Letto da Giovanni Lancellotti

Il libro di Paul Watzlawick recensito di seguito è un lavoro breve e sintetico, ma di indubbia efficacia. Lo stile è tipicamente anglosassone, quasi “tacitiano”. Concetti chiari e dimostrati, sicurezza in quello che può essere chiarito e compreso, dubbi espliciti su ciò che è ancora poco conosciuto. Pensiamo di fare un’operazione utile e interessante proponendo un opera che tratta scientificamente del linguaggio della psicoterapia e, in generale, dei linguaggi che operano sulla linea dell’analogia, come analogico è il processo terapeutico.

Watzlawick, in quest’opera, sostiene la tesi che il linguaggio del cambiamento, cioè il linguaggio della psicoterapia, è quello originato e recepito dall’emisfero cerebrale destro, quello che decodifica le emozioni, i passaggi analogici dei procedimenti di pensiero. E quindi, per operare un cambiamento attraverso il linguaggio, bisogna comprendere il funzionamento dell’emisfero cerebrale destro e analizzare il linguaggio più appropriato per entrare in contatto con questa entità; tutto ciò con un procedere molto pragmatico.

La tesi di basa sulla teoria della bilateralità funzionale del cervello, cioè sull’assunto di una differenziazione di funzione tra i due emisferi cerebrali: il sinistro preposto ad operazioni logiche, ordinative, classificatorie, distintive, il destro atto a realtà analogiche, emotive, adatto a cogliere fenomeni di condensazione, a “ragionare” per immagini, ad avere un linguaggio simile a quello dei sogni, a produrre simboli.

Watzlawick parte dalla constatazione che il procedimento terapeutico classico sia quello di tradurre la parte buia e inconscia dell’animo nella lingua della ragione e della coscienza, considerata terapeutica (l’aforisma freudiano “là dove c’è l’Es deve subentrare l’Io”).
Mentre “Il linguaggio del cambiamento” afferma che è appunto nel linguaggio oscuro, bizzarro e insensato dell’emisfero destro che va collocato l’ambito della modificazione terapeutica [1]. L’operazione di ricerca, di conseguenza, va centrata sull’analisi di una grammatica della lingua terapeutica e sulla verifica della sua efficacia.
Tale impostazione ha i suoi riferimenti ancestrali nel mondo primitivo della magia e le sue tracce filogenetiche nel linguaggio delle fiabe e nell’immaginazione infantile. È in questi ambiti che, sulla base di un’interazione simbolica, completamente assurda per la logica formale aristotelica (che ha il suo assunto principale sul principio di non contraddizione), che si genera un risultato concreto.
Se si traduce in ambito relazionale (e il linguaggio è il principale costruttore di questo contesto) questa visione di un aspetto della realtà, si osserva che col linguaggio della comunicazione interpersonale c’è la possibilità di giungere a trasformazioni corporee, anche se la strada per la “guarigione” passa, come è ovvio anche da un punto di vista intuitivo, attraverso la psiche [2].
La malattia, di converso, può arrivare, attraverso sempre la psiche, per una via che abbiamo sempre percorso, un linguaggio sempre usato, di natura patogena, nella comunicazione con noi stessi, anche se di questo non ce ne eravamo mai accorti [3].
Agente di guarigione è poi lo stesso linguaggio della confusione e della patologia, in omaggio al pensiero che “similia similibus curantur”, che può essere messo a servizio della salute [4].
Si tratta cioè di esprimere la stessa considerazione, ma in modo diverso, in quanto le rappresentazioni di se stessi, le emozioni, le aspettative, l’influenza di altre persone sono, allo stesso tempo, minacciose o salvifiche.

Date queste premesse Watzlawick si avventura a trovare segni nella storia della constatazione dell’esistenza di un linguaggio che “produce effetti”. La discesa negli sviluppi dell’intellettualità umana arriva all’antica Grecia, ad Antifone di Atene che, con la sua “arte consolatoria” (la possibilità di esercitare influenza sul prossimo), intravede nella guarigione un “ristrutturazione” di ciò che il malato considerava reale o vero.
Anche Platone e i medici seguaci di Ippocrate parlano di abreazione delle emozioni, anche se non si esprimono linguisticamente in questi termini [5].

Dal momento che il “medium” è il linguaggio, ecco che si presenta subito una “vexata quaestio” tra l’arte della retorica intesa come vacuità e manipolazione strumentale (la pura arte sofistica che doveva servire per influenzare l’agorà) oppure concepita al servizio del giusto, della verità o, secondo l’affermazione platonica, del “bene”. Di tutto ciò che è in grado di guarire si può fare cattivo uso.

Data l’assunzione del linguaggio a così alta potenzialità, altro “assioma” di Watzlawick è che non è possibile non influenzare l’altro. Il problema è di usare l’influenza in modo responsabile, eticamente corretto ed efficace [6], considerando che la priorità del linguaggio è determinata dal fatto che dobbiamo parlare di immagini della realtà viste dal soggetto e non della realtà data.

A questo punto Watzlawick si pone il problema di sfatare due miti: l’assenza di influenza in terapia e la concezione della ragione come la più alta qualità umana.
È rigidamente illusoria, secondo l’autore, la cognizione che “la realtà possa essere colta oggettivamente e che il grado di adattamento alla realtà di una persona sia dunque anche, contemporaneamente, misura del grado della sua normalità” [7].

Se si ipotizza che non sia questo il passaggio, allora è necessario esaminare la sostanza e la forma delle nostre due lingue, per concentrare l’operazione dell’influenza terapeutica e del cambiamento su quello che Watzlawick definirà “linguaggio analogico”, cioè quello dell’emisfero destro.

Il linguaggio poetico viene preso come punto di partenza: tale forma linguistica non media informazioni, ma evoca emozioni, ricordi del passato, vissuti individuali.
Esistono cioè due lingue:

  1. una dà delle definizioni, è obiettiva, cerebrale, logica, analitica, è la lingua della ragione, della scienza, dell’interpretazione e della spiegazione e, dunque, della maggior parte delle terapie attuali,
  2. l’altra non è la lingua della definizione, è la lingua dell’immagine, della metafora, della pars pro toto, del simbolo, in ogni caso della totalità (e non della scomposizione analitica).

Dal momento che il fenomeno linguistico è espressione di pensiero, esistono anche due pensieri:

  1. il pensiero diretto. Segue le leggi della logica della lingua e dunque della grammatica, della sintassi, della semantica (cioè della divisione dei campi di concentrazione del discorso),
  2. il pensiero indiretto. È quello dei sogni, delle fantasie, dei vissuti. Si esprime nello scherzo, nel gioco di parole, nel motto di spirito, nella freddura, nella insinuazione e nella condensazione [8].

Quanto sopra detto dà luogo a due diverse modalità comunicative:

  1. digitale: è caratterizzata da un’associazione convenzionale tra una parola (suono e segno) è un aspetto della realtà (alla parola gatto associo la realtà di animale col pelo, a quattro zampe, domestico…). È per pura convenzionalità che un sistema linguistico ha piena corrispondenza con elementi della realtà, nel senso che il sistema è intercambiabile con un altro sistema, così come succede per le lingue storiche.
  2. analogica: è caratterizzata da segni che hanno un immediato rapporto di significato con ciò che designano, in quanto rappresentano un’analogia, cioè una rappresentazione della realtà attraverso un linguaggio che “mima”, ma non imita, la realtà stessa, ha quindi un grande potere di evocare immagini. Ad esempio le diverse colorazioni o i rilievi di una carta geografica, i segni ideografici, i simboli nei sogni , le parole onomatopeiche.

Il linguaggio dell’analogia non rispecchia la realtà, ma la crea, perché ha una libertà di processo e una molteplicità di significati che il linguaggio digitale, per sua stessa natura e funzione (la comunicazione pratica), non può avere.
Altra definizione distintiva delle due lingue è senz’altro quella junghiana tra pensare-sentire e sensazione-intuizione (coppie di opposti) [9].
A questo punto Watzlawick introduce la teoria dei due cervelli e della dualità funzionale degli emisferi destro e sinistro, che sta alla base delle riflessioni successive sulla natura e la forma del linguaggio del cambiamento. Ci troviamo quindi di fronte ad un’impostazione che poggia su una teoria organicistica, su una base fisiologica e su alcune prove sperimentali.

La base di questo studio è nata dall’osservazione di pazienti operati di commissurotomia (separazione mediana dei due emisferi, attraverso l’incisione del corpo calloso, che è la più vasta zona di collegamento trai due mesencefali. L’osservazione è stata fatta quindi sulla basedi una possibilità di verificare separatamente le competenze cerebrali. Altri studi sono derivati dalla osservazione dei comportamenti di pazienti colpiti da emiparesi cerebrale. Da queste indagini scientifiche deriva che:

  1. l’emisfero sinistro è la sede delle funzioni logico analitiche, della lingua, delle abilità di leggere, scrivere e far di calcolo, della comunicazione digitale, è l’emisfero “verbale”,
  2. l’emisfero destro ha la capacità di cogliere la totalità, “vede” contesti, tipi e configurazioni complesse. Può cogliere la realtà partendo da una piccolissima parte di essa (ad esempio una percezione olfattiva).

Mentre l’emisfero sinistro ha una competenza che si può definire come “composizione mosaicale di più tessere”, l’emisfero destro ha la possibilità di cogliere una forma complessa di immagine che, scomposta nei particolari, non dà la medesima gestalt (ad esempio è possibile cogliere un volto nella sua interezza, ma se lo descriviamo nei particolari, l’immagine che ne risulta non è quella che avevamo nella nostra mente).
In psicolanalisi le funzioni dell’emisfero destro coincidono con quelle dei processi primari, cioè del sistema inconscio (con caratteristiche fondamentali l’atemporalità, la “legittimità” della contraddizione, la condensazione). Si tratta di un linguaggio “arcaico e non sviluppato”, con capacità di percezioni quantitative, anche in assenza di conoscenze numeriche precise. L’emisfero destro possiede un’immagine del mondo più o meno definitiva, con immagini appartenenti al ricordo e alla sue sensazioni. La musica è tutta di “competenza” dell’emisfero destro.
Le lesioni dell’emisfero destro producono incapacità di cogliere la totalità, la figura geometrica, oppure, ad esempio, la possibilità di riconoscere un volto.

Tutti queste asserzioni derivano da prove di natura sperimentali che, ancora una volta definiscono la diversità di funzionamento dei due cervelli ed anche l’indipendenza di uno dall’altro, nel senso che ciascuno dei due emisferi risponde agli stimoli che cadono nel suo ambito. Ogni tentativo di influenzare uno dei due emisferi si deve servire della sua lingua specifica, affinché il segnale o la comunicazione giungano fino ad essa.
I due cervelli si integrano e domina quello più adatto alla situazione.
DAVID GALIN (un autore citato da Watzlawick a pag. 40) afferma che la “soluzione” tra i due cervelli avviene per velocità, cioè l’emisfero che giunge più velocemente alla soluzione del problema determina il “modo” di tale soluzione.
Nelle scimmie antropomorfe la dominante emisferica può essere influenzata tramite rinforzi.
Così per il bambino (nella prima infanzia non esiste ancora dominanza netta). L’emisfero che ha maggiore successo di ottenere un rinforzo positivo diviene sempre più dominante.
Le forme di esperienza conoscitiva non sono intercambiabili, non è possibile tradurre una nelle modalità dell’altra (ad esempio l’esperienza di un concerto sinfonico non è esprimibile col linguaggio verbale e viceversa).

A questo punto della sua trattazione Watzlawick prosegue ad esaminare le implicazioni a livello di comportamento individuale, di funzionalità e di comunicazione determinate dalla configurazione diversamente funzionale dei due emisferi.
In determinate situazioni conflittuali, ad esempio, i due emisferi non sono sorretti, nella loro integrazione, dal legame del corpo calloso, che diventa un legame debole, per cui è come se i due emisferi fossero separati tra loro. Si verifica una commisurotomia funzionale, provocata da comunicazioni contraddittorie.
La contraddizione può essere risolta sostanzialmente in due modi:

  1. uno dei due emisferi inibisce l’altro e assume il controllo dell’efferenza, cioè del messaggio in arrivo, eliminando così la contraddizione. Così la realtà viene in qualche modo falsificata. Ad esempio, nel caso che la metà destra soppianti la sinistra si possono verificare risposte arcaiche, metaforiche, impulsive, illogiche, psicotiche [10].
    Nel caso vinca il sinistro si avranno comportamenti inibiti, forzati, emotivamente poveri, eccessivamente cerebrali.
  2. La contraddizione non viene mascherata dalla commisurotomia funzionale, le due metà del cervello si paralizzano reciprocamente e la dissociazione si scarica nel panico o nella reazione violenta.

Abbiamo cioè due coscienze complementari che sì collaborano tra loro per raggiungere la comprensione della realtà e un suo dominio adeguato, ma, in caso di conflitto, le due parti non comunicano fra loro.

Arrivato a metà circa della trattazione Watzlawick sposta la sua attenzione al campo comunicativo e a quella particolare forma di comunicazione che è la psicoterapia.
Se la psicoterapia è l’ambito del cambiamento, bisogna intendere di quale cambiamento si tratta. Problema più di natura filosofica, forse metafisica, che psicopatologica [11]. L’idea fondamentale, riguardo al cambiamento, risiede nella concezione dell’essenza dello specifico umano, nella teoria della personalità.
Comunque può essere assunto a denominatore comune che la sofferenza è sull’immagine del mondo: fra il modo in cui le cose sono e il modo in cui, secondo l’immaginazione della persona, dovrebbero essere.
Di fronte a questa “dicotomia” di esterno-interno si prospettano due soluzioni:

  1. assimilare il mondo più o meno all’immagine che si ha di questo, con un intervento attivo [12],
  2. adattamento dell’immagine del mondo ai suoi dati immutabili.

Naturalmente questa seconda soluzione è l’obiettivo della trasformazione psicoterapeutica.

Questo tipo di approccio non è una novità all’interno della psicoterapia, la sua storicità però risiede nel periodo precedente la psicoterapia. Tracce se ne trovano, come al solito, nella filosofia greco-antica, particolarmente in Aristotele.
Aristotele divide le argomentazioni in due insiemi ben distinti:

  1. le argomentazioni di per sé evidenti, che si originano dalla natura delle cose,
  2. le argomentazioni che poggiano su opinioni universalmente riconosciute e che dunque, per la loro essenza, sono dialettiche [13].

Per la determinazione della validità di queste ultime Watzlawick cita Kopper Schmitdt: “La verità delle premesse dialettiche è legata alla loro validità, la quale va però determinata soltanto attraverso il consenso dei partners comunicanti” (Watzlawick, pag. 46) [14].
Aristotele vede la risoluzione dei problemi non oggettivabili nel “consiglio”, cioè nella ricerca della soluzione delle questioni, e in una deliberazione intorno alle cose che riguardano i “fini”, cioè come e attraverso quali mezzi potremo realizzare il fine, nel senso che il significato dell’operazione sta nelle “acquisizioni di processo”, che hanno in sé le potenzialità trasformative.
Anche il filosofo Epitteto viene scomodato a questo fine e forse sua è la definizione più chiara della capacità della mente umana di costruire la conoscenza, quasi in anticipazione secolare ai postulati del cognitivismo: “Non le cose stesse ci disturbano, bensì le opinioni che noi abbiamo delle cose” (citato da Watzlawick, pag. 47).
E, secoli dopo, Karl Jaspers fa eco ad Epitteto: “Solo il nostro sapere può essere vero o falso” (Watzlawick, pag. 48).

In sostanza, conclude lo studioso di Palo Alto, “una realtà esiste oggettivamente, «lì fuori» , indipendentemente da me e poi c’è una realtà soggettiva, che è il risultato delle mie opinioni e del mio pensiero sulla precedente realtà” (Watzlawick, pag. 47).
Esce ancora più rafforzata, dopo questi ragionamenti, la tesi che la lingua della psicoterapia è quella dell’emisfero destro, che esprime l’immagine del mondo, la chiave di essere nel mondo e del soffrire nel mondo.

Entrando a questo punto maggiormente nel merito della psicoterapia Watzlawick sostiene la inadeguatezza del procedimento che consiste nel tradurre la lingua analogica dell’emisfero destro (propria della condizione di chi ricorre alla psicoterapia) in quella digitale dell’emisfero sinistro (della spiegazione, della giustificazione, dell’analisi, dell’interpretazione, del confronto): attraverso questa traduzione viene ripetuto l’errore a causa del quale il paziente ha dovuto sottoporsi alla terapia, mentre è necessario utilizzare il linguaggio dell’emisfero destro, indirizzato agli scopi della psicoterapia.
A tale scopo Watzlawick propone tre vie maestre:

  1. uso di forme linguistiche proprie dell’emisfero destro,
  2. blocco dell’emisfero sinistro,
  3. prescrizioni comportamentali.

Sono questi i tre argomenti che fanno parte della seconda sezione del libro.

Le forme linguistiche proprie dell’emisfero destro sono quelle che appartengono al linguaggio dei sogni, dei lapsus, delle favole, dei miti, dell’ipnosi e della follia: si tratta di linguaggi straordinariamente densi e carichi di significati.
L’induzione del blocco dell’emisfero sinistro si caratterizza come un’induzione di una commisurotomia funzionale. Questo può avvenire, ad esempio, in una situazione di pericolo.
Ma appartengono a quest’ambito anche le forme linguistiche caratteristiche della pubblicità, i doppi sensi, il motto di spirito e la lingua immaginale dell’ipnosi.

Secondo Watzlawick la ricezione di queste forme linguistiche o anche la sua produzione sono una via di passaggio dal conscio all’inconscio e non soltanto il contrario, come pensava Freud [15].
Un segmento linguistico del linguaggio immaginale è la mancanza della negazione (quando si fa una fantasia guidata, non si può, ad esempio, dire che c’è un uomo, al margine di un prato che non taglia un albero). I comandi all’emisfero destro possono essere dati soltanto in positivo. Di conseguenza ogni comando, ad esempio di natura terapeutica, si imprime più efficacemente se viene espresso in termini positivi e non negativi, perché, quanto più una formulazione è negativa e genera angoscia, tanto meno è facile aderirvi: anzi, verrà dimenticata molto presto. Sotto un certo punto di vista può essere anche rafforzativo del comportamento disfunzionante perché la pattuità del “non fare” si impianta su un atteggiamento di natura compensativa che è sì patologico, ma è l’unico che viene concepito come possibile. Tale comportamento può essere abbandonato soltanto se viene trovata un alternativa e non per proibizione [16].

La “pars pro toto” è un altro esempio del linguaggio dell’emisfero destro. Ad esempio, è quasi impossibile rappresentare un volto senza occhi (a meno che, ad esempio, non sia intenzione di un pittore di dare un significato di “assenza” all’immagine), mentre gli occhi possono avere una valore autonomo per il tutto “viso”.
L’aforisma poi può avere particolare efficacia per colpire la parte immaginale del nostro cervello. L’aforisma è una sentenza in prosa concisa, spesso formalmente efficace, in sé conclusa.
Il chiasma è un artificio retorico molto usato per la pubblicità. Tale fenomeno linguistico consiste nell’incrociare, mettendo in sequenza due diverse frasi, ognuna delle quali contiene due parole uguali, ma collocate in modo diverso nella sequenza linguistica. Mi permetto di citare un esempio tratto da un manifesto di propaganda politica che ho visto affisso in questi giorni: “Non un nuovo partito, ma un partito nuovo”. L’incrocio “nuovo partito”-“partito nuovo” è promotore di un diverso significato, ottenuto però con la diversificazione della prima parte, per cui l’acquisizione di significato è diversa. È anche un fenomeno linguistico particolarmente economico e sintetico.
Altra forma linguistica che si situa nel campo è l’eufemismo, cioè la sostituzione di una parola cruda con una più leggera, che però ha l’effetto di rafforzare il concetto. Il paradosso è un altro modo per uscire dalla via razionale e prenderne una che evade da una relazione puramente comunicativa; ad esempio, se ogni divieto è proibito, anche il divieto di vietare ogni cosa è proibito, oppure l’ingiunzione “sii spontaneo” è paradossale e non raggiunge certamente l’effetto sperato. Così come è un eufemismo dire “è stato suicidato”.

Oltre l’uso di un linguaggio proprio dell’emisfero destro, l’induzione del blocco dell’emisfero sinistro crea condizioni per una comunicazione terapeutica più efficiente e, comunque, ne è un elemento basilare. Il blocco dell’emisfero sinistro ottiene effetti simili a quelli di un commisurotomia funzionale. Questo può avvenire, ad esempio, in situazioni di pericolo [17].

L’altro passaggio della inibizione dell’emisfero sinistro è la tecnica della confusione, cioè la proposizione di diversi argomenti che si sovrappongono e si contraddicono, di modo che l’emisfero sinistro non può selezionare o mettere in ordine gerarchicamente [18].
L’interruzione di un pensiero a metà è un altro aspetto della inibizione del sinistro [19].
In sostanza un sovraccarico dell’emisfero sinistro consente una comunicazione diretta col destro.

La prescrizione comportamentale (o prescrizione di sintomi) è un’altra caratteristica per “mettere fuori gioco” temporaneamente l’emisfero sinistro.
La prescrizione del sintomo blocca le soluzioni tentate (frutto dell’emisfero sinistro), che sono anche generatrici del problema e, con questo blocco, si può eliminare anche la conseguenza del sintomo (esempio della moglie gelosa che teme l’abbandono del marito a cui il marito risponde “naturalmente non ti amo e naturalmente me ne andrò”).
I sintomi possono poi essere spostati nel tempo e nello spazio (“si lavi le mani dalle 17 alle 19, oppure quando si trova all’aperto”).

Altro sistema è l’illusione dell’alternativa. L’illusione dell’alternativa si crea nel momento in cui vi sono apparentemente due possibilità di scelta che però non sono alternative reali ma, malgrado la loro apparente autenticità, rappresentano soltanto un polo di una coppia di opposti più generale. L’illusione dell’alternativa blocca la funzione critico-analitica dell’emisfero sinistro.
C’è da dire, ma Watzlawick lo dice da sé, che il successo di ogni alternativa terapeutica viene posto in questione quando l’interessato o non entra affatto nell’ambito del terapeuta o lo abbandona [20].

Seguono, a questo punto della trattazione di Watzlawick, due brevi capitoli riguardanti le ristrutturazioni e le prescrizioni comportamentali.

La ristrutturazione di un comportamento può essere, ad esempio, ottenuta assecondando le scelte dell’individuo, ma segnandole con una particolarità: ad esempio dire a una persona “la domenica puoi fare quello che vuoi, eccetto alzarti presto”, può produrre proprio invece quest’ultimo comportamento (se posso fare quello che voglio, posso anche alzarmi presto).

L’utilizzazione del linguaggio del paziente può poi essere un modo efficace per rompere il senso di isolamento ed esclusione che quest’ultimo può sentire, così come invertire il senso dei rituali. [21].

L’opera di Watzlawick termina con una notazione realistica che, per la terapia, non occorre soltanto questo, cioè la materia esposta nel libro.


NOTE
[1] L’ottica di Watzlawick assomiglia molto al punto di vista di Jung quando critica la metodica delle libere associazioni di Freud. Jung afferma che i simboli dei sogni vanno analizzati di per sé e non tradotti in altro, come appunto le immagini associate dalla coscienza alla magmaticità della materia onirica (vedi C.G. JUNG. L’uomo e i suoi simboli).[2] A questo proposito vedi l’esempio della liberazione dalle verruche infantili “comprandole”. Watzlawick. Il linguaggio del cambiamento. Feltrinelli, 1980, pag. 11.[3] Sarebbe forse uno spunto di riflessione paragonare lo stallo di un linguaggio ingabbiante e patogeno con la freudiana coazione a ripetere.

[4] Si può pensare quindi a quanto possa essere terapeutica una modalità teatrale che permetta di mettere in scena le parti della propria psiche rimosse, attraverso il linguaggio della traduzione in azione e della sua rappresentazione proiettiva (in questo caso sulla scena). Rimane aperta tutta la questione di come opera questa materia messa in scena, se in sé e per sé, trovando da se stessa una via per un nuovo apprendimento, oppure sono necessari passaggi attraverso la coscienza (con la mediazione del linguaggio verbale) che fissano, anche se nella convenzionalità di quest’ultimo linguaggio, gli scenari emersi con linguaggio dell’emisfero destro.

[5] In termini psicoanalitici, per “abreazione” si intende una liberazione, una presa di coscienza, nel corso della terapia, di un effetto rimosso, legato al ricordo di un’esperienza traumatica.

[6] A questo proposito penso che si apra una problematica complessa sulla definizione di responsabilità ed eticità. Sono concetti molto importanti, ma possono rimanere autoreferenziati e quindi vuoti di validità, se rimangono nel campo astratto dei principi.

[7] Watzlawick, op. cit. pag. 19.

[8] Per condensazione, in ambito psicoanalitico, si intende una rappresentazione mentale (ad esempio una immagine ricorrente in un sogno) che da sola è come l’incrocio di varie catene associative, il loro punto di intersezione. Non è un’immagine riassunto o sintesi, ma una sorta di passaggio che, in tutta analogicità, si trova punteggiato, ad esempio, all’interno di uno stesso sogno.

[9] C.G. JUNG Tipi psicologici. Ed. Boringhieri. 1969. Appendice a tipi psicologici, pag. 512 e seguenti.

[10] Non so se in questo contesto possono essere comprese le reazioni comportamentali alla paura profonda e le immagini simboliche che accompagnano questo sentire, sia a livello individuale che collettivo.

[11] Un esempio di questo carattere filosofico (o metafisico) del cambiamento (e quindi della valutazione dello stato che “dovrebbe” cambiare) lo possiamo rinvenire nel campo dei disturbi alimentari. Nel Medio Evo l’anoressia veniva intesa come una via per arrivare alla santità, perché il rifiuto di cibo era un mezzo di ascesi a Dio. Non c’era quindi nessuna necessità di cambiamento.

[12] È un’operazione che ha i suoi limiti (quando si può far coincidere completamente il mondo all’immagine che ne abbiamo?), ma che comunque può essere compensativa per spiriti attivi (il tipo psicologico che Jung definisce estroverso).

[13] Penso che Watzlavick usi la parola “dialettica” per indicare che le realtà di opinione, proprio perché tali, sono soggette a contrapposizione, critica, cambiamento, cioè a possibili passaggi che non appartengono così facilmente a quelle realtà che Aristotele definisce “evidenti di per sé”, probabilmente perché appartenenti al mondo immutabile della natura.

[14] Caso tipico di questa possibilità di verità, in ambito scientifico, è quello della fusione fredda dell’atomo. Pubblicizzata sui media, non ha trovato nessuna condivisione nell’ambito della comunità scientifica, è mancato cioè “il consenso dei partners comunicanti”, e quindi la verità non è valida. Altro discorso sarebbe quello di come le verità molto anticipatrici rispetto ai tempi possano diventare valide in un ambiente che è loro ostile, ma entreremmo in un altro campo.

[15] Penso a quanta possibilità di passaggio dal conscio all’inconscio possa avere il linguaggio teatrale o quello cinematografico. Lo spettatore assiste allo snodarsi di un linguaggio, sulla scena o sullo schermo, che è proprio dell’emisfero destro e che quindi è fonte di evocazioni, di ricordi, di vissuti. Così può capitare dell’attore teatrale, mentre produce e prova su di sé quel linguaggio. Dato il modo di recitazione e di ripresa dell’immagine filmica (praticamente un film si gira a pezzi, difficilmente le sequenze, nel momento in cui vengono girate, seguono l’ordine temporale della vicenda filmica). In pratica nessuno “conosce” il film se non quando il montaggio è terminato.

[16] La proibizione di un comportamento (o meglio la sua inibizione) può funzionare nel breve periodo come premessa per un lavoro psicologico successivo. Ad esempio, nel campo della tossicodipendenza, in genere in terapia si fa il patto che la persona non si droghi, altrimenti la relazione viene falsata. Ma il reale cambiamento non è dato certamente da questa inibizione, ma da un percorso tutto orientato, nel linguaggio di Watzlawick, a parlare all’emisfero destro della persona.

[17] È nota la condizione dell’uomo qualunque che, in circostanze eccezionali, diventa un eroe. Seguendo la teoria di Watzlawick si può dire che la situazione di pericolo abbia abbassato tutte le difese (proprie della razionalità dell’emisfero sinistro) lasciando libera la “fulmineità” dell’emisfero destro.

[18] La tecnica della confusione è tipica di un particolare tipo di gag comica e di clown. Un personaggio confonde l’altro con discorsi sconnessi e contraddittori, a cui il primo, alla fine risponde, in maniera paradossale.

[19] Questa è una manovra adottata nella terapia comportamentale: consiste nell’interrompere all’improvviso una persona che parla con ruminazioni (ad esempio una persona con caratteristiche fobiche). Praticamente la si pratica pronunciando all’improvviso e a voce alta la parola “stop” o battendo le mani.

[20] Per mia esperienza questi sono i casi in cui questa terapia (o meglio questi segmenti di terapia) non sono per niente efficaci.

[21] Da un punto di vista teatrale è molto significativo il caso del paziente che produceva “un’insalata di parole” e del tentativo del terapeuta di entrare nel suo mondo attraverso la sua chiave linguistica. È un episodio particolarmente adatto a mostrare come la comunicazione più efficace e più profonda avvenga, appunto, attraverso l’emisfero destro.

Giovanni Lancellotti
Psicologo psicoterapeuta SCRIPT Centro Psicologia Umanistica

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