E’ indubbio che esista un problema ecologico nel mondo contemporaneo. E’ largamente accettato che l’inizio dei cattivi rapporti tra l’uomo e la natura sia da collocarsi approssimativamente con la prima rivoluzione industriale. Il problema viene così visto essere vecchio di circa due secoli, collegato alla nascita della industria e al secolo dei lumi, alla nascita della borghesia e al capitalismo moderno. E’necessario aggiungere però che se il contesto storico in cui il progresso scientifico e tecnico ha consentito all’umanità di cominciare a sfruttare le risorse della terra è effettivamente vecchio di soli duecento anni, i semi che hanno portato alla nascita del problema ecologico sono molto più antichi e, proprio perché molto vecchi, invisibili alla nostra capacità di analisi. Una nuova prospettiva per osservare il comportamento umano individuale e in seconda analisi collettivo, relativo al rapporto con la natura è quello di discutere, prendendo in prestito un termine matematico, alcuni postulati su cui è costruito il sistema valoriale della nostra società. Infatti, i semi a cui mi riferisco non sono legati a dinamiche storiche o economiche di popoli, nazioni, o a dinamiche sociali, quanto a dinamiche che hanno come protagonista l’individuo, il singolo cittadino, la forma mentis del singolo individuo, il modo con cui esso si relaziona alle cose. Mi riferisco ad alcune assunzioni fondanti così antiche che sono ormai fuori dalla portata della semplice analisi riferita ad un singolo soggetto e che vanno invece guardate come costrutti collettivi riguardanti la relazione dei singoli con la realtà e che vanno giudicate come pilastri su cui si basa la nostra percezione della realtà e quindi la percezione della realtà vista dalla collettività. In sintesi, il postulato che vorrei mettere in discussione è quello relativo all’identificazione del sé con la nostra capacità raziocinante, il credere che noi siamo i nostri pensieri e che quello che discrimina ontologicamente l’uomo dal resto del mondo naturale sia la mente logica deduttiva che è l’origine del progresso. Non è difficile capire come questo costrutto sia uno dei più portanti perché definisce in qualche modo chi noi siamo e permette di fare assunzioni circa il ruolo che l’individuo e la società devono avere nei confronti della natura. Per tutte queste ragioni tale costrutto è raramente visibile e osservabile. La relazione tra la percezione di se stessi e il problema ecologico la riassumo con la seguente frase.

Il modo in cui l’uomo si relaziona con il mondo che lo circonda è influenzato dalla percezione che ha di se stesso.

Partiamo dalla semplice constatazione che il ruolo che la natura ha esercitato e la sua interazione con la nostra civiltà è notevolmente cambiato nel corso dei secoli. Da un lato abbiamo infatti la percezione della natura come la madre terra che nutre con i suoi frutti i propri figli tipica delle età arcaiche, dall’altro quello di una realtà materiale che è percepita come essere a disposizione delle necessità e dei desideri del genere umano. Una evoluzione che può ricordare la transizione del rapporto tra la madre e il proprio figlio; dall’infanzia (madre terra) alla adolescenza (madre disponibile ad assecondare i desideri). Questa differenza tra terra-madre e terra-possibilità è profondissima e ha influenzato il pensiero dell’uomo e la sua relazione con tutto quello che lo circonda. Personalmente credo che la sostanziale evoluzione della relazione con la natura e tutto ciò che essa comporta: § relazione con gli altri, con il mondo animale e vegetale, sia strettamente legata con l’evoluzione della percezione che l’uomo ha del suo sé, ovvero con la percezione del che cosa lo renda quello che lui è o si creda di essere.
Il cogito, ergo sum di Cartesio si può leggere, ad esempio, come un manifesto chiarissimo del passaggio completo alla identificazione del sé, il cui contenuto in altre civilizzazioni può non essere definito ma lasciato alla libera ricerca dell’individuo, con la mente- pensiero.
Al fine di chiarire eventuali fraintendimenti legati all’uso di parole che in contesti diversi possono assumere valenze diverse è utile precisare che la mente-pensiero non è un semplice sinonimo di razionalità-capacità astrattiva, ma come una generale identificazione del sé con i propri pensieri e la capacità di tradurre emozioni
e desideri in un linguaggio raziocinante.
Il passaggio da terra-madre a terra-possibilità, che ha richiesto secoli ed è avvenuto in modo ineguale nel mondo occidentale, ha portato ad un clamoroso cambiamento di relazioni con la realtà esterna al sé. Con questo intendo dire che la naturale versione duale del cogito ergo sum, ovvero non sum ergo non cogito, è stata pian piano distorta in questo ente non pensa, quindi questo ente non è. Quindi siamo passati dall’ avere una situazione di pari dignità d’essere tra enti (uomo e mondo animale e vegetale) al dare una classificazione valoriale tra enti e enti cogitanti.
Gli enti cogitanti, che vanno intesi come enti con la mente-pensiero, a differenza degli altri enti hanno non soltanto la facoltà di pensare ma soprattutto quella di essere. Sotto questa prospettiva si possono provare a comprendere le ragioni più intime che hanno portato la nostra civiltà a compiere atti che nei secoli precedenti potevano apparire come paradossali o eticamente inaccettabili. Parlo volutamente di ragioni intime perché collegate con i costrutti più profondi della nostra mente, costrutti che in questo contesto sono da considerarsi collettivi e quindi ancora più nascosti e invisibili di quelli soggettivi legati alle specifiche esperienze di vita.
L’inizio del Vangelo di Giovanni

In principio era il Verbo
Il Verbo era presso Dio
Il verbo era Dio

mi sembra un bellissimo esempio di seme di identificazione tra il sé e il pensiero-mente vecchio mille e ottocento anni rispetto al secolo dei lumi e alla rivoluzione industriale. Se mettiamo insieme il bellissimo inizio del Vangelo e il fatto che nella religione ebraico-cristiana l’uomo è a immagine e somiglianza di Dio, si deduce che il nocciolo della nostra umanità sia la nostra capacità di ascoltare la parola di Dio attraverso una mente con la capacità di formulare proposizioni logiche. Questo mi sembra un bel postulato della nostra percezione del sé. Se noi non fossimo i nostri pensieri che cosa dovremmo essere? La domanda, spesso letta in chiave retorica, conferma il ruolo di postulato della mente-pensiero.
Per capire come l’identificazione del sé con la mente-pensiero influenzi il rapporto con la realtà circostante mi sembra necessario considerare due punti di vista: il primo relativo alle conseguenze dell’identificazione del sé con il proprio mondo emotivo, il secondo con il mondo esterno. In entrambi i casi cercherò di dimostrare che una eccessiva identificazione con la mente-pensiero crea inevitabilmente difficoltà a relazionarsi con la biodiversità intesa sia come biodiversità-emotiva, ovvero come capacità di contenere in sé moltitudini di stati emotivi e di aspetti contraddittori (per la mente pensiero), sia come biodiversità nel mondo al di fuori del sé, nel mondo materiale.

Identificazione ed emozioni

Guardiamo la seguente proposizione:

La realtà percepita dalla mente-pensiero è una realtà binaria piuttosto che un realtà analogica, ovvero aperta a contraddizioni ed a ambivalenze.

Con questo voglio dire che per l’uomo contemporaneo la realtà più profonda (quindi quella rispetto alla quale è necessario relazionars)i è quella osservata dalla propria mente raziocinante e che quindi i propri desideri, che vanno considerati come frutto della mente-pensiero piuttosto che della sfera emotiva, sono reali tanto quanto la realtà che vediamo dinanzi a noi. Per evitare di addentrami in questioni di relativismo, mi limito a dire che i nostri desideri sono reali perché la mente pensiero non può accettare che i suoi figli, pensieri, desideri, aspirazioni, siano meno reali della realtà materiale. La negazione di questo sarebbe un inaccettabile passo verso la negazione della sovranità della mente stessa.
L’attrito cruciale che mi sembra nasca dalla pretesa della mente pensiero di rappresentare tutto il sé è che la realtà osservata dalla mente-pensiero non racchiude tutto quello che l’esterno ci offre. La mente-pensiero non riesce a percepire la realtà se non in termini binari, bene-male, mi piace-non mi piace, è giusto-non è giusto, o per riassumere in 0-1. Per la mente-pensiero e per la realtà che essa percepisce e immagina vale come pilastro il principio di non contraddizione di Aristotele

è impossibile che, per il medesimo rispetto, la stessa cosa sia e non sia.

Per la realtà, però, che supponiamo essere altro da quella percepita solo attraverso la mente-pensiero, non vale strettamente il principio di non contraddizione. Un esempio è la sfera emotiva, dove si possono presentare situazioni cariche di ambivalenze e di coesioni di emozioni che una mente binaria difficilmente tende ad accettare. Più esplicitamente, per le emozioni il principio di non contraddizione non vale sempre.
Tutto questo crea spesso notevoli difficoltà di classificazione degli stati emotivi che sono appunto analogici, e quindi non binari, alla mente-pensiero. Come racchiudere in un 0-1 uno stato emotivo che per sua natura può essere ambivalente e quindi contemporaneamente un pò 0 e 1?
Se il sé è soltanto mente-pensiero, questo sé avrà facilità ad avere un cattivo rapporto con il mondo emotivo ricco di ambivalenze. La realtà analogica può essere percepita costantemente come una realtà da modificare perché lo schema binario 0-1, va bene-non va bene, mi piace-non mi piace, spesso non coincide con una situazione reale ambivalente o come sovrapposizione di stati 0 e 1. In questo caso, dovrò scegliere tra tanti 0e 1 uno che rappresenti lo status quo. 1 se va bene, 0 se va male. L’appiattimento della propria capacità di sentire le emozioni è sicuramente veicolo di disagio interiore.

Identificazione e mondo naturale

Per capire come l’importanza della mente-pensiero nella percezione dell’individuo, influenzi i nostri comportamenti collettivi prenderò due esempi: la scoperta delle americhe e l’olocausto.
Il primo esempio che possiamo guardare è quello della colonizzazione delle americhe e della carneficina perpetuata a danno delle popolazioni indigene. Una delle polemiche del tempo verteva infatti sulla natura umana delle popolazioni indigene: sono da considerare (come dignità d’ente) come noi o vanno invece trattati come esseri subumani assimilabili al mondo delle bestie? Il trattamento da effettuare nei confronti di questi popoli verteva su la classificazione di queste persone, usando il linguaggio contemporaneo, secondo lo schema: hanno l’anima? hanno la ragione? Sono esseri umani capaci di fare quello che facciamo noi? O meglio dire sono o non sono esseri umani? Si può riassumere la logica, perché di logica si tratta, in questi termini: se non sono esseri umani (in quanto privi della sostanza che rende gli enti cogitanti) si possono anche schiavizzare o eliminare in quanto esseri simili alle bestie. Solo le cose che hanno la qualità dell’Essere, derivata dal possesso della qualità suprema, hanno il diritto di poter durare, di potere avere i diritti dell’Uomo. Questa visione delle cose ricalca esattamente le idee che aveva Aristotele in materia di schiavitù. Aristotele infatti teorizzava due tipi di schiavitù: il primo tipo come conseguenza della sconfitta in guerra, il secondo tipo per quelle popolazioni che si fossero dimostrate incapaci di amministrarsi, lontane dal mondo della ragione e abbrutite al pari delle bestie.
La conquista del sud-america portò dunque a dover prendere posizione circa la natura umana di questi indios. Concili religiosi accertarono la natura umana degli indios e come conseguenza, Carlo V abolì la schiavitù per le popolazioni indigene. E’ interessante osservare che fu un Concilio, un luogo di dispute teologiche e di argomentazioni logiche, a stabilire il destino della popolazione indigena. Era la mente-pensiero che doveva prendere una posizione sul tema.
Le forme di vita che sono portatrici di questa sostanza, la mente-pensiero, ovvero aventi la capacità di pensare e soprattutto di codificare il sentire con un linguaggio raziocinante, diventano sacre, come la sostanza di cui sono portatori.

Questa considerazione mi porta ad osservare l’Olocausto, il secondo esempio. E’ sempre sorprendente per me osservare che l’Olocausto, lo sterminio pianificato ed eseguito fino al giorno della disfatta dai nazisti nei confronti degli ebrei, sia stato concepito e attuato nella nazione che più di ogni altra ha contribuito a dare lustro alla ragione. Il paese di Kant, Hegel, Marx, nazione in cui la ragione, la cultura positivista, la rivoluzione industriale avevano dato i suoi migliori frutti ha partorito il mostro ideologico dell’ Olocausto e più in generale del nazismo. Io credo che le personalità del Reich che hanno sviluppato il piano di sterminio non sentissero sostanzialmente più che la voce del pensiero. Parlo del vuoto emotivo, della incapacità di mettersi in relazione con le cose se non in termini categorizzanti, una mente binaria incapace di prendere decisioni che non fossero supportate solo da una logica anche se la più perversa. Incapaci di intendere e sentire più che incapaci di intendere e volere. Per loro i numeri dei deportati avevano lo stesso sapore dei numeri contabili. Con questo non voglio dire che fossero inumani, anzi mi sembrano molto umani, nel senso di umani troppo cogitanti, troppo binari.

Questa non vuole naturalmente essere una invettiva contro il pensiero, se mai contro il ruolo che il pensiero ha assunto nella nostra cultura.
Il pensiero che a volte è indistinguibile dal sentito, che rende incapaci di sentire ciò che non è intellegibile, magari perché eticamente inaccettabile, l’appiattire ogni proposizione su posizioni binarie vero-falso.
Mi sembra dannoso principalmente per l’individuo e in seconda istanza anche per il prossimo e di conseguenza per la natura che il pensiero dell’ uomo sia la sua essenza.
La relazione tra uomo e natura è quindi profondamente sbilanciata da questo nostro costrutto invisibile non cogito, ergo non sum. La paura della morte viene naturalmente moltiplicata da una centratura del sé con il proprio pensiero; quello che vorremmo portaci di là, dopo la morte, è infatti la nostra cosa più cara, i nostri ricordi, la nostra capacità di pensare, di emozionarci e quindi di sentirsi sé. Lo sfruttamento delle risorse naturali oltre alle loro fisiologiche possibilità viene giustificato soltanto con giustificazioni logiche. Se in un allevamento le galline vivono in 40 cm^2, soffocate dai loro escrementi, imbottite di antibiotici, questo, o tocca delle corde emotive, piani diversi della propria persona esterni al pensiero producendo un netto rifiuto verso questo modello di produzione (parola di una freddezza emotiva già di per sé preoccupante), oppure si rischia di schierarsi in sterili dibattiti tra diritto ad una vita decente per gli uccelli da un lato, logiche di mercato dall’altro. Si rischia di vedere gli animali come oggetti semoventi, robottini senza anima, numeri e confezioni sigillate pronte per il supermercato. Si rischia di classificarli come esseri di poca intelligenza e quindi di poca anima e quindi di poco essere. Ancora il ritorno invisibile del non cogito, non sum. La logica di mercato essendo logica e quindi per definizione cogito, ha diritto ad Essere e quindi a confrontarsi con enti non cogitanti, come le galline, come le foreste, come i mari. E per tutto quello detto in precedenza, rischia di vincere queste partite.
La legge stessa di natura in cui i deboli soccombono, gli animali più anziani e i giovani vengono uccisi da cacciatori devastati dalla fame, esula da una visione binaria 0-1. Ad esempio, il fuoco che brucia un bosco, uccide piante vecchie di secoli, estingue magari specie ricche di biodiversità ma contemporaneamente fertilizza il terreno. I nostri pensieri binari, che sono reali, abbiamo detto, tanto quanto la realtà, fanno fatica a sovrapporsi ad una realtà più variegata in cui gli stati non sono solo 0 e 1. La voglia di trasformare il mondo naturale, la voglia di controllo, nasce, a mio avviso, da questo tentativo di far collimare il mondo osservato con la realtà pensata in bianco e nero. Ogni azione portata a termine, ogni interazione uomo-natura nasce da questa necessità: riprodurre nel mondo fuori la presunta tranquillità del mondo binario interiore. Una eccessiva identificazione con la mente-pensiero significa che costantemente crediamo a quello che la mente pensante ci propone “facciamo quello, non facciamo quello…”, ed essendo i pensieri reali e essendo la realtà reale non più dei pensieri, siamo invitati a modificare la realtà una volta, e poi una altra, e un’altra ancora…
La natura viene costantemente esaminata per poter essere plasmata, quello che potrebbe essere preso come un dato di fatto, come una situazione incontrovertibile, viene visto invece come stimolo per una nuova conquista della umanità. Il progresso inteso quindi solo come aumento della nostra capacità di fare, di modificare e di sottomettere. Il progresso inteso solo come progresso della tecnica e
privo di alcuna componete introspettiva, che tenderebbe a sviluppare ad esempio una componente etica del progresso, rischia di ampliare il già ampio senso di inadeguatezza che la realtà ha ai nostri occhi.

Quello che ho voluto dire in queste pagine è proprio che la tendenza ad interagire in modo irreversibile con il mondo naturale non nasce in qualche ufficio di qualche grattacielo di qualche multinazionale, ma è una dinamica universale di tutte quelle persone, come noi, che sono identificate esclusivamente con la mente pensiero e la cui voglia di agire nasconde un disagio profondo nello stare nelle cose così come sono. A mio avviso una strada utile e percorribile per la nostra civiltà sarebbe quella di osservare quale sono i vettori emotivi che guidano i nostri progressi tecnologici e la nostra voglia di efficienza. Credo che una seria analisi individuale porterebbe a svelare che dietro alla voglia di progresso, di trasformazione, di adeguamento della realtà alle nostre esigenze si nasconde un profondo disagio esistenziale, un senso di vuoto e di distanza dalle cose. Questo disagio individuale, figlio come abbiamo detto di un fraintendimento sulla propria natura profonda è radicato ma non per questo non estirpabile. Se l’uomo è stato capace ancora prima di andare sulla luna, di desiderare di andarci, non vedo perché non possa desiderare una cosa egualmente difficile che è
il cambiare il modo stesso con cui guardiamo la luna.

Di Jacopo Bellazzini


Jacopo Bellazzini, nato a Pisa nel 1976, laureato in Matematica nel 1999 ha conseguito un dottorato
in Ingegneria Aerospaziale nel 2004. Il suo ambito di ricerca è l’analisi matematica e la fisica matematica e attualmente svolge il ruolo di ricercatore (precario) presso il Dipartimento di Matematica Applicata dell’Università di Pisa.
E-mail: j.bellazzini(at)ing.unipi.it


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