Prefazione

Una poetessa e l’orrore della dittatura sudafricana, la separazione in due territori contrapposti, l’istituzione di campi di concentramento legalizzati, la tortura e l’assassinio.
Dopo la fine del regime bianco razzista un’immensa ferita correva sui confini del nuovo stato, con migliaia di famiglie che non riuscivano a piangere i congiunti scomparsi, di cui non sapevano niente, pur nella tragica certezza della loro morte.
Il Sud Africa che è subentrato al mostro afrikaner ha saputo, con una formula originale e con immensa pietà, riservare un posto al dolore, senza lasciarsi andare a vendette e ad azioni speculari a quelle dei torturatori bianchi.
È stata una grande lezione di umanità, di desiderio di ricomporre, di tornare a vivere, di far trionfare la vita e l’unione contro ulteriori divisioni e lutti.

“Quel che bisogna sapere del dolore”

di Ingrid de Kok (a cura di Paola Splendore)

dalla rivista “Lo Straniero”, numero 23, maggio 2002.

L’evento più clamorosamente “simbolico”, quello che più di ogni altro ha segnato un punto di svolta nel nuovo Sudafrica, è stato forse l’istituzione della “Commissione per la verità e la riconciliazione (Trc), l’organismo di mediazione politica che ha operato dal dicembre 1995 all’estate del 1998. Voluta da Nelson Mandela e dall’arcivescovo Desmond Tutu, la commissione aveva il compito i accertare e rendere pubbliche le gravi violazioni dei diritti umani emerse nei racconti delle vittime dell’apartheid, garantendo l’amnistia a chi avesse reso piena confessione degli abusi compiuti. Al di là dell’importanza dell’operato della commissione, si può affermare che proprio nei suoi obiettivi principali – assicurare “un futuro fondato sul riconoscimento dei diritti umani, della democrazia e della pacifica coesistenza … per tutti i sudafricani”, e far sì che il risarcimento dovuto fosse in primo luogo “simbolico”, cioè contemplasse in primo luogo l’umbutu, il riconoscimento dell’altro e dalla sua dignità umana – la Trc ha rappresentato una sorta di pubblico rito di passaggio da un sistema all’altro, dall’apartheid alla democrazia. Un grande rito catarchico cui l’intera popolazione si è sottoposta, bianchi neri e coloured, per la prima volta con pari diritto di parola e dignità, riconoscendo la necessità di “interrogare il silenzio”, di fare i conti con le zone d’ombra più nascoste. Su questo evento può leggersi in italiano il volume curato da Marcello Flores “Verità senza vendetta. L’esperienza della commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione”, pubblicato dalla Manifestolibri nel 1999.
Fine ultimo della Trc è stato dissotterrare la verità sul passato e renderla pubblica per poter curare le ferite di una nazione traumatizzata, compito che ha svolto con procedimenti inconsueti e controversi, che hanno suscitato polemiche dentro e fuori del paese, ma che ha avuto il merito di portare in primo piano il riconoscimento del dolore sofferto. Il rilievo dato al racconto delle vittime, come emerge ad esempio dal volume “Country of My Skull” (1998, che ancora attende una traduzione italiana) della poetessa e giornalista Antjie Krog – straordinaria opera di testimonianza in cui l’autrice mette in gioco tutta se stessa, la propria identità di boera e di donna – e il coinvolgimento di un’intera nazione all’ascolto, attraverso i media, hanno trasformato la Trc in teatro di grandi narrazioni e di grande suggestione metaforica. Trasmesse alla radio e in televisione, le “udienze” sono state in un certo senso pubbliche, e nessuno si è sottratto all’ascolto, per quanto doloroso e insostenibile potesse essere, come se venisse a soddisfare un bisogno di confessione e di espiazione troppo a lungo soppresso. L’esposizione delle gravi ferite inferte, i sacrifici umani sofferti sono stati così parte essenziale del trauma della nascita del nuovo Sudafrica, ed è da queste ferite, dal bisogno di conoscere e di capire qualcosa di più del dolore, che nasce il ciclo di poesie di Ingrid de Kok.

L’arcivescovo presiede la prima udienza
Il primo giorno,
dopo poche ore di testimonianze,
l’arcivescovo ha pianto.
Ha appoggiato il capo grigio
Sul lungo tavolo
Di carte e protocolli
E ha pianto.

Cameraman nazionali
E internazionali
Hanno ripreso il suo pianto,
le lenti appannate,
le spalle singhiozzanti,
la richiesta di aggiornamento.

Non importa che pensavate,
Prima o dopo, dell’arcivescovo,
dell’accordo, della commissione,
o quello che gli antropologi accorsi
da crimini e dolori meno studiati,
hanno detto del suo discorso,
né quante tesi di dottorato,
libri, e istallazioni ne siano derivate
e neppure se pensate che questa poesia
semplifichi, celebri
romanticizzi, mistifichi.

C’era il lungo tavolo, abiti porpora inamidati
E dopo poche ore di testimonianze
L’arcivescovo, presidente della commissione,
ha appoggiato il capo sul tavolo e ha pianto.

È così che è cominciato.

Parti del discorso.
Ci sono storie che non vogliono essere narrate.
Se ne vanno, portandosi valige
Tenute insieme da uno spago grigio.
Guarda le loro schiene ricurve che scompaiono.
Gobbe. Rovinate. Sacche da viaggio.

Ci sono storie che rifiutano di essere danzate o mimate.
Gettano via i bastoni consumati
E le rumorose scarpe da tip tap
Cancellano le tracce in crudeli filastrocche
O vecchi giochi come mosca cieca.

E in questo posto macchiato le parole
Vengono raschiate via da lingue resinose,
strizzate come bucato appeso ai fili
della corte del confessionale,
tradotte nel dialetto della registrazione.

Perché ancora credere che le storie possano levarsi
In volo, su correnti, come argentei segnali luminosi
Levitare, alleggerite delle pietre,
cominciare nel dolore a tendere alla grazia,
ossigenando la storia col fiato ritrovato?
Perché ancora immaginare parole intere, mondi interi:
lo scoppiettio delle consonanti,
vocali come anemoni marini,
sintassi di cordone ombelicale, versi che cominciano nel cuore,
e verbi, verbi che muovono montagne?

Come si piange in una stanza piena di domande
La testimone lo racconta pacata:
il respiro di un ragazzo affondato nel sonno
come sempre dormono i giovani, anche quelli puù all’erta;
la finestra in frantumi,
le pareti scosse della baracca,
il respiro falciato di quel ragazzo, ucciso.
La madre che stende la coperta.

Un antico dolore trattiene la rabbia come un tappo.
E le domande giuridiche
Spazzano via cervella e sangue dal pavimento.

Quel che bisogna sapere del dolore
“Quel che bisogna sapere del dolore”
è per questo che compro la rivista.
Tra le virtù dall’aerobica su una pagina
E il brivido di Machu Picchu sull’altra
Anche il dolore ha il suo spazio pubblicitario.

I vivi raccontano cronache
Di feriti, di morti e dispersi.
Ripetono in annunci sincopati
“il presso della rabbia”, “il conforto della fede”,
con parole e cenni del capo commentati da didascalie.

L’articolo offre aiuto:
consiglia la parola che rimargina,
raccomanda lunghe passeggiate, e terapie d’appoggio,
rassicura chi soffre che ce la farà,
poi mette in guardia piano: lascia perdere, pensa ad altro.
Ma tutti sanno che il dolore non ha cura:
ferita slabbrata e illividita
nel solco profondo del corpo;
shrapnel seminato sotto la pelle
roghi di guerra sempre accesi.

E il dolore è una cosa molto personale,
lieve incrinatura sul cranio;
elegia domestica che intona il suo lamento funebre
nel pozzo del cuore ferito;
troppo in fondo per raggiungere

la scala di luce
gettata dall’alto,
dove mani scrivono parole
per mettere in moto l’argano
e sondare l’abisso.

Davanti alla commissione
Nel racconto dei fatti
Nessuno ricorda
Se addosso portava una granata
O se il suo corpo contratto
Sia esploso al contatto con gli
Orrori a venire.

A che serve conoscere
Quel dettaglio, la verità,
il finale è lo stesso,
sempre lo stesso?

Le domande, al di là delle intenzioni,
portano tutte lontano da lui
che, solo, corre per mettersi in salvo.

Bende.
Recisi come fiori,
fatti a pezzi come legna
arsi in una vampata di fuoco.

Ossa scarnite.

Gola strozzata.
Guancia carbonizzata
Da parte a parte.
Occhio esploso. Occhio strappato.

Ghiaia. Tumulo di sabbia.

Non smettiamo, ti prego,
di sentire e vedere
il testimone che parla a testa bassa.

Preghiera, apostrofe, maledizione.

Storia avvolta nelle bende di
Un mondo spezzato, monconi
Cui appendere la nostra vergogna
Come inutili mani, per sempre.

Ammutolita
“Giura di dire la verità,
tutta la verità e niente altro che la verità?”.

Le è stato fatto del male
Ma lei non riesce a parlare.
Dicono che è ammutolita.

Come strozzata dal cordone ombelicale.
Senza sputo, suono, senza ingoiare.
Voce imbottigliata.

Ora parla sott’acqua,
a se stessa, che affoga,
a suo figlio, alla figlia perduta.

La sua lingua è un flusso
Che scivola su pesci morti,
funi e arnesi abbandonati:

“Sono venuti per i ragazzi, hanno preso, poi me,
e poi, poi dopo
il secchio sanguinava. Le mie orecchie si sono fermate.
Sono più vecchia di mia madre quando…”.

Il gabbiano trascina l’ala fino ai gradini del faro.
“È questa la verità. Perciò aiuto. A dire”.

Parla il trascrittore.
Sono stato prigioniero della commissione,
l’anonimo scriba fuori orario,
tabula rasa professionale.
Parola per parola per parola
Dal nastro che girava al tasto cifrato
Da segno a segno, ascoltavo e scrivevo.
Come mattoni per la fornace o tegole per un tetto
O mucchi di foglie spazzate da bruciare:
non so quale:
parola su parola su parola.
Dapprima senza punteggiatura
Tranne che punti e virgolette.
Ma come trascrivere il silenzio del nastro?
Il pianto è una pausa o una parola?
Quale segno scritto sta per una gola strozzata?
E il dito puntato di un testimone? Quello l’ho descritto,
quando i funzionari hanno identificato la direzione e il nome.
Ma se fissava soltanto?
E se il silenzio sembra allungarsi
Oltre i poliziotti, nella strada
Verso una porta, una tomba o un bambino,
spettava a me concludere:
“La testimone è rimasta in silenzio: Non c’era più niente da dire?”.

Il tecnico del suono.
Sembra che tra i vari professionisti impegnati a riferire della
Commissione
Per la verità il numero più alto di sostituzioni si sia verificato tra i
Tecnici del suono.

Onde sonore di siccità e di piena
Giungono ritoccate
Dalla bocca di chi parla
Attraverso l’orecchio del fonico:
dune che filtrano sabbia bruciata del deserto
in pozzi contaminati, e colpi e grida
non più soffocati nel cavo della conchiglia.

Ascolta,taglia,pausa,taglia,
balbettio: taglia,
ritocca, dolore; collega, dolore; trasmetti, dolore,
ascolta, taglia, pausa, taglia.
Incolla la grammatica all’orrore,
mentre il sangue riscalda le cuffie,
e fa sbattere le ali delle onde sonore.

Per il morso duro della verità,
fai sentire i denti, la bocca, la mascella,
inserisci l’esitazione, eliminala:
forse anche il respiro.
Togli le labbra.
Anche la lingua.
Lascia soltanto la gola del suono.
Tieni l’orecchio al suolo,
al dolore che affiora, al suo
annaspare per l’aria, al suo aspro volo radente
sulla topografia della storia.
L’orecchio della macchina
Registra le lesioni della terra erosa
Mentre il sangue percuote la membrana cerebrale.

Una macchia incombe come una piccola farfalla rossa,
sul piano di registrazione dello studio
dove il muro ascolta,
così l’orecchio si concede una pausa.
Poi niente.
Solo la scarica statica,
insetti che invadono l’aria.

Il tecnico del suono sente
Che gli si lacera la membrana del timpano.

Ci sono altri
“Ci sono quelli che si sono lasciati un nome alla spalle così che si
potranno tramandare le loro lodi. E ci sono altri che non hanno
neanche una lapide che li ricordi, che sono scomparsi come se non
fossero mai esistiti; e sono diventati come se non fossero neanche
nati; e i loro figli dopo di loro” (Apocrifi)

Solo il fruscio delle canne
Fumo sottile di pipa
Lampada tremolante al kerosene
Donne ricurve avvolte in coperte
I loro colti persi alla luce.

E quel che rimane:
cancelli scardinati
pietre sparse a semicerchio
placente sepolte nel limo.
Possono i dimenticati
Rinascere
In una terra di nomi?

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