Un divertissement clinico-letterario sul mondo delle addiction e dei processi dissociativi
Questa riflessione nasce dall’occasionale lettura, avvenuta qualche anno fa, del romanzo di Jean Cocteau, Les enfants terribles. Nel leggerne la prefazione di Ivos Margoni rimasi immediatamente colpito dalle circostanze relative alla stesura di tale opera: «Non v’è dubbio – scrive Margoni – che il romanzo (…) reca i segni, nella lingua e nell’andatura della narrazione, d’una stesura molto rapida e che questa rapidità va posta in qualche misura in relazione con la droga» (p. 5). Appresi dunque come Cocteau avesse avuto una sua personale, lunga esperienza con le droghe, come le riflessioni su queste realtà permeassero molte delle sue opere, e come le sue vicissitudini tossicomaniche fossero legate alla sua attività creativa. Successivamente, nella lettura del romanzo, il mio interesse si accrebbe ulteriormente per il taglio con cui l’autore inquadrava i giovani adolescenti protagonisti della sua opera: personaggi turbolenti e derealizzati, simili sotto molti aspetti ai giovani poliassuntori, scaratteriati e voracissimi che, sempre più spesso, incontro nella mia pratica clinica (1). Ad interessarmi, quindi, non era tanto la storia in sé e per sé quanto la caratterizzazione dei suoi protagonisti: si tratta di ragazzi con alle spalle vicende di trascuratezza di varia natura e peso, impegnati a vivere una vita sempre sospesa fra sogno e realtà.
Ragazzi “liberi”, capaci di quella particolare libertà, in qualche modo ludica e tragica, che, sempre Margoni, definisce «una libertà da drogati senza droga» (p. 6); anche se, in realtà, Cocteau sostiene che, nei protagonisti del suo romanzo, qualche tipo di “droga naturale”, qualche «sostanza favolosa» (p. 104), doveva comunque essere presente «nel sangue fin dalla nascita» (ibidem).
Ragazzi “liberi” perché distaccati, nel senso che, nei confronti della propria esistenza e di quella altrui, nello svolgersi degli accadimenti narrati, la tipica posizione assunta da questi adolescenti è appunto quella di «dormire da svegli un sonno che mette al riparo e restituisce agli oggetti il loro vero significato» (p. 47); anche se le conseguenze negative di questo dormi-veglia dissociativo, alla fine, saranno di gran lunga superiori alle sue stesse potenzialità evolutivo-riparative.
Ragazzi “liberi” di “giocare” ad un particolare gioco(2), attivamente ed insistentemente ricercato, anche se, come sottolinea Cocteau, «gioco è un termine molto inesatto» (p. 47) per designare «la semicoscienza in cui si immergevano i ragazzi» (ibidem). Un “gioco”, questo, che restituisce a chi ne è maestro la possibilità di dominare lo spazio e il tempo, di avviare sogni e combinarli con la realtà, di saper vivere e sopravvivere in ogni situazione.
I protagonisti del romanzo di Cocteau dunque vivono così, in un perenne e fluttuante stato di semicoscienza – il “gioco” – che restituisce loro un certo senso di libertà, protezione e potere. Questi aspetti catturarono e catturano tutt’oggi la mia immaginazione, specialmente se trasposti nell’ambito clinico delle addiction; un ambito dove i processi dissociativi la fanno spesso da padrone ed è sempre meno raro assistere a vicende del genere. Ma c’è di più, ovvero c’è qualcosa di paradossale e drammatico in questa “libertà”. Infatti, come nota lo stesso Margoni, tanto Cocteau rispetto alla sua opera quanto i personaggi de Les enfants terribles rispetto alla loro vita, sembrano condividere la medesima schiavitù; cioè, per usare le sue stesse parole: «la condizione quasi medianica in cui (…) i protagonisti compiono i loro atti giocosi o tragici riflette (…) lo stato di sottomissione a cui il libro ha costretto il suo stesso autore» (p. 7). In altri termini, tanto l’autore che i suoi personaggi e, in ultimo, molte delle anime – le più dannate – che popolano il mondo delle addiction, vivono una tanto paradossale quanto semi-cosciente condizione esistenziale, continuamente in bilico fra sottomissione assoluta e trionfo onnipotente.
Come in Oppio (1930), a proposito degli effetti “positivi” degli stupefacenti nel liberare la propria dimensione creativa, Cocteau scrive di non aver «mai ottenuto velocità simili» (p. 58), lo stesso esplicita altresì la consapevolezza di essere più simile allo schiavo che all’autore della sua opera; e come tutto ciò, nel suo caso, sia legato in qualche modo all’oppio: «il lavoro che mi padroneggia aveva bisogno dell’oppio e aveva bisogno che lasciassi l’oppio (…) ancora una volta io sono il suo zimbello» (ibidem, p. 170).
Ebbene, allo stesso modo, i “ragazzi terribili” di Cocteau sembrano, nonostante le avversità, assoluti padroni del proprio destino e, in qualche modo, almeno per un certo lasso di tempo, lo sono davvero. Di fronte a qualsiasi incerto, se le cose vanno proprio male, possono infatti ricorrere al “gioco”, uscendo così da loro stessi e dalle limitazioni feroci della loro realtà, sopravvivendo a tutto e a tutti. E si comportano così, esattamente allo stesso modo, molti dei ragazzi che incontro nella mia clinica, trovando nelle sostanze il mezzo per superare le impasse evolutive o traumatiche della loro giovane esistenza.
Tuttavia, nella realtà dei nostri giorni così come nella storia de Les enfants terribles, qualcosa alla fine va storto.
Nel romanzo qualcosa al di là della consapevolezza dei protagonisti, al di là della loro capacità di previsione, finisce di fatto per travolgerli completamente. I ragazzi terribili di Cocteau pagano infatti il prezzo più alto per il loro “gioco”: pagano con la morte.
La situazione nel mondo contemporaneo delle dipendenze patologiche non è certo migliore: l’offerta risulta più vasta e seduttiva che mai; il precocissimo accesso a percorsi additivi e il graduale ed esclusivo coinvolgimento in essi, sembrano condurre a risultati comunque nocivi, se non egualmente letali.
Evidentemente, nella realtà come nella fantasia, i ragazzi, se abbandonati a loro stessi, se non addestrati alle difficoltà inerenti al compito evolutivo che la vita pone loro, finiscono comunque col farsi male, non avendo la forza per sopportare il dolore mentale che la crescita comporta.
Ecco che, ispirato da tali riflessioni, ai miei occhi si apre la possibilità di un parallelismo sulle “diverse” realtà cliniche delle tossicodipendenze e dei fenomeni dissociativi dei giorni nostri. Schiavi e liberi al contempo, in un rapporto complesso rispetto alla possibilità di raggiungere – con mezzi naturali o meno – stati di semicoscienza, Cocteau e i protagonisti de Les enfants terribles sono come posseduti, nelle parole di Margoni, da «forze che non appartengono ai personaggi e non appartengono all’autore, e che li dominano e li “sfruttano”» (p. 7). Come illustrato altrove (Beni, 2009, 2013), queste esperienze di “possessione” – evocate qui dalla letteratura e dai riferimenti biografici di Cocteau – risultano tipiche sia nella clinica dei fenomeni dissociativi, sia nel mondo delle tossicodipendenze, dove la seduzione della sostanza risulta spesso irriducibilmente coattiva, ovvero ben al di là della volontà della persona. Lo stesso Cocteau – in più occasioni confessatosi non padrone di se stesso, ma obbediente – si schiera dalla parte dei suoi personaggi, la cui singolarità, come sostiene Margoni, risiede «proprio nell’impersonalità medianica e puramente estetica della loro presenza, e nella “selvaggia” coerenza da invasati con cui essi vivono quella completa dépossession de soi» (p. 10). Una “possessione” che, nella realtà della clinica, rischia di rendere la partecipazione alla vita un evento estetico, inautentico e tuttavia non falso poiché, parafrasando le parole dello stesso autore, “nessuno degli attori di questo teatro ha coscienza di recitare” (1929, p. 84).
In conclusione credo allora che, sì, Cocteau avesse proprio ragione nel sottolineare gli effetti, tanto a breve che a lungo termine, dei processi dissociativi; difatti, siano essi di natura traumatica o farmaco-indotti, tali processi consentono comunque la sopravvivenza, al costo però di una patologia dagli esiti potenzialmente letali.
Fabio Beni

Fabio Beni lavora dal 2004 presso il Servizio per le Tossicodipendenze di Prato (SerT) come specialista in psicoterapia analitica delle addiction. Esercita, inoltre, la professione pri-vata in senso più ampio. Via Cavour 118, 59100 Prato. E-mail: fabio.beni(at)yahoo.it.
Bibliografia

Beni F. (2009). Tossicodipendenza, psicoanalisi e complessità: la dissociazione farmaco-indotta. Psicoterapia e Scienze Umane, 4:509-533.
Beni F. (2013). La clinica della dissociazione farmaco-indotta: la pratica psicoanalitica in un caso di drug-addiction. Ricerca Psicoanalitica, n. 2/2013.
Cocteau J. (1929). Les enfants terribles. Editions Bernard Grasset (trad. it.: I ragazzi terribili. Milano: BUR La Scala, 1998).
Cocteau J. (1930). Opium. Editions Stock (trad. it. Oppio. Milano: SE, 2001).
Note:

(1) È da notare come in Oppio (1930), commentando Les enfants terribles, Cocteau affermi che «i bambini portano in sé una droga naturale» (p. 82); un’affermazione che mi colpì profondamente, in virtù del mio personale interesse alla clinica delle addiction – dal 2004 esercito infatti in tale settore sia in ambito istituzionale (Ser.T. di Prato), sia in ambito privato. Iniziai quindi a chiedermi se, fra i ragazzi “terribili” del romanzo di Cocteau e i ragazzi “difficili” dei giorni nostri, non ci potesse essere davvero qualcosa in comune; se questo qualcosa non potesse avere a che fare con la “droga naturale” a cui allude appunto Cocteau; se fra questa droga “naturale” e quella artificiale – diciamo così – non ci potesse essere qualche collegamento o similarità.
(2) Riferendosi ai suoi ragazzi terribili, con il termine “gioco” Cocteau descrive l’irresponsabile e ostinato ricorso ad uno stato dissociativo auto-indotto; una sorta di delirio collettivo tanto ludico/salvifico quanto tragico nei suoi effetti finali.

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