Ripetutamente nei media ci si imbatte nell’annuncio di un’aumentata diffusione della depressione – si prevede che diventerà tra breve la seconda causa di morbilità – e, nel contempo, della messa a punto di farmaci risolutivi e maneggevoli per i disturbi depressivi. Annunci peraltro di sicuro effetto in chi legge o ascolta: circa una persona su sei soffrirà nella propria vita di un episodio depressivo, dunque è difficile pensare che ci sia chi si sente estraneo a questa preoccupazione almeno nei riguardi di una persona cara o conoscente. E chi non vive momenti o periodi di apatia, malumore, avvilimento, tristezza, sfinimento, mancanza di reattività e di iniziativa (motivati o meno da circostanze immediate della propria vita) che facilmente vengono inclusi, spesso impropriamente e talvolta ideologicamente nella categoria della depressione?
Comunque l’apparente contraddizione tra quegli annunci non è semplicemente risolvibile con l’idea che, per invertire la tendenza alla crescente diffusione del disturbo, basterebbe utilizzare più massicciamente farmaci risolutivi. Ce lo mostra, dandoci una precisa idea della complessità dei problemi posti dalla depressione, la recente traduzione italiana (per le edizioni Einaudi, con un’indispensabile, ampia e articolata introduzione di Stefano Misura) dell’ultimo libro di Pierre Fédida, noto psicoanalista francese e autore di numerosi saggi e libri (dei quali finora uno solo era stato proposto in italiano: Crisi e controtranfert), professore di psicopatologia all’università di Parigi VII, direttore del laboratorio di “Psicopatologia fondamentale e psicoanalisi”, e direttore del “Centro di studi del vivente” che ha l’intento di coordinare le ricerche delle scienze della vita e della salute con quelle delle scienze dell’uomo e della società, affrontando i problemi posti dalle nuove conoscenze e dalle loro applicazioni.
Già nel titolo, Il buon uso della depressione, e più ancora in quello originale, traducibile con “I benefici della depressione. Elogio della psicoterapia”, Fédida va controcorrente rispetto ad alcune idee che sembrano ultimamente consolidarsi: in primo luogo quella secondo cui la depressione, per essenza e per definizione, sia una condizione tout court svantaggiosa e da evitare, anche se va subito precisato che nell’idea di un beneficio della depressione non vi è nessuna inclinazione per un dolorismo comunque fondato, cioè per la concezione che il dolore sia la levatrice del benessere, dello sviluppo o della redenzione; né tanto meno una sottovalutazione della sofferenza e della mortalità che il disturbo depressivo può determinare: Ma anche l’idea secondo cui, dal momento che sono disponibili farmaci antidepressivi efficaci nel risolvere gli episodi critici (sia di segno depressivo che maniacale) e più tollerabili e maneggevoli, avrebbe perso centralità e perfino pertinenza, dal punto di vista pratico e teorico, la psicoterapia, in particolare quella psicoanalitica, il trattamento risolvendosi ormai nella prescrizione della pillola giusta nelle dosi opportune.
Per inciso, un altro libro recentemente pubblicato sul tema – La depressione, di Giovanni Jervis, per le edizioni Il Mulino – sembra convergere su questa posizione critica che è di Fédida. Innanzitutto quando riconosce che, pur essendo la depressione una affezione costituita da “uno scompenso di talune funzioni del nostro organismo” ed espressione di una “imperfezione” del cervello umano che è “predisposto ad avvertire in modo acuto le situazioni di smarrimento e di perdita”, è tuttavia possibile che questa predisposizione “sia, almeno nella maggioranza dei casi, utile alla sopravvivenza, cioè adattiva“. Jervis sembra, inoltre, sintonizzato con le posizioni di Fédida quando conclude che “il trattamento della depressione, in pratica e in ultima analisi, è più un problema psicologico che un problema medico”, poiché ogni aspetto del rapporto interpersonale del medico con la persona depressa e coni suoi parenti è psicoterapico.
Tuttavia Jervis è tra coloro che ritengono che l’aiuto psicoterapico debba prescindere da qualsiasi riferimento alla psicoanalisi e, pur richiedendo una persona qualificata, debba consistere essenzialmente di ascolto, dialogo, informazione, sostegno, consigli, aiutando la persona a diventare consapevole del problema e della necessità di una terapia farmacologica, a deresponsabilizzarsi della sua sofferenza e a riorientarsi nella propria vita accettando l’immagine di sé incrinata dalla malattia. Su entrambi questi punti la posizione di Fédida è però diversa, più radicale e, in fondo, complessa: del resto, il suo “pensiero interrogante” è difficile si imbatta nell’ovvietà e nella semplificazione, come a ragione nota Mistura nella sua introduzione: Giacché Fédida fa della depressione non solo un paradigma per mettere alla prova la pratica psicoterapeutica della psicoanalisi evidenziandone la peculiarità e la necessità, ma anche un paradigma dell’ancora oscuro rapporto circolare tra aspetti neurobiologici e aspetti psicologici dei processi vitali. E, di conseguenza, ne fa un terreno cruciale di indagine teorica per reinterrogare e in fondo ridefinire l’oggetto della psicoanalisi, quello che Freud chiamava “apparato dell’anima”, cioè lo psichismo inconscio sessuale, proprio laddove si interseca e si articola in modo complesso con i processi biopsichici che, in larga misura seppure sempre parzialmente, l’uomo condivide con il mondo animale.
Fédida critica aspramente una psichiatria che, riducendosi a una classificazione dei sintomi finalizzata alla selezione dei farmaci più adatti a eliminarla, diventa sempre più refrattaria a domandarsi quale sia la psicopatologia sottesa al quadro clinico: “Perché occuparsi solo dello ‘psichico’, quando i farmaci guariscono così bene e tanto rapidamente?”. Fédida è deciso e provocatorio: “La vera minaccia che oggi incombe sulla pratica psicoanalitica è, paradossalmente, quella di una scomparsa della psichiatria!”, scomparsa che farebbe sì che l’efficacia dei farmaci diventi il pretesto per ridurre la depressione ad un’affezione solo di competenza della psicofarmacologia e di una medicina prescrittiva che credono di poter fare a meno della conoscenza psicologica e del riferimento a una clinica e a una teoria dei processi psicologici, e ritengono ingiustificato il ricorso ad una psicoterapia. Senza limitarsi ad una generica proposta di una loro giustapposizione, Férida sostiene al contrario che una sostanza può certo trasformare uno stato depressivo in uno stato di benessere, ma solo la relazione psicoterapeutica può permettere di riconoscerne gli effetti e far riaffiorare “le attese di una soggettività dotata di una propria identità”, come dice Mistura, nonché interrogarsi su come un atto di parola possa trasformare una sostanza chimica in farmaco.
Dunque, Fèdida non ignora affatto né trascura l’efficacia e l’azione della sostanza chimica e la sua necessità; anzi ritiene che, al di là delle strategie e delle ideologie che possono sostenerle, i nuovi farmaci psicotopri possano costituire una straordinaria risorsa per la comprensione dei processi psichici, sollecitare un nuovo spirito di ricerca in psicopatologia, e approfondire in cosa consista un’azione psicoterapica. Ma ciò esige che la psicofarmacologia comprenda che le risorse terapeutiche di una data sostanza sono tanto più potenziate quanto più la psicoterapia è in grado di comprenderle e sfruttarle nel loro uso pratico. Allo stesso modo, è indispensabile non appiattire la relazione psicoterapeutica sugli obiettivi posti dalla e alla psicofarmacologia. Anche per questo Fédida rifiuta di svincolare la psicoterapia dalla psicoanalisi, ritenendo che quest’ultima conceda alla parola e al suo ascolto i tempi necessari all’emergere del senso e delle sue risonanze: “Perché è dall’interno che si apre il processo di guarigione e bisogna essere in due perché questo processo possa aver luogo”, lasciando dispiegare i tempi e la parola che nella depressione sono appunto gelati.
A dire il vero Fédida va ancora oltre, sostenendo risolutamente che proprio un’affezione come la depressione, che mette in discussione la vita psichica, impedisce di pensare ad una pratica psicoterapeutica che prescinda dalla psicoanalisi: “La psicoanalisi freudiana rappresenta, con la sua psicopatologia e la sua clinica, l’unico tentativo per mantenere al centro dell’esperienza umana la funzione di una certa negatività, che ci aiuta a comprendere la soggettività della vita psichica”. Tuttavia per Fédida la psicoterapia non è una psicoanalisi minore, né può essere concepita come la semplice dimensione terapeutica della psicoanalisi, o una sua applicazione alla pratica della cura. E’ piuttosto parte integrante della psicoanalisi, anzi è una psicoanalisi complicata, perché deve confrontarsi con dispositivi e funzionamenti arcaici in cui sono appunto messe a repentaglio le basi stesse del funzionamento psichico e la sua fragile e incerta articolazione con il corpo. Come, infatti, avviene nella depressione, che secondo Fédida è per definizione la malattia del vivente umano, la malattia specifica di un affetto che gela la vita di un individuo e la sua temporalità, e porta ad una sorta di disapprovazione dell’apparenza umana, assumendo l’aspetto violento dell’annientamento dell’essere umano. Lo stato depressivo, che insorge “nelle zone essenziali e fragili della vita psichica che sono la comunicazione e il senso”, coincide – secondo Fédida – con lo scacco della “depressività”: intendendo per depressività l’acquisizione di uno schermo contro gli stimoli che assicuri protezione, equilibrio e regolazione alla vita psichica, permettendo di mantenere uno scambio con l’ambiente umano senza subirne gli effetti emozionali troppo discordanti o violenti. La depressività sarebbe cioè la capacità di apertura/chiusura al contatto, la capacità di ritmo, di risonanza e di regolazione interna degli eccitamenti, di interiorizzazione di una durata.
La depressione è una vita inanimata, ossia una vita minacciata dalla sua stessa messa in moto (dall’esterno e dall’interno), ma conservata nell’immobilità e soprattutto nella cancellazione della vita psichica. Quasi per preservare la vita occorresse mantenersi in una durata in cui nulla deve accadere, in cui nulla deve minacciare il vivente di vivere troppo o troppo bruscamente, cosa che lo sfinirebbe in una sorta di emorragia vitale. Come se per salvaguardare l’ “umano” fosse indispensabile ripiegare e collassare su un “umano poco umano”, sul meno umano possibile. Perciò Fédida sostiene che per comprendere la depressione occorre immaginare il disumano: ad essere raggelati, devitalizzati sono i contatti e gli scambi vitali che sono all’origine dello psichico. Il fallimento della depressività, che dovrebbe essere intrinseca alla vita psichica, conduce ad una glaciazione della parola umana, nel suo intreccio ineludibile con la sessualità che la anima e che ne è animata: l’atto di parola dispone ancora di una certa “sensazione” delle parole, ma non riesce a parlare veramente. Della depressività la psicoanalisi – secondo Fédida – non avrebbe valutato a pieno la funzione: ponendo l’accento sul lutto, la perdita o la separazione, si sarebbe trascurato di capire come l’animazione della vita possa essere sperimentata come una violenta minaccia di morte per la vita stessa, fino ad imporre una sorta di identificazione con un morto, costituendo il proprio corpo e il proprio apparato psichico come un sepolcro.
Se la depressione è un modo di trovare riparo e protezione in una immobilità interna, in una durata immobile che sembra l’ultima difesa vitale dall’accelerazione e dal crollo melanconici e dall’emorragia della colpa e della vergogna, essa andrebbe dunque considerata, prima ancora che una malattia, un affetto specifico del tempo, che incrina non solo l’asse passato-presente-futuro, ma i movimenti temporali associati agli eventi della vita quotidiana, e che marca non solo l’azione e la rappresentazione, ma anche il rapporto con sé e con gli altri e le potenzialità del linguaggio: un proto-affetto allo stesso titolo dell’angoscia.
Se nella depressione è l’esistenza stessa dello psichico ad essere messa in causa perché fonte di una sofferenza insopportabile, tocca alla psicoterapia psicoanalitica lavorare per far riconquistare una nuova mobilità affettiva e uno spazio fantasmatico, per rigenerare una risonanza per l’anima e rimettere in opera il linguaggio deanimato; in una parola, secondo Fédida, per restituire al paziente depresso la sua depressività. Che è ripristinabile solo dall’interno, attendendo che si ritessano pazientemente dei legami affettivi e fantasmatici, evitando intrusioni, forzature o scorciatoie, e anche accettando di includere una temporalità del non-cambiamento. Insomma, dando modo al paziente di scoprire le risorse proprie dell’0essere umano, di contro alla inumanità della sua prigionia depressiva. Solo il sogno all’interno della relazione di transfert può rianimare dall’interno un vivente psichico conservato come un morto inanimato, concedendo ai morti – come dice Fédida con una bella espressione – una “soglia di vita”. Quel che mostra questo libro è dunque come la depressione sia certo uno scompenso funzionale cerebrale, ma anche la determinazione di un grado zero dello psichismo che ne custodisca la possibilità gelandolo nel non umano, conservandolo come un morto inanimato per mantenerlo vivente, sia pure a rischio di una sua definitiva sparizione.
Alberto Luchetti.
Questa recensione è stata pubblicata, a firma Alberto Luchetti, sul quotidiano “Il manifesto”, sabato 4 Maggio 2002.
Ringraziamo la redazione nazionale del quotidiano che ci ha concesso l’autorizzazione alla sua riproduzione e, in particolare, la redattrice Stefania, per la sua gentilezza.