Il mito fondamentale della nostra religione possiede una tale densità di significati, che ancora oggi ci interroga e ci stimola a nuove riflessioni. Tanto si è detto a proposito del peccato originale, in termini di psicoanalisi, filosofia e antropologia, oltre che di teologia; eppure, alla luce di alcune recenti acquisizioni scientifiche, ancora una volta possiamo tornare sull’argomento con un punto di vista arricchito e nuovo (1).
Prima di cominciare, vorrei raccontare un particolare aneddoto che l’argomento richiama sul proscenio della mia mente: il ricordo di uno scambio casuale durante un antico viaggio in treno, cui si collegò, per coincidenza e contrapposizione, l’impostazione teorica della mia prima maestra di psicoanalisi sull’intera faccenda.
Tanti anni fa, un periodo in cui viaggiavo spesso in treno, feci un curioso incontro che è rimasto impresso nella mia memoria. Partivo presto il mattino, anche se le levatacce non erano e non sono mai state il mio forte. Sul treno, se potevo, mi appisolavo di nuovo, ma quel giorno non c’era stato verso di scovare uno scomparto sufficientemente vuoto e silenzioso, adatto al mio scopo. Per di più, altra gente era salita alla prima fermata e presto mi ritrovai nel mezzo di una piccola folla animata che aveva una gran voglia di chiacchierare. Di fronte a me sedeva il personaggio di gran lunga più significativo, una suora piuttosto corpulenta, dall’aspetto carismatico, che io cominciai a osservare di sottecchi, un po’ incuriosito e un po’ intimidito. In meno che non si dica, lo scomparto si trasformò in aula di scuola e la suora ci arruolò tutti come allievi. Si venne subito a sapere che non si trattava di una semplice suora, ma di una madre superiora (non ne avevo dubitato nemmeno per un istante, dal momento in cui l’avevo inquadrata) e, per di più, di un’insegnante di teologia. Non avevo tanta voglia di ascoltare la sua predica, ma ne fui catturato mio malgrado. La suora prese a spiegarci con particolare enfasi e con dovizia di particolari come la causa prima di tutti i nostri mali risieda nel peccato originale. Sulle prime non fu tanto l’argomento a colpirmi, ma la forte convinzione che sentivo emanare da tutto il suo essere. La mia mente razionale era indispettita: come può un’insegnante di teologia prodigarsi nell’esprimere un argomento così banale? Faceva tanti esempi che riguardavano tutte le specie di peccati, sempre ricollegandoli alla loro radice unica, il peccato compiuto da Adamo su istigazione di quella peste di compagna obbligata che gli era stata confezionata e affibbiata dal padreterno: Eva. Un’altra parte di me era inspiegabilmente catturata dall’arringa e a distanza di trent’anni rivaluto quella parte e comincio a farmene una ragione.
Quello strano incontro sul treno mi fece molto riflettere sull’importanza del peccato originale. Fino a quel momento non avevo considerato l’enorme valore che la questione riveste ancora oggi per la coscienza di un credente, eppure, ripensandoci, mi pare del tutto naturale che sia così. Il significato centrale della religione cristiana è quello dell’incarnazione di dio in Cristo, allo scopo di venire a indicarci una via di salvezza da quella tragedia cosmica che aveva segnato l’inizio della carriera propriamente umana dell’essere umano. L’acquisto del libero arbitrio (o meglio, la conoscenza del bene e del male) era avvenuto sulla base di una trasgressione disastrosa, con la conseguenza che Adamo ed Eva persero forse molto più di ciò che guadagnarono, perché improvvisamente si sentirono smarriti e vergognosi di se stessi, estromessi dall’incanto nel quale erano nati e cresciuti fino a quel momento, stranieri nel rapporto con quel mondo naturale che era stato la loro culla e la loro casa.
Il discorso uscito dalla bocca della suora rappresentava la voce dell’ortodossia cattolica e probabilmente mi colpì così tanto per via del contesto storico personale nel quale si era improvvisamente venuto a collocare. Stavo, infatti, viaggiando diretto a Milano, per incontrare Silvia Montefoschi, la mia maestra di quel tempo, una persona che aveva il dono di capovolgere ogni idea preconcetta, cosa che io trovavo assolutamente affascinante in quel precoce periodo della mia vita professionale. La posizione di Silvia sul peccato originale era identica a quella che avevano preso gli antichi gnostici, una setta d’intellettuali eretici della prim’ora. È incredibile come la storia delle idee si ripeta in maniera circolare, anche a distanza di secoli e millenni, e quante volte sia già stato pensato e affermato ciò che a noi sembra ogni volta così nuovo! Io ero diventato l’allievo convinto di una maestra gnostica che mi seduceva con l’arma dell’intellettualità dissacrante e mi dava il senso di essere uno fra i pochi, capaci di comprendere il significato vero delle cose.
Per gli gnostici e per Silvia Montefoschi il significato del mito delle origini doveva essere completamente rovesciato. C’erano due spiegazioni possibili che rendevano plausibile l’accaduto. La prima era che Dio avesse proibito ai primi esseri umani di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza, allo scopo d’incuriosirli e d’indurli appositamente in tentazione. Anche nell’ortodossia si è insinuato un germoglio di questa riflessione, mai apertamente avvalorata, ma garbatamente adombrata nel concetto di felix culpa (2), riferito al peccato originale. La seconda, quella preferita dagli gnostici, era che il dio onnipotente (da loro chiamato Samuele) fosse soltanto un dio esecutore di basso livello e un usurpatore del trono della divinità. L’idea era che questi volesse impedire per invidia l’ulteriore sviluppo della mente umana, il salto evolutivo che avrebbe destinato l’essere umano a occupare una posizione di assoluto privilegio, forse anche più importante della sua, al centro della creazione.
Perfino le tragiche conseguenze della cacciata dal paradiso erano esaltate da Silvia. L’improvviso stato d’angoscia nel quale il genere umano fu sprofondato era da considerarsi come una conseguenza rivelatrice della distanza riflessiva e della libertà di scegliere. Se questo privilegio era vissuto soggettivamente in un modo così avvilente e sgradevole (la prospettiva di guadagnarsi la vita con il sudore della fronte, di partorire con dolore, ecc.), era solo perché una parte di noi stessi ancora si attardava nella nostalgia della perduta condizione animale e rimpiangeva, idealizzandola, una cosa che non era minimamente da
rimpiangere, la vita nella condizione degli esseri bruti, o, meglio ancora, una cosa che non era mai esistita, come l’immortalità, o l’armonia fra tutte le creature. Ciò che l’essere umano, diventato finalmente tale, malinconicamente rimpiangeva era soltanto l’illusione causata dal suo precedente stato d’ignoranza ed era compito della psicoanalisi montefoschiana informarlo della sua fortuna e della possibilità di riconoscersi nella parte nuova di sé: quell’essere destinato a evolvere gloriosamente sempre di più, creatura spirituale che, una volta per tutte, aveva trovato il coraggio di rompere i vincoli della condizione animale e mai più si sarebbe girata indietro per rivoltolarsi nel fango. Del resto, anche i filosofi esistenzialisti avevano affermato che l’angoscia esistenziale segna la condizione dell’uomo libero e artefice di sé, una condizione di cui andare fieri, da considerare come privilegio di acquisita libertà di coscienza e non come deragliamento e malattia. Per Sartre, ad esempio, mentre tutte le cose e tutti gli animali, in quanto bruti, hanno una natura “in sé” che li definisce e li guida, la coscienza umana costituisce la novità assoluta di un “per sé”, dal momento che sceglie e si dà la propria natura da sé. Il senso di estraniamento e di angoscia che ne deriva è un buon segno, è segno di autenticità della coscienza e, in questa prospettiva, il peccato originale può essere soltanto qualcosa di cui andare orgogliosi.
Ora viene la parte difficile del discorso e il tentativo di spiegare perché, nel volgere del tempo, il mio pensiero sia cambiato di segno, per cui adesso ritengo che l’interpretazione canonica del mito sia quella giusta, mentre la posizione gnostica sia completamente sbagliata.
Anzitutto vorrei enfatizzare il contesto interpersonale nel quale avvenne quel primo peccato: Adamo non prese la mela dall’albero, ma dalle mani della sua compagna. Mettiamoci nella giusta prospettiva di quel fatidico momento inaugurale, così carico di destino: siamo ancora immersi e circondati quasi unicamente di forme naturali, ma la mela, improvvisamente, non è più soltanto una mela. Proprio perché ci viene presentata sulla mano di Eva che già l’ha staccata dall’albero e ce la porge, manifestando la sua peccaminosa intenzione, essa è già un prodotto di cultura, un “artefatto” che trova il suo senso all’interno di uno scambio interpersonale. Mi sento legittimato a ridisegnare quella mela, circondandola, nella mia immaginazione, di un’aura simile a quella che avvolge la pipa di Magritte, sotto la quale sta scritto: “Questa non è una pipa”.
Personalmente non immagino quella mela né rossa, né verde, come le mele del Trentino, ma iridescente come una sfera di cristallo, uno specchio magico nel quale tutte le forme si possono riflettere, trapassando l’una nell’altra in un gioco senza fine. La melasfera è la rappresentazione simbolica della totalità, in sé conchiusa, di quello stesso paradiso terrestre, come quelle sfere decorative kitsch, piene d’acqua, che contengono un piccolo paesaggio e si riempiono di neve quando qualcuno le scuote. Invece della neve, immaginiamo di vedere la danza relazionale di cui parla Bateson e l’eterno ciclo della vita: la vita della preda che diventa vita del predatore, che diventa vita dei vermi, che diventa terra fertile, e così via all’infinito. Abbiamo così la rappresentazione della totalità del mondo intorno, operata dalla nuova forma di coscienza di Adamo ed Eva, nel momento in cui essa, nel suo emergere, si stacca da quello stesso mondo e stacca entrambi dalle loro radici. L’accesso alla parola, cioè la coscienza narrativa per mezzo della quale essi sono diventati capaci di dare un nome ad ogni cosa, li fa sentire “onnipotenti” e contemporaneamente li taglia fuori dall’armonia del creato e consente loro di guardare per la prima volta dal di fuori la danza relazionale che fino a quel momento aveva prodotto, contenuto e governato la loro vita e anche la loro mente. La cosa più disastrosa è proprio l’illusione, che in loro si crea in quel momento, di possedere e di tenere in pugno la totalità del creato, mentre in mano hanno soltanto una forma simbolica, un sillabario di segni, uno specchio per allodole.
Qui entra inevitabilmente in scena l’altro fondamentale protagonista di quella scena primordiale: il serpente. Nemmeno il serpente, per la verità, era soltanto il povero animale strisciante che tutti conosciamo, ma, come la mela, era stato già investito di un potente significato metaforico ed era stato scelto come simbolo di doppiezza, per via della lingua biforcuta, oltre che fatto oggetto di particolare antipatia per il suo modo tipicamente insidioso di difendersi e di cacciare, iniettando veleno. La lingua biforcuta, questo è il punto, è già di per se stessa velenosa, perché rappresenta quell’apertura metaforica originaria del dire una cosa per significarne un’altra. Proprio per questo, essa è assurta a “metafora della capacità di metaforizzare”. Il diavolo, in quanto simia dei, rappresenta infatti lo sdoppiamento “artificiale” della natura, causato dalla capacità rappresentativa e metaforizzante della mente umana.
In realtà, non ci sarebbe stato nessun bisogno di mordere quella mela e qui la descrizione mitologica diventa alquanto ridondante, a mio modo di vedere. Adamo, con il suo morso, mi sembra piuttosto uno sciocco, un illuso, un consumatore che non ha idea di ciò che sta mangiando. Non è lui che ha compiuto il peccato, ma senza dubbio Eva che, nell’atto stesso di esibire seduttivamente la mela, ha già creato (antesignana di Magritte) una sofisticazione, una rappresentazione metaforica della totalità del creato (3) e la magica illusione di poterla possedere, osservandola da fuori e poi, addirittura, cibandosene. Adamo ci casca in pieno. In quell’attimo si esprime tutta la drammaticità di un capovolgimento rivoluzionario, perché dall’essere contenuta e protetta all’interno di quella sfera, come fino a quel momento era stato, la coscienza umana improvvisamente ne è emersa, o si è illusa di esserne emersa, diventando a sua volta un contenitore senza confini. La danza relazionale si è improvvisamente spezzata e l’essere umano si è identificato con dio, colui che tutto vede e tutto domina a partire da una posizione trascendente, cioè dal di fuori del coinvolgimento diretto con le cose.
Manipolare metafore e simboli significa interferire dissennatamente con la creazione. Dalla mela che non è una mela, contenuta nella mano di Eva, alla formula della bomba atomica, scarabocchiata sulla lavagna di un’aula di studio, nascosta nel fortilizio di Los Alamos, il passo in realtà è assai breve. Attraverso la parola abbiamo inaugurato la possibilità di avvalerci d’infinite esperienze mai fatte in prima persona, rubando e moltiplicando all’infinito ogni sorta di competenze altrui, scoprendo trucchi e funzionamenti d’ogni genere (4), che tutti hanno questo in comune: di non essere farina del nostro sacco, di non essere frutto d’esperienza in prima persona. In qualità di apprendisti stregoni, abbiamo costruito un intero mondo di cose che valgono e funzionano per ragioni che sfuggono completamente a noi stessi che ce ne serviamo (5), e tutto ciò ci rende spaventosamente estraniati dall’animale che eravamo e che continuiamo a essere in termini di coscienza primaria, per quel poco che ci resta di vita autenticamente vissuta.
Per tutte queste ragioni devo riconoscere che la madre superiora seduta trent’anni fa di fronte a me in quello scomparto di treno aveva perfettamente ragione a infervorarsi nella sua predica e vorrei poterle dire che, dopo tutto, io ne ho fatto tesoro. Devo riconoscere che il mito dice la pura e semplice verità e per questo motivo il suo significato non deve essere affatto capovolto. Cogliendo quel frutto proibito abbiamo dato retta al principio di sdoppiamento della realtà (il serpente) e ci siamo malauguratamente identificati con dio: abbiamo imparato a raccontare accattivanti storie d’ogni genere, a padroneggiare formule magiche totalmente assurde e siamo impazziti di una forma d’inguaribile megalomania paranoica. Prendendo sul serio le storie che noi stessi ci raccontiamo, tendiamo costantemente a perderci in una babele di deliri incrociati.
Per la prima volta, ascoltando l’intervista al papa e la sua risposta alla domanda che gli è stata fatta: “Chi è Bergoglio?”, ho capito il senso (traslato) di un’affermazione canonica che in passato avrei giudicato con sufficienza intellettuale. La sua risposta è stata: “Bergoglio è un peccatore sul quale dio ha posato il suo sguardo”. Noialtri esseri umani, duole ammetterlo, siamo davvero dei peccatori e il senso paradossale della nostra esistenza è proprio quello di cercare un rimedio per il peccato che ci ha fatti nascere. Altro che orgoglio esistenzialistico di sentirci smarriti! Per tutte queste ragioni, il mito si sviluppa nel cristianesimo con la promessa di una possibile guarigione della mente umana attraverso un processo d’incarnazione veicolato dall’amore, una reincarnazione della coscienza che si è disincarnata a causa del peccato d’orgoglio.
Alberto Lorenzini è medico, psicoterapeuta, psicoanalista della relazione, iscritto alla SIPRe, direttore di “Ricerca Psicoanalitica”, co-direttore della rivista “Script riflessioni: I campi della soggettività”.
alberto.lorenzini(at)gmail.com
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Note
(1) Mi riferisco alle ricerche sull’inconscio procedurale condotte nell’ambito dell’infant research, allo studio delle metafore primarie di Lakoff e Johnson, alla titanica impresa condotta da Fouts allo scopo d’insegnare il linguaggio dei segni agli scimpanzé, all’evoluzionismo ecologico di Oyama e soprattutto alle ipotesi sulla natura della coscienza primaria presentate da Edelman. Dopo avere scritto queste pagine, ho scoperto di essere molto in sintonia con la lettura del peccato originale che Bateson presentò all’incirca cinquanta anni fa nell’ambito della London Conference on the Dialectics of Liberation, agosto 1968. Quel testo, intitolato Conscious Purpose versus Nature, fu pubblicato in traduzione italiana da Einaudi nel volume collettaneo Dialettica della liberazione e successivamente in Verso un’ecologia della mente (Adelphi). Siccome Bateson non aveva a disposizione i dati scientifici odierni, si può considerare la presente interpretazione del significato del peccato originale come una conferma di ciò che egli aveva già allora intuito con la solita sua intelligenza preveggente.
(2) La frase, derivata da un’omelia di sant’Agostino, è tratta dalla liturgia della Chiesa, e precisamente dall’Exultet o Preconio pasquale, che viene a tutt’oggi cantato il Sabato Santo per la benedizione del cero pasquale: «O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem» (Messale Romano, Preconio pasquale, Exultet).
(3) Vale la pena notare che il cerchio è il primo organizzatore simbolico del disegno infantile (Fordham, 19).
(4) “Espedienti” li chiama Bateson nel saggio citato.
(5) Ricordo l’espressione imbarazzata del professore di matematica di liceo cui espressi il mio disagio al termine di una lezione: riuscivo a eseguire il nuovo calcolo che ci aveva insegnato, ma non riuscivo a capire “cosa facessi nel farlo”, cosa in realtà io avessi imparato a padroneggiare. Mi rimandò al posto con biasimo e senza una spiegazione.