negative che possono manifestarsi nel corso del trattamento” (McWilliams 99).
Non a caso la proposta comunitaria può essere pensata come equivalente ad un setting, un setting allargato, ma comunque uno spazio con le proprie regole riguardo alla durata del contratto, alle uscite, alle verifiche, alle riflessioni ed anche alle dimissioni dal programma. Può essere equiparata ad un setting anche per quanto concerne la gestione del segreto professionale e ancor più per i movimenti transferali e controtransferali che si verificano all’interno di quel perimetro.
Non occorre neppure spendere molto tempo per costruire l’alleanza terapeutica e perché avvenga l’accettazione del contratto proposto (molto più difficile è non rompere quest’alleanza); a differenza di molti pazienti nevrotici, si sa subito perché i nostri utenti vengono in comunità: per uscire dalla dipendenza dalle sostanze, anche se è indubbiamente vero che poi le comunità cerchino, nella loro diversità di metodi e di riferimenti terapeutici, di “curare anche il resto”. Accade, infatti, che non sia raro vedere utenti che, mentre all’inizio cercavano solo la disintossicazione nel programma di comunità di accoglienza, chiedano successivamente la comunità terapeutica propriamente detta, con aspettativa di un cambiamento più generale, un cambiamento di personalità. Potremo dire che questo è conseguenza della nostra capacità di far nascere in loro questa motivazione.
La comunità è uno spazio di transizione. Nel momento in cui l’utente esce dalla comunità per passare al reinserimento accade qualcosa di significativo tra utente e figure di riferimento; infatti, se la comunità è la simbolizzazione affettiva della buona madre, il reinserimento si configura in tutt’altro modo: la comunità rischia di diventare il genitore che impedisce e limita la libertà dell’adolescente, che sente la protezione genitoriale di cui è oggetto come un limite alla propria autonomia e come un disconoscimento delle proprie capacità di stare senza questa protezione. È facile quindi che gli attori della comunicazione scivolino verso ruoli disfunzionali. Se si verifica ciò la comunità può diventare istanza super egoica, o legame simbiotico, fallendo nella sua funzione di seconda opportunità di svezzamento e svincolo. L’utente di contro finisce per investire la comunità di questa funzione che lui stesso avrebbe dovuto interiorizzare.
Per coloro che al contrario si collocano in una dimensione preedipica il discorso è paradossalmente più semplice, in quanto il legame nato nella comunità perdura con una richiesta di accudimento che non cessa, e che semmai è messa in crisi dalla paura di perdere il legame con la comunità stessa. Invece, per quegli utenti che si collocano in una dimensione edipica, nel momento del reinserimento serve una nuova simbolizzazione affettiva. La maturità di una comunità può essere vista nella capacità di accettare il cambiamento dell’alleanza, reso implicito dal successo terapeutico, che è contraria alla fantasia, inespressa e invisibile, che sia la stabilità dell’utente a curare la comunità.
Non molto tempo fa mi è accaduto di riflettere con amarezza e senso di colpa su quanto sopra affermato a causa delle vicende di due ragazzi che avevo seguito molto da vicino, nella fase del passaggio all’esterno, anche se con modalità sostanzialmente diverse. Ovviamente mi sono reso conto di quanto accaduto con il senno del poi. Un ragazzo è stato accompagnato verso l’inserimento lavorativo, verso la ricostruzione di legami e progetti di vita, sovrapponendo quelli che potevano essere i suoi desideri e le sue aspettative con i miei, sostanzialmente proteggendolo troppo; l’altro dopo un limitato periodo trascorso in comunità, accondiscendendo alle sue pressanti richieste, è stato sostanzialmente lasciato a se stesso, nel reinserimento vero e proprio.
Quando le cose sono andate male ho passato qualche giorno a pensare cosa era accaduto, prima di trovare il coraggio di ammettere che, in cuor mio, pensavo proprio che, il ragazzo con cui ho seguito questa seconda modalità, avrebbe potuto reggersi sulle sue gambe. Le basi di questo pensiero di autonomia erano in realtà molto fragili, deve esserci stata quindi una fantasia, un desiderio mio di immaginare questo ragazzo non più in situazione di bisogno di aiuto. In un primo momento ho avuto pensieri ancora più negativi, ho pensato che non ero io che “volevo” lui ma era lui a “non volere” me, ad essere sfuggente, perdevo così di vista l’elementare constatazione che la nostra non era una relazione paritaria. Mi sono comportato nei due modi in cui facilmente finiscono per comportarsi i genitori con figli adolescenti: o negano la loro possibilità di autonomia e continuano ad esercitare un pressante controllo, oppure vogliono immaginare una compiuta indipendenza della prole.
In entrambi i casi il risultato è pressoché identico, si finisce da un lato per rendere più nevrotica, faticosa e conflittuale la conquista dell’autonomia filiale, dall’altro si agisce un desiderio di affiliazione o di espulsione del ragazzo, che viene immaginato come era prima, cioè dipendente e bisognoso, o come sarà domani, cioè adulto, ma non come realmente è oggi: pesantemente in conflitto con due bisogni contrapposti, quello di essere indipendente e adulto e quello di trovare protezione nei genitori. Credo che la fatica di confrontarsi con il reinserimento sia proprio quella di misurarsi con le spinte ambivalenti e contraddittorie di persone che hanno bisogno di stare su entrambe le posizioni. Credo anche che dobbiamo rassegnarci all’idea che non esistono modelli vincenti o veri, ma esistono situazioni in cui un modello produce risultati migliori di altri e che, nella fase del reinserimento, non siamo più i terapeuti con cui i ragazzi si sono relazionati per molto tempo, ma rappresentiamo siamo anche le figure genitoriali da cui distaccarsi.
In questa situazione complessa è più che mai importante essere monitorati dall’esterno, attraverso un’attenta e continua supervisione da parte di qualcuno che è “estraneo” all’intervento, con modalità che ricordano la famiglia che va in crisi e/o va in terapia, nel momento dello svincolo del figlio dalle tutele genitoriali.
Daniele Mannini
(Psicologo Psicoterapeuta)