Il libro nasce da una serie di corsi di Linguistica generale tenuti negli ultimi anni presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa, che avevano come oggetto generale l’ipotesi del linguaggio come creatore di realtà. Questa visione ha una lunga tradizione nella filosofia del linguaggio, risalendo, storicamente, al dibattito intervenuto nella cultura greca del V secolo tra la linea sofistica e quella platonico-aristotelica, una “battaglia di giganti”, come ebbe a definirla lo stesso Platone, che, vista nella prospettiva di una genealogia e un’archeologia della cultura moderna, si rivela come un evento catastrofale, destinato a ripercuotersi per più di due millenni nella formazione dell’immaginario culturale occidentale.
Platone e, più ancora, Aristotele muovevano da una posizione semantico-referenzialista del linguaggio come strumento, seppure imperfetto, di comunicazione di una realtà considerata come extraumana, data una volta per tutte e conoscibile solo in tanto in quanto si possa postulare una realtà trascendente, eterna e in-sé (la realtà “eidetica” delle Forme platoniche), garante della possibilità stessa di nominare le singole porzioni del reale intese come copie, imperfette e transeunti, delle Forme in-sé. Aristotele insiste sulla funzione comunicativa del linguaggio, postulando che parlare sia possibile solo in tanto in quanto si parli ad un’altra persona e in tanto in quanto si ammetta che ogni parola sia dotata di un solo significato, che l’esercizio del linguaggio metterebbe in comune (comun-icare, appunto), e condannava chi intenda il parlare, invece, come un gioco, un parlare “per il piacere del parlare”. L’allusione è ai sofisti che avevano elaborato una visione del linguaggio pragmatica, come un agire che nell’esercizio contestuale dello scontro linguistico tra due interlocutori crea un effetto-mondo che non è una semplice rappresentazione di una realtà data in sé, ma la creazione di una realtà che si fa nell’atto stesso dell’esercizio linguistico dei due interlocutori. La posizione sofistica più scandalosa, per Platone e Aristotele, era quella del relativismo protagoreo, secondo la quale ogni proposizione sarebbe vera e, come tale, non sottoponibile a un giudizio verofunzionale e alla possibilità di contestazione, in quanto il suo contenuto è vero per il parlante che la emette.
Questa posizione è stata in qualche modo ripresa in età moderna da quanti, specie in Francia, hanno sentito come insufficiente la visione strutturale, postsaussuriana, della lingua come codice comunicativo, proponendo, piuttosto, una versione pragmatica aggiornata: la posizione estrema è quella di Deleuze e Guattari, che vedono nella lingua non tanto uno strumento di comunicazione, ma il mezzo attraverso il quale all’interno di una cultura vengono trasmesse le parole d’ordine dei gruppi dominanti, ovvero l’insieme delle categorizzazioni, visioni del mondo, schemi mentali che organizzano il reale secondo quella logica della dominazione, studiata da Bourdieu, in base alla quale i detentori del potere simbolico inculcano questi schemi nei gruppi dominati, operando un processo di naturalizzazione in base al quale valori e regole arbitrari e frutto dei regimi discorsivi di chi detiene e organizza il potere-sapere (secondo l’espressione introdotta da Foucault) vengono presentati come naturali e, come tali, motivati, nonché risultanti dalle scoperte di una scienza che si presume neutra ideologicamente, oggettiva e “apatica”, ovvero sottratta ai condizionamenti ideologici, emotivi, affettivi dello scienziato: una scienza “scorporata”, cioè depurata di ogni legame con la realtà fisica e transeunte della corporeità.
***
In questa prospettiva, che è stata arricchita soprattutto dalla corrente di pensiero che fa capo al costruttivismo sociale, sviluppato in gran parte sulla base delle proposte di Foucault, un posto di primo piano è occupato dal discorso di genere, ovvero dall’insieme complesso e composito dei regimi discorsivi che hanno contribuito alla creazione plurisecolare degli stereotipi e delle categorie dell’immaginario di genere della cultura occidentale.
L’ipotesi ‘forte’ presentata nel libro è che la griglia mentale soggiacente alle categorie della cultura di genere è la stessa che ha presieduto alla costituzione e categorizzazione delle scienze classificatorie del reale quali la logica e le matematiche. In particolare, comune a entrambi questi regimi discorsivi è la logica della distinzione, fondata sul pensiero binarista, oppositivo e privativo. Questa visione, che di per sé rappresenta la razionalizzazione di uno schema mentale presente nella maggior parte delle culture premoderne, comprese quelle cosiddette primitive, intende il reale come costituito e organizzato in un ordine razionale e concettualizzabile secondo l’interazione di una serie di principi oppositivi binari, quali, per utilizzare come esempio la tabella pitagorica delle opposizioni, il principio del limite e dell’illimitato, dell’unità e della molteplicità, del pari e del dispari e così via. Ogni ente si inserisce in una classe all’interno della quale è individuato da un’essenza immutabile che ne rende possibile una definizione secondo una serie di tratti binari e oppositivi, come nel caso paradigmatico della serie dei numeri naturali, ognuno dei quali è definibile come o pari o dispari. Le opposizioni sono per lo più di tipo privativo, in quanto una coppia di enti è opposta sulla base di un tratto presente in uno e assente nell’altro: ad esempio, l’opposizione principiale tra quiete e movimento è, più esattamente, definibile come quiete (presenza positiva del tratto) – mancanza di quiete = movimento.
Una di queste coppie principali è costituita dal tratto maschile – femminile, per cui ogni ente del reale, anche quelli astratti e non animati, partecipa dell’uno o dell’altro in modo da costituire una rete di proporzioni tra i principi: ad esempio, nell’ontologia pitagorica il principio maschile veniva equiparato al principio del limite e dei numeri dispari, mentre il principio femminile veniva assimilato al principio dell’illimitato e dei numeri pari. La coppia maschile – femminile viene dunque equiparata a tutta una serie di coppie proporzionali, per cui vale, ad esempio, la serie “maschile : caldo : secco : destra : dritto = femminile : freddo : umido : sinistra : curvo” e così via. L’elemento maschile, dunque, fa parte della colonna positiva della tavola delle opposizioni, quella cui si deve un principio di conoscibilità e ordine del reale, mentre quello femminile partecipa della colonna negativa, responsabile di un minor grado di conoscibilità e razionalità e, in ultima analisi, del male.
La costruzione culturale dei due generi è avvenuta, dunque, secondo queste linee: se il pensiero matematizzante equiparava il femminile al numero pari, è possibile dimostrare che la costruzione del femminile avveniva secondo quella categoria della relatività che la logica accademica e aristotelica andava costituendo: la donna era pensabile solo come un “essere-di”, in quanto vista sempre in relazione a un uomo (padre, fratello, marito, figlio), così come, nella definizione aristotelica, il relativo è costituito da quel campo di concetti che non sono pensabili in sé, ma solo in relazione a un altro concetto e sono, quindi, caratterizzati da un “essere-di” (il destro è destro-di un sinistro, la scienza è scienza-di qualche cosa e così via).
Anche la maschilità è andata costruendosi sulla base di una serie di regimi discorsivi di cui una parte importante è stata costituita dal discorso mitico, di cui nel libro si tenta una lettura anche in questa direzione. Fondamentali sono apparsi i due miti di Adone ed Ercole che rappresentano le due polarità archetipiche della machilità: quella negativa (Adone), caratterizzata da tratti come quelli della seduttività, dell’artificio, dell’esercizio seduttivo della parola, dell’eccesso, della prematurità e della sterilità (così come “sterile” era definito il numero pari, femminile, perché la vera forza generativa dei numeri appartiene al dispari maschile) e, quindi, di una virilità insufficiente, così come insufficientemente virile appare a un’etica androcentrica guerriera un’eccessiva propensione del maschio per la donna. Ercole, invece, costituisce l’archetipo di un’ipervirilità costituita soprattutto attraverso i valori della fatica, dell’iperpotenza sessuale stupratoria piuttosto che seducente, della fondazione di città e di una fertilità produttiva e ordinata che ha come esito la fondazione di stirpi e genealogie.
In questa visione binarista, basata sul principio di non contraddizione e del terzo escluso, il fenomeno della cosiddetta omosessualità non poteva apparire che come un problema: prima ancora di costituirsi come un comportamento sociale da accettare e tollerare o da respingere e reprimere, la propensione omoerotica si costituiva come una problema di pensabilità di un fenomeno che non sembrava possibile inquadrare nello schema tradizionale che prevede l’appartenenza di ogni individuo a uno dei due generi e alla propensione per oggetti dell’altro sesso. La storia del rapporto della cultura occidentale (una delle più fortemente omofobe) con il desiderio omoerotico è la storia di una difficoltà plurisecolare a concettualizzare e pensare questo fenomeno. La prima trattazione del desiderio omoerotico come problema risale a un trattato attribuito ad Aristotele, che viene analizzato in un capitolo del libro, per proseguire fino alla trattazione freudiana e psicoanalitica dell’enigma omosessuale. Il libro tenta anche di dimostrare come la cultura greca, anziché costituire un momento di accettazione dell’omosessualità, secondo una tenace interpretazione che legge il fenomeno della pederastia greca secondo la categoria moderna dell’omosessualità, ha al contrario fornito le basi teoriche per la stigmatizzazione di questo comportamento e per la conferma e stipulazione di quel contratto eteronormativo di cui si sono occupati alcuni settori della sociologia e della storia della sessualità in ambito anglosassone.