Massimo Iannucci
psicologo, psicoanalista, socio ordinario della Società Italiana di Psicoanalisi della relazione, Didatta con funzioni di training e Supervisore della scuola di specializzazione in psicoterapia psicoanalitica.
Docente nell’ambito dei corsi della scuola di formazione in psicoterapia psicoanalitica, esercita a Roma l’attività libero professionale di psicoanalista dal 1989 e collabora con il SerD ASL di Mantova realtivamente all’assistenza sanitaria a detenuti con problematiche di dipendenza.
Quando mi è stato chiesto di contribuire con un lavoro al nostro incontro annuale e che il tema sarebbe stato spontaneità e tecnica, mi è subito apparso chiaro il taglio che avrei dato al lavoro e la natura del problema che avrei voluto approfondire, non sapendo, in realtà, in quale ginepraio mi sarei andato a cacciare.
Sì, perché abituati a pensare che per raggiungere il paziente lì dove si trova, fosse sufficiente essere provvisti di una solida attrezzatura teorico tecnica in modo da attraversare situazioni critiche senza perdere la capacità di orientarsi, ci siamo trovati a fare i conti, tra i fattori di cambiamento, con l’ineffabile fattore relazionale e con la persona dell’analista, soggetto inevitabilmente determinante e presenza che invita a riflettere sul suo significato terapeutico.
Appare quasi superfluo sottolineare come l’inevitabile, acquisita, consapevolezza del nostro profondo coinvolgimento, conscio ed inconscio, nella situazione psicoanalitica abbia avuto un’evidente ricaduta sul piano clinico, concettuale e metodologico, non risolvibile nella semplice affermazione che la psicoanalisi è una relazione tra due persone, come se, detto questo, tutto fosse chiaro.
Inoltre, l’aver riconosciuto il coinvolgimento soggettivo dell’analista come fattore di cura non ha implicato, nel panorama psicoanalitico, un’uniformità nelle posizioni teorico cliniche, posizioni che, piuttosto, sono andate declinandosi diversamente e con sfumature differenti nel pensiero dei vari autori.
Sul piano della tecnica, poi, anche all’interno di una stessa corrente, il modo di lavorare di ognuno, di selezionare il materiale, di privilegiare taluni aspetti e non altri, di interpretare, insomma, il modo di sentire, risulta essere molto variabile.
Per dirla con un battuta, in questa tempesta emotiva, che è l’incontro tra paziente ed analista, il brutto affare, dice Bion, siamo noi.
Comunque sia, diversamente dalla tradizione, i modelli relazionali hanno posto l’accento su una prospettiva di ascolto centrata sull’analista in rapporto con il paziente: vagabondare nel mondo affettivo-emotivo al fine di riconoscere le emozioni e gli affetti presenti nel campo per utilizzarli come validi ricognitori utili alla lettura dello stato e dello svolgimento della relazione.
Ma come pensiamo, ora, il cambiamento?
E’ la trasformazione attuata attraverso strumenti come l’ascolto, l’analisi del transfert e del controtransfert, la reverie, l’interpretazione, il setting, operazioni rese possibili dall’assetto mentale dell’analista o piuttosto la questione riguarda la presenza dell’analista come persona, il suo desiderio di aiutare il paziente, il portare avanti una buona relazione in un reciproco coinvolgimento agito?.
Da qui il titolo, “pensare a come fare” o “pensare a come far pensare”, analista come persona o analista come funzione (Mangini 2003).
Naturalmente sono consapevole che la mia è una radicalizzazione semplificatoria e che nella realtà della clinica non abbiamo a che fare con un’alternativa, dato che gli approcci sono, in qualche misura, indifferentemente usati.
Forse, più propriamente, abbiamo a che fare con una questione di enfasi, di accentuazione, ma ciò che vorrei discutere sono le traiettorie e le implicazioni di queste due tendenze dato il loro coinvolgere aspetti della teoria e della tecnica: penso alla mutualità e reciprocità della relazione, alla responsabilità, al setting, alla privacy e così via.
E’ con questo pensiero che ho rivolto la mia attenzione a ciò che chiamiamo spontaneità, a partire dalla sua origine che ha una connotazione decisamente distante dal significato che ha poi assunto nell’uso comune: “sua sponte” vuol dire infatti di sua libera volontà, un atto privo di condizionamenti.
Da subito, paradossalmente, mi è sembrato complicato trovarne una definizione soddisfacente dato l’apparentamento con altri termini come autenticità, genuinità, creatività, non difensività, libertà, franchezza.
Possiamo dire, intanto, che queste dimensioni non debbano essere presenti nel nostro lavoro?
Possiamo dire che l’analista non deve tenerne conto, o, eventualmente, come tenerne conto, visto che la spontaneità a comando illustra un buon paradosso?.
E poi, l’agire spontaneo è dare voce a ciò che genuinamente proviamo, è, cioè, l’espressione di ciò che siamo più che essere un’azione orientata ad ottenere uno scopo? (M.C. Bateson)
E si deve, ed eventualmente, in che modo, e quando, e perché, rendere al paziente l’esito del nostro viaggio?
Kohut illustra nel libro “La cura psicoanalitica” una vignetta clinica: “un paziente arrivò con 25 minuti di ritardo…cominciò a parlare in fretta e riferì, con ciò che mi sembrava un atteggiamento arrogante e di sfida, che era stato ancora una volta fermato per eccesso di velocità e che aveva risposto in tono aggressivo all’agente…Il paziente mi riferiva questi fatti con tono astioso di chi non si è pentito affatto, ricordando disavventure analoghe accadute in passato…..dove era rimasto coinvolto in incidenti. Ascoltai lo sfogo in perfetto silenzio ma quando gli annunciai che stavo per dargli la più profonda interpretazione che avesse mai ricevuto in tutta la sua analisi, tacque. Dopo alcuni secondi gli dissi con grande fermezza e serietà “lei è un perfetto idiota” . Ci fu un attimo di silenzio e poi il paziente scoppiò in una risata, sonora ed amichevole”.
La vignetta di Kohut mi fa pensare ad un analista fortemente sollecitato che fa una comunicazione spontanea e deliberata del proprio vissuto controtransferale.
Quando noi scegliamo di intervenire rendiamo disponibile al paziente la nostra esperienza, esperienza che emerge all’interno di un determinato contesto interpersonale, e che si suppone debba essere in funzione del paziente.
Il paziente ha bisogno di questa franchezza?
Forse sì, forse no, probabilmente potremo capirlo dai successivi interventi e, comunque, nel tempo lungo del processo.
Naturalmente Kohut ci dice che l’intervento produsse ottimi risultati in relazione all’analisi dei tratti narcisistici e ci rassicura sul fatto di aver impiegato una tecnica di confronto di realtà, anche se abbiamo qualche dubbio in proposito.
Ma qual’è il rapporto tra spontaneità e tecnica, o meglio, in che rapporto sono, dato che parlare di spontaneità implica riflettere anche sui concetti di neutralità, di astinenza, di self disclosure.
Il nostro corredo di regole tecniche è da conservare, modificare o addirittura sopprimere per lasciar posto ad uno spontaneismo disvelatorio, a ciò che P.F.Galli ha brutalmente chiamato lo psicoanalista senza mutande?
Vi proporrei una seconda vignetta clinica tratta da Borgogno, un caso tra l’altro da lui presentato proprio durante un nostro incontro-confronto di qualche anno fa.
“La paziente era in silenzio. Le chiesi dopo 10 minuti che cosa succedeva. Disse che faceva quadrato…..ero rimasto colpito dal termine insolito quadrato che mi rimandava alla guerra ed al… testa quadra. Passò nella via un camion facendo un boato.; la paziente sussultò ….ed io dissi “Un rombo come risposta al quadrato” Mi sentii stupito e un po’ fuori posto e fui ancora più interdetto quando la paziente rise apertamente”.
Dirò solo che a partire da questo intervento, che l’autore ci dice funzionò come mezzo di incontro, si aprirono altri significati che diedero vita ad un movimento affettivo che portò verso una relazione più ricca e partecipata.
Questo scambio, per come Borgogno ce lo racconta, rapido ed improvviso, sconcertante ed inconsapevole, mostra un intervento spontaneo che suscita una sorpresa sia in chi ascolta sia in chi lo fa.
Borgogno definisce il suo intervento come una “risposta emozionale non consapevole dell’analista” che viene però concettualizzata come una modalità di sintonizzazione con il paziente che avviene principalmente fuori della sfera della consapevolezza e dunque poco dipendente dalla volontà.
L’uso che la coppia terapeutica ne fa nel seguito dell’analisi, si lega, però, ad aspetti tecnici.
Arnesi da pesca, li chiama Parthenope Bion, strumenti dell’analista che pescano tutti quei fatti che avvengono in seduta e che al loro apparire ci sembrano insignificanti, poco comprensibili piuttosto che stonati o ironici, che si impongono senza una loro apparente collocazione e che verrebbe da accantonare se non lasciassero una sensazione di stonatura rispetto al discorso in atto.
Il senso di tale eccentricità si rivela nel momento in cui essi sono presi in esame tirando su la lenza del controtransfert.
Un’attenta esplorazione delle sequenze interattive ed un puntuale lavoro sul controtransfert mostrano in realtà come questi episodi abbiano una coerenza significativa con ciò che accade nella seduta e quanto, in definitiva, essi esprimano un comprensione profonda della comunicazione del paziente.
Dobbiamo dunque pensare che tutto ciò che avviene all’interno del campo psicoanalitico sia il prodotto, ovvero sia generato, da uno scambio negli stati di reverie del paziente e dell’analista. (Ogden, Baranger) cosicché nell’atto spontaneo “un rombo come risposta ad un quadrato” individuiamo un prodotto di flussi di empatia, di sintonia ed affinità tra i membri la coppia che esita in quella comunicazione.
Mi ritrovo con ciò a fare considerazioni sull’assetto della analista e cioè sullo stato mentale, differente rispetto all’ordinario, con il quale ci predisponiamo al lavoro analitico.
Avevo pensato di proporvi la vignetta di Hoffman e del paziente che chiede all’analista di essere accompagnato in ascensore o il “se non fossi il suo analista le direi vaffanculo” di Mitchell, ma non era ciò che cercavo dato che avevo in mente situazioni più al limite.
Pensavo a quei pazienti gravi con i quali si attraversano momenti di grande tensione e disagio, momenti nei quali si avverte angoscia ed al contempo un forte senso di responsabilità amplificato da una sensazione di impotenza, situazioni nelle quali è difficile non dire nulla e contemporaneamente percepiamo che non è possibile non dire nulla, insomma, situazioni nelle quali non sappiamo dove andare a parare.
Certamente sappiamo che molto dipende dalla sensibilità dell’analista e che i movimenti che accadono in quei frangenti possono non seguire l’ordine della ragione dato che spesso riusciamo a capire qualcosa solamente dopo che un evento è accaduto.
In quei momenti, o nei momenti che li precedono, ci accorgiamo di sentire che stiamo facendo uno sforzo per mantenere una posizione analitica.
Cerchiamo un atteggiamento empatico che, in quanto cercato come operazione tecnica, ci segnala in realtà l’assenza di una comprensione significativa.
Ci rifugiamo nella teoria ma non è con la teoria che possiamo trattare situazioni così complicate.
E’ un compito davvero arduo dato che non è possibile non condividere affetti così violenti.
Il punto è cosa farne, cosa fare, come essere.
La tecnica ci può aiutare?
Per Aron “non vi è alcuna posizione tecnica che garantirà la creazione di una atmosfera analitica costruttiva”
Per Orange, Atwood e Stolorow, 1999, “considerare il lavoro clinico come una tecnica è un fatto ancora pervasivo e gravemente dannoso”.
Per Donnel Stern non può esistere una tecnica vera in grado di comprendere l’esperienza del paziente ma, aggiunge: “senza la tecnica la psicoanalisi non differirebbe da qualunque altra conversazione e senza la partecipazione spontanea da parte dell’analista la psicoanalisi sarebbe emotivamente arida”.
Per ora mi sembra che la frase suggerisca molta creatività da parte dell’analista accompagnata da un uso, per così dire, disciplinato del controtransfert.
Ma, più in generale, la domanda è che peso diamo ad alcuni aspetti tecnici nello svolgersi del processo analitico.
Sono un ostacolo, come, per alcuni versi, sembra anche pensare Bollas, che non possiamo certo annoverare tra gli intersoggettivi radicali, il quale ritiene, per esempio, le interpretazioni di transfert limitanti l’ascolto della logica della sequenza ed il fluire del discorso del paziente?
E come collocare, allora, tutti quei tentativi di costruire specifiche tipologie di trattamento? (Fonagy, Kernberg)
Stiamo decisamente percorrendo un itinerario impervio, un work in progress che ci lascia senza risposte..
Certo, sappiamo che la tecnica è stata, e sarà, sempre modificabile in relazione alle contingenze.(Riefolo).
Personalmente, penso che l”assetto dell’analista non possa essere basato sulla spontaneità dei sentimenti dato che la spontaneità, intesa come “un comportamento i cui modi non siano volti coscientemente verso obiettivi programmati”, può alterare la situazione. (E. Moietta)
Vi ho lasciati con un analista immerso in una situazione difficile che non sa che pesci prendere.
A questo punto leggerei una terza vignetta clinica di Renik.
Renik, illustrando il caso di Laura, una paziente difficile che lo aveva coinvolto in conflitti riguardanti il setting, ci dice che per superare l’ennesimo impasse che si era venuto a determinare, gli viene un’idea: “perché non cercare qualcun altro con cui lei potesse parlare di me e della nostra relazione” e la comunica alla paziente; “le chiesi se voleva vedere un secondo terapista per discutere quello che stava succedendo tra noi”.
La paziente accettò di buon grado e venne stabilito che avrebbe fatto tre sedute settimanali con lui ed una con l’altra terapeuta.
Naturalmente la cura di Laura , racconta Renik, fu un gran successo.
Ricordo, durante la sua esposizione del caso, di avergli chiesto come mai avesse fatto quella scelta, cosa lo avesse guidato, in base a quale criterio. Mi rispose che non lo ricordava e mi fece capire che l’importante era che avesse funzionato.
Qui vi è un forte ridimensionamento della funzione della teoria e della tecnica a favore della pratica.
L’intervento di Renik non è un intervento tecnico quanto un agire pratico.
Renik affronta l’impasse che vive con la paziente, impasse che noi siamo abituati a pensare come la rappresentazione scenica di un problema relazionale nel momento in cui l’analista è in difficoltà a capire la comunicazione inconscia del paziente, attraverso una modificazione della situazione analitica.
Il punto è che per Renik è importante ciò che risulta utile e ciò che è vero è ciò che funziona, rendendo manifesto un forte scollamento tra tecniche e principi teorici da cui alcuni principi non sono più derivabili.
Il rischio è quello di perdere di vista il fatto che alcune regole tecniche “sono nate come criteri per salvaguardare il confine analista-paziente e destinate, almeno in parte, a risolversi nel modo di essere e nello stile personale di ogni analista” (Moccia).
E’ ovvio che siamo chiamati ad un coinvolgimento affinché la relazione terapeutica diventi significativa.
Siamo sostenuti, in questo, dagli studi sulla memoria procedurale, dalle ricerche della neuroscienza cognitiva che hanno condotto alcuni autori a considerare la terapia come una nuova relazione di attaccamento in grado di riconfigurare la memoria implicita. (Fonagy)
Penso ai “now moment” di Stern come momenti in grado di riorganizzare le esperienze precoci di attaccamento, in presenza di un analista affettivamente coinvolto ed in assenza di una comprensione cognitiva.
Comunque sia, questo coinvolgimento, questo immergersi nel mondo della paziente per sentire e capire, funzioni che si suppone orientino il nostro agire, non può essere disgiunto da una attitudine ad un distacco in grado di creare spazi di pensiero e riflessione, all’interno di una struttura simbolicamente investita, veicolo di cambiamento e luogo di interpretazione.
Come retoricamente si chiede Thanopulos, i pazienti hanno bisogno della nostra partecipata affettività, “degli enactment o delle autorivelazioni dell’analista per viverlo, ed usarlo, come persona”?
Da un altro versante, cioè, l’affettività dell’analista e la sua partecipazione si esprimono solamente, o principalmente, attraverso autorivelazioni e lo spontaneismo?
Certamente l’analista è presente in maniera totale, con la sua personale disposizione, le sue esperienze di formazione e di vita e le sue teorie.
Tutto ciò si traduce in uno stile personale ma l’idea che se l’analista è aperto, disponibile, chiaro rispetto alle proprie emozioni ed alla loro comunicazione, il paziente ne trarrà giovamento, le impasse potranno essere superate, il lavoro diverrà più proficuo, mi sembra corra il rischio di assegnare alla soggettività dell’analista un peso preponderante che finisce per intrudere con aspetti privati del paziente.
Cioè, se in assenza di criteri dirimenti e di fondamenti teoretici del nostro operare, lo strumento per produrre un cambiamento consiste nell’affidarsi ad un criterio soggettivo, criterio che, non stando nelle regole o nel metodo, non può che risiedere nella mente dell’analista, il rischio è di fornire una cornice che giustifica il dispiegarsi incontrollato del contro-transfert e della soggettività dell’analista.(Riolo 1999)
Il setting è un vuoto cerimoniale o una procedura simbolica che conferisce senso all’esperienza, è uno strumento che struttura la relazione o un rito la cui significatività può essere sacrificata in nome del rapporto con il paziente e della spontaneità dell’analista?.
Gli esempi che vi ho illustrato sono molto differenti tra loro e sono consapevole che li sto usando in un modo che esprime le mie personali inclinazioni, le mie frequentazioni ed orientamenti ed anche, naturalmente, i miei dubbi.
Mi ha molto divertito una considerazione di Vergine che, molto grossolanamente, divide gli psicoanalisti in “quelli che pensano ad un essere comune della malattia, in continua cura, e quelli che, essendo esperti, pensano di curare i malati.”
Mentre i primi “sono anche consapevoli di non avere alcun potere tecnico in senso stretto, tranne quello di essersi sempre notevolmente esercitati nell’analisi…… e quindi di essere capaci….di sospendere il più possibile ogni giudizio, per dare spazio alle libere associazioni, per conquistare sempre nuovi sensi del vissuto”, i secondi pensano, al contrario, “su cosa si deve fare o dire al paziente,” e per i quali “non ha importanza il metodo e la sua elaborazione teorica, purché si dia una risposta immediata per alleviare la sofferenza di una persona”.
Do per condivisi alcuni punti problematici:
1. L’azione terapeutica: nonostante la ricerca vada avanti proficuamente, il modo attraverso cui si operano trasformazioni rimane ancora molto incerto.
Se dovessimo dire in base a cosa consideriamo le analisi riuscite ci troveremmo in difficoltà dato che all’opera entrano fattori in gran parte ineffabili dovuti al dispiegamento di fattori relazionali che solo in minima parte riusciamo a comprendere e a trasformare (Barnà).
2. I nostri commenti sono una piccolissima parte dell’esperienza complessiva che facciamo nella relazione con il paziente, commenti le cui implicazioni, perlopiù, risultano fuori dalla nostra consapevolezza.
3. E’ inevitabile che le tecniche nel tempo si modifichino dovendo fare i conti con cambiamenti culturali e sociali che gradualmente “modificano radicalmente il piano delle relazioni e della comunicazione” (Riefolo) ed un’applicazione della tecnica che non cerchi continuamente di modularsi con la realtà, dice Badaracco, è una negazione del metodo.
Non sono stupito dell’elasticità o della possibilità che l’analista si comporti meno rigorosamente e con modalità fuori dall’ordinario: Winnicott, per esempio, parlava dell’importanza dei gesti di conferma e convalida che fanno sentire il paziente esistente e che possono passare anche attraverso espressioni aperte di rabbia o di odio.
Penso, però, che l’apparato psicoanalitico debba rimanere saldo e rigoroso.
Quando, per esempio, entriamo in seduta, o ricaviamo quei 10/15 minuti tra un paziente e l’altro, quello spazio di decompressione, che è l’organizzazione del setting, consente il passaggio da uno stato mentale all’altro.
Abbiamo una teoria che sostiene la libertà d’ascolto dell’analista, la comunicazione da inconscio a inconscio, sempre che questo concetto abbia per noi ancora un senso.
Mi riferisco a quella trama dialogica che vede l’attenzione liberamente fluttuante dell’analista e le libere associazioni del paziente incontrarsi in un autentico “essere accanto” al paziente, espressione di un pieno funzionamento intersoggettivo. (Ogden 1994).
L’allenamento ad un atteggiamento analitico di“attenzione liberamente fluttuante” trova tra l’altro un fondamento nei neuroni specchio che, come sapete, avendo a che fare con l’attivazione dei medesimi pattern neurali, sostiene l’idea che la sensibilità e la consapevolezza dell’analista dei propri pensieri spontanei e stati mentali sia una importante fonte di informazione su quello che accade nella mente del paziente.
La questione non riguarderebbe la spontaneità o meno di un intervento quanto il fatto che il nostro sentire contiene aspetti dell’esperienza del paziente e importante diventa l’uso che ne facciamo.
All’opposto della spontaneità, però, questo apparato comunicativo di ascolto è una acquisizione tecnica molto sofisticata per cui non facciamo uso di teoria in seduta ma facciamo uso della nostra esperienza e di un metodo, facciamo uso di una sorta di spontaneità allenata, per così dire, all’ascolto, all’osservazione ed all’indagine, insomma, alla relazione.