* Owen Renik è analista didatta e supervisore presso il San Francisco Psychoanalytic Institute, Clinical Professor presso il Dipartimento di Psichiatria dell’Università del California Medical Center, docente presso il Karen Horney Institute di New York e presso l’Institute of Contemporary Analysis di Chicago.
**Relazione presentata da O. Renik a Roma il 20 novembre 2004, nell’ambito di una giornata di studio organizzata dalla SIPRe (Società Italiana di Psicoanalisi Relazionale).
Traduzione di Maria Luisa Tricoli
Desiderio e potere sono strettamente collegati e, considerati nella loro relazione reciproca, hanno una grande influenza sul nostro modo di concettualizzare la tecnica analitica.
La letteratura esistente sulla negoziazione ci dice che il potere all’interno di una relazione a due consiste nella possibilità che uno dei due ha di indurre l’altro a fare qualcosa che di solito non farebbe. Definito in questi termini, il potere è un aspetto evidentemente importante nella relazione analitica, poiché uno dei compiti dell’analista è indurre il paziente a fare ciò che di solito non farebbe. Al paziente viene chiesto di allontanarsi dalle sue consuetudini per poter partecipare all’investigazione analitica; deve abbandonare la sua abituale tendenza a selezionare e censurare le informazioni da fornire a favore della libera associazione; e deve farlo per ottenere esiti terapeutici positivi. In ultima analisi, l’insight deve essere tradotto in nuove soluzioni adattive, anche a dispetto del sentimento di pericolo che si accompagna a questo passaggio. Pensare a noi stessi come a persone che inducono i pazienti a fare ciò che solitamente essi non farebbero potrebbe non piacerci, perché questo modo di descrivere l’azione dell’analista evoca significati di manipolazione e di suggestione che vorremmo evitare. Ma il successo del trattamento dipende certamente dal fatto che l’analista ha qualche potere sul paziente. Come dovremmo intendere, quindi, il potere dell’analista?
Oltre alla definizione data dagli esperti nel campo della negoziazione, c’è una definizione del potere di Winston Churchill che mi è sempre piaciuta: egli considerava il potere come una serie di atteggiamenti e di aspettative. Questa prospettiva punta l’attenzione sulle modalità attraverso cui una persona induce un’altra a cambiare strada e qui possiamo osservare la relazione tra potere e desiderio, perdché, fondamentalmente, proprio creando nell’altro l’attesa del soddisfacimento di un desiderio, possiamo esercitare un potere su di lui. Questo si verifica anche nelle situazioni in cui una persona acquista potere su un altro intimorendolo, perché è la speranza di evitare il dolore a far sì che quest’ultimo faccia ciò che altrimenti non farebbe.
Come viene espressa la relazione tra desiderio e potere in psicoanalisi? Si sente dire spesso che il paziente viene in seduta con il desiderio di essere curato, mentre l’analista ci va col desiderio di fornire una cura. Di solito si assume anche che il desiderio del paziente sia più cogente di quello dell’analista, il che crea un consistente sbilanciamento del potere dalla parte dell’analista. Inoltre, la maggior parte delle teorie della tecnica ritengono che un elevato gradiente di potere sia uno degli strumenti principali dell’analista, uno strumento che ovviamente può venire utilizzato in modo improprio, ma che è una conditio sine qua non per un trattamento efficace. Freud espresse questo concetto nei termini di un necessario “transfert positivo irreprensibile” sull’analista; Kohut parlò della necessità per l’analista di diventare un “oggetto-Sé idealizzato”; Hoffman (un analista relazionale) sostiene che l’analista, come uno sciamano, ha bisogno di rituali magici per poter neutralizzare efficacemente gli introietti patogeni del paziente; Polly Young-Eisendrath (junghiana) parla di un “transfert trascendente contenitivo” come fattore fondamentale per una relazione di cura efficace e così via. L’idea che uno squilibrio del desiderio all’interno della coppia analitica determini nell’analista un potere, di cui ha bisogno per poter svolgere il suo lavoro, è presente ovunque nel nostro campo e anche nei diversi orientamenti teorici.
Potremmo tuttavia interrogarci sull’assunto di un intrinseco squilibrio del desiderio nella coppia analitica. L’analista non porta forse anche lui nell’incontro clinico, dei desideri intensi proprio come il paziente? Tanto per cominciare, c’è il bisogno dell’analista di guadagnarsi da vivere; non solo di guadagnare il suo pane quotidiano, ma anche di rendere stabile e mantenere una posizione nella comunità: status, senso di validità e di dignità sociale, ecc. Conosciamo bene il sostanziale valore narcisistico di queste cose e anche la loro fragilità! Quando molti appuntamenti rimangono liberi e gli invii sono pochi, l’analista diventa ben consapevole dell’intensità dei suoi desideri, che un nuovo paziente, venuto per un primo colloquio, ha il potere di soddisfare o di non soddisfare.
Oltre ai desideri pratici e materiali dell’analista, c’è la questione cruciale delle motivazioni che stanno alla base della sua scelta professionale. La maggior parte di noi, credo, si è trovata a lavorare nel campo psicoanalitico, almeno in parte, con l’intento di auto-curarsi. Quante volte, nel desiderio dell’analista di dare sollievo alla sofferenza del paziente c’è il desiderio, legato al suo passato, di aiutare una persona amata che soffriva? Quante volte l’analista desidera alleviare le sofferenze del paziente proprio come nella sua infanzia desiderava aiutare qualcuno di cui aveva bisogno? Quante volte l’analista vuole aiutare il paziente nello stesso modo in cui, in passato, avrebbe voluto poter essere aiutato lui? So che queste motivazioni esistono dentro di me e sospetto che esistano anche nella maggior parte di voi.
Searles notò che spesso i nostri pazienti credono, anche se ci può volere molto tempo perché se ne rendano conto e ancora di più perché ce ne parlino, di dover essere loro a curare noi per poter essere aiutati. E hanno ragione! Infatti, alla base della partecipazione dell’analista al trattamento ci sono dei desideri potenti, costantemente attivi. Dopo tutto, l’empatia dell’analista si fonda sui desideri dell’analista, non quelli antichi, che sono stati dominati e messi da parte, ma sui desideri attuali, reali. Se guardiamo al di sotto della superficie, nell’incontro clinico le distinzioni tra desiderio dell’analista e desiderio del paziente si attenuano enormemente.
Per quanto riguarda il desiderio, quindi, analista e paziente si incontrano su un terreno che è potenzialmente più allo stesso livello di quanto venga descritto di solito. Sia l’analista, sia il paziente portano desideri intensi nell’incontro analitico, desideri che per certi aspetti sono diversi, anche se forse più ad un esame superficiale che altro, ma non necessariamente diseguali. Se lo squilibrio del desiderio all’interno della coppia analitica non è un a priori inevitabile, allora neanche il gradiente di potere a favore dell’analista nella cura lo può essere. Piuttosto, il gradiente personale di potere è qualcosa che analista e paziente scelgono di creare; e, se vogliono, possono fare una scelta diversa.
Potremmo pensare che desiderio e potere, come tanti altri aspetti dell’incontro clinico, siano co-prodotti dall’analista e dal paziente. In altre parole, se un paziente si sente più desiderante e meno potente del suo analista, è perché l’atteggiamento e le aspettative del paziente, per usare la felice frase di Churchill, sono stati organizzati in un certo modo. E come succede? Certamente, nel trattamento il paziente porta degli atteggiamenti e delle aspettative; ma, certamente, lo fa anche l’analista.
A questo proposito, dobbiamo prendere in considerazione l’influenza delle profezie auto-avverantisi legate alla teoria di riferimento dell’analista. Se l’analista pensa che il desiderio del paziente di essere curato è più importante del proprio desiderio di fornire una cura, questa aspettativa verrà trasmessa al paziente. Il paziente potrebbe desiderare di essere curato da un analista idealizzato e l’analista potrebbe, per svariate ragioni, desiderare di essere idealizzato. Quindi, ciò che può apparire come squilibrio del desiderio all’interno della coppia analitica è in realtà l’interazione di desideri ugualmente intensi dei due membri della coppia, ma è un’interazione non evidente, soprattutto perché alcuni dei desideri dell’analista sono tenuti nascosti. Alcuni principi teorici diffusi e consolidati aiutano a istituzionalizzare questo occultamento. I concetti tecnici dell’anonimato e della neutralità analitica, per esempio, presuppongono che l’analista possa e debba raggiungere una posizione tale da far si che i suoi desideri personali incidano meno di quelli del paziente sull’incontro analitico; pertanto, l’uso dei concetti dell’anonimato e della neutralità analitica incoraggia sia l’analista sia il paziente a pensare che la loro interazione si sviluppi su uno squilibrio intrinseco del desiderio e che la loro relazione avvenga con un gradiente di potere più elevato a favore dell’analista.
Altri principi teorici, tuttavia, contrastano l’assunto di uno squilibrio del desiderio e di un inevitabile sbilanciamento del potere nell’incontro analitico. Lacan, per esempio, era particolarmente consapevole dell’importanza del desiderio dell’analista e della percezione che ne ha il paziente. Gli analisti lacaniani contemporanei tendono a occuparsi molto dell’interazione bilaterale del desiderio nella coppia analitica. La tecnica lacaniana (nella sua espressione migliore) ha l’obiettivo di smontare le illusioni relative al desiderio proprio e dell’altro in entrambi i partecipanti e punta a evitare di istituzionalizzare l’analista come soggetto supposto sapere. Inoltre, negli Stati Uniti, molti analisti che lavorano con un orientamento interpersonale e relazionale ritengono che la manifestazione del desiderio dell’analista (disclosure) sia una tecnica accettabile. Ho letto per esempio in questa chiave la proposta di Kenneth Frank che “l’analista dovrebbe voler essere conosciuto dal paziente”, o l’idea di Darlene Ehrenberg di una “tensione intima” all’interno della quale si svolge l’analisi clinica.
Fu un’esperienza clinica fatta diversi anni fa a portarmi per la prima volta a riconsiderare la natura del mio potere come analista e il ruolo del mio desiderio nel mio lavoro clinico. Ho sempre avvertito un forte zelo terapeutico, che in gran parte deriva dalla mia infanzia, un periodo della mia vita in cui non riuscii a impedire e provai sulla mia pelle le pesanti conseguenze delle difficoltà emotive di mia madre. Scelsi di studiare psichiatria e mi sottoposi dopo a un training psicoanalitico allo scopo di poter diventare un terapeuta il più possibile efficace. Durante i miei studi mi vennero insegnati i principi della tecnica che poi ho applicato nel mio lavoro, pur ritenendo allo stesso tempo di essere un clinico collaborativo e flessibile.
Ciò di cui non mi rendevo conto era che il mio atteggiamento flessibile e collaborativo si circoscriveva entro limiti bene definiti. Col mio training, mi ero fatto un’idea del procedimento analitico appropriato: il paziente si sforza di riferire i suoi pensieri senza censure, le sedute devono avere la più alta frequenza possibile, deve essere mantenuto un setting analitico stabile, ecc.. Pensavo che rientrasse nel pieno interesse del paziente chiedergli di sforzarsi di partecipare al trattamento cosi come lo intendevo io. Poiché i miei pazienti venivano da me per essere aiutati e visto che io desideravo sinceramente fornire loro un aiuto, non vivevo alcun conflitto nel chiedere loro di conformarsi il più possibile al procedimento analitico. Quando avevo a che fare con pazienti che incontravano una persistente difficoltà a farlo, ero portato a considerarli potenzialmente non analizzabili, almeno da me. Questo era ciò che avevo capito del potere corretto dell’analista nella relazione terapeutica e questo era quanto mettevo in pratica. L’esperienza clinica che riporto qui di seguito mi ha fatto cambiare ottica.
Una donna di circa trent’anni venne da me lamentando di sentirsi come se stesse cadendo in fondo a un pozzo e non potesse farci niente. Questo era tutto ciò che riusciva a dire del suo malessere. Provai a farle elaborare un po’ la cosa, spiegandole perché sarebbe stato utile per lei dire qualsiasi cosa le venisse in mente su questa sua esperienza, ma senza ottenere nessun risultato. “Mi sento solo come se stessi cadendo in fondo a un pozzo e non potessi farci niente” ripeteva lei. Benché capisse chiaramente che cosa intendessi quando le parlavo del suo uso della metafora, le sue affermazioni restavano su un piano molto concreto.
In effetti, non riuscii in nessun modo ad aiutarla a dire spontaneamente qualcosa di più. Per lo più, si limitava a rispondere alle mie domande e, di solito, lo faceva dopo una lunga pausa. A volte il suo silenzio si protraeva tanto da farmi immaginare che non volesse rispondere o che si fosse distratta; ma alla fine parlava e ciò che diceva era sempre pertinente alle domande che le avevo posto. Era evidente che le occorreva tempo per valutare e scegliere con attenzione le parole. Furono vani tutti i miei sforzi di esplorare con lei le ragioni di questa che era, con ogni evidenza, una forma di estrema prudenza. Esile e pallida, stava immobile sulla sedia, con i lineamenti del volto tesi in un’espressione seria. Non vi era dubbio che soffrisse e che desiderasse un aiuto. Prendeva molto sul serio il dialogo tra noi, ma era decisa a parteciparvi nel suo modo. Era paranoide? Certamente poteva sembrarlo. Presentava dei disordini del pensiero? Non nel senso di qualche difficoltà a livello del pensiero astratto o della concentrazione, ma semmai a livello di pensiero allucinatorio. Mi sembrava brillante e attraente. Qualcosa nella sua intelligenza così acuta e nella sua tenace vigilanza mi dava la sensazione che, se avessi trovato un modo per negoziare un’alleanza con lei, avrei potuto aiutarla a trarre qualche beneficio dalla comprensione della sua sofferenza.
Provavo un forte desiderio di aiutare questa giovane donna ed era evidente che anche lei provava un desiderio altrettanto intenso di essere aiutata. Per quanto riguarda il gradiente di potere nella nostra relazione, al momento sembravamo ugualmente determinati e ugualmente privi di risorse. Non avendo idea di come far sì che la mia paziente potesse partecipare alla psicoterapia nel modo in cui io la intendevo, cercai di sapere qualcosa di più su di lei.
Per diverse sedute la interrogai sul suo problema, su che cosa potesse averlo originato e cercai di farmi un’idea della sua storia. La mia paziente poneva dei limiti molto netti a quanto desiderava rivelare di sé; imparai presto che, quando lei decideva di non approfondire un dato argomento, era inutile cercare di esplorare le ragioni della sua reticenza. Io mi mantenevo fedele alla mia concezione del metodo analitico e la mia paziente si manteneva fedele alla sua intenzione di resistere (questo era il modo in cui, fino a quel momento della mia carriera, interpretavo la sua non volontà di procedere nel modo che ritenevo migliore). Ho detto che eravamo ugualmente impotenti. Forse sarebbe altrettanto appropriato affermare che eravamo ugualmente potenti. In ogni caso, eravamo entrambi senza dubbio motivati da desideri molto intensi. Ed è importante notare che non stavamo parlando dei nostri desideri. La mia paziente non stava parlando dei suoi desideri perché per lei era importante – per ragioni a me sconosciute – mantenerli riservati. Io non stavo parlando dei miei desideri perché la mia concezione della tecnica analitica mi istruiva a non farlo. Lavorando in queste condizioni, dalla mia indagine ho ricavato il quadro seguente.
Prima di cinque fratelli, questa giovane donna era cresciuta in condizioni economicamente agiate sulla East Coast. Il padre era un imprenditore di successo e la madre aveva un’intensa vita sociale. I genitori erano completamente presi dai loro interessi. La paziente non si era mai sentita vicina a nessuno dei due, né ai fratelli, né alle sorelle minori. Quando si diplomò, all’età di diciassette anni, andò a vivere da sola e da allora non ebbe più alcun contatto con la sua famiglia. Della sua infanzia non avrebbe mai più detto altro.
Imparò da sola a dattilografare e, dopo aver lasciato la casa dei suoi, si mantenne per lo più con impieghi in ufficio. Era una segretaria molto efficiente e non aveva alcuna difficoltà a trovare lavoro. Si trasferì molte volte – a un certo punto decise di trascorrere un anno in Alaska perché voleva vedere come si sentiva a vivere in un luogo meno urbanizzato – per stabilirsi alla fine nella Bay Area, dove decise di iscriversi al college. Si distinse negli studi classici e si laureò con lode. Frequentò quindi una prestigiosa scuola di specializzazione in giurisprudenza, da cui usci seconda della sua classe. Scelse legge perché le piaceva risolvere i problemi di logica. Pensava di diventare procuratore perché sentiva importante difendere i diritti delle persone, un sentimento ovviamente significativo, del quale non sorprenderà sapere che non ha detto nient’altro.
Avevo la sensazione che, con i suoi viaggi, fosse rimasta socialmente piuttosto isolata, trascorrendo molto tempo in impegni solitari. Ebbi qualche sentore di poche selezionatissime e spesso strane relazioni con altre persone. Una di queste era con un brillante, eccentrico, giovane studente-di-filosofia-diventato-meccanico-d’auto, col quale andò a vivere e che alla fine sposò, durante il primo anno della specializzazione in legge. I due condividevano varie passioni intellettuali, tra cui l’archeologia. Passavano le vacanze visitando le rovine degli Indios negli Stati Uniti, in America Centrale e in America Latina.
Litigavano molto. Il marito non amava che lei parlasse della sua scuola di specializzazione in legge. Inoltre, insisteva per portare i suoi amanti, uomini e donne, in casa loro. Il risentimento per l’infedeltà di lui la portò a ritirarsi completamente dalla loro vita sessuale, che in passato era stata attiva nonostante lei dichiarasse che non le era mai piaciuta. All’epoca in cui venne da me la prima volta, i due coniugi avevano raggiunto l’accordo che il marito si sarebbe fatto i suoi affari fuori casa e che non gliene avrebbe mai parlato. Lei era rimasta sessualmente inattiva e rifiutava fermamente i tentativi di avvicinamento del marito, che col tempo erano diventati sempre più rari.
Mi sembrava che il suo matrimonio, cosi inconsueto e per molti aspetti poco soddisfacente, fosse molto importante per lei. Anche quando esprimeva amare critiche nei confronti del marito, non accennava mai all’idea di lasciarlo. A una mia domanda a questo proposito, lei osservò: “Siamo sposati”. Ne dedussi che la relazione era per lei un’ancora indispensabile.
Fu con il conseguimento della specializzazione in legge, sei mesi prima del nostro incontro, che cominciò la sensazione di cadere in fondo a un pozzo. Venni a sapere che, nonostante il suo grande successo universitario e i suoi successi come segretaria, si era scoperta completamente incapace di cercare un impiego nel campo legale. Dopo la specializzazione, non aveva fatto nemmeno una telefonata per fissare un colloquio. Di recente, per mille ragioni, aveva cominciato a uscire sempre meno di casa. Lasciare il suo appartamento era progressivamente diventata una cosa che la terrorizzava.
La mia paziente stava con ogni evidenza coltivando una forma acuta e fulminante di agorafobia. Il suo esordio suggeriva che, al di là di tutto, viveva un fortissimo conflitto rispetto all’esercizio della professione di avvocato. Benché sapessi davvero molto poco di questa giovane donna, ero colpito da quanta importanza sembrava assegnare ai suoi pochi, irrevocabili impegni, come la sua carriera di avvocato, per la quale aveva lavorato a lungo e con enormi sforzi, o come il suo matrimonio. Prendendo spunto dal suo fugace accenno al fatto che il marito non amava che lei parlasse della specializzazione in legge e poiché lei lo ritraeva come molto narcisista, competitivo e controllante, mi chiedevo se lei non stesse lottando contro il timore di essere costretta a rinunciare a suo marito o alla sua professione, eventualità che in entrambi i casi avrebbe costituito per lei una perdita insopportabile. Alla fine della seduta le dissi qualcosa su questo possibile dilemma, collegandolo alla sua sensazione di cadere in fondo a un pozzo e di non poterci fare nulla.
La volta successiva, la mia paziente disse di aver fatto delle telefonate e di aver cominciato a fissare dei colloqui di lavoro. Era anche uscita a comprarsi dei vestiti. Riferì molto semplicemente questa straordinaria diminuzione dei sintomi, senza nessuna significativa sfumatura affettiva. “Sono felice di questo” affermò diretta e con tono piatto quando esplorai la sua palese mancanza di sentimenti riguardo a questo suo cambiamento. Non aveva collegato questa variazione nei sintomi con ciò che le avevo detto la volta precedente, riguardo a un possibile conflitto con suo marito. Quando le chiesi se pensava che potesse esserci una relazione tra le due cose, la sua risposta fu semplicemente: “Immagino di sì”.
Andandosene, fui sorpreso da lei perché si fermò sulla porta, si voltò e disse – sempre col suo tono serio – “Che ne dice di abbracciarmi?”. Preso un po’ alla sprovvista, risposi: “Non penso che questo sia davvero il modo migliore per aiutarla. Ne riparliamo la prossima volta”. Il mio tono era amichevole, se non anche dolcemente rassicurante, perché ero preoccupato che potesse sentirsi ferita da un mio rifiuto che in quel momento non avevamo la possibilità di discutere.
Questo successe un venerdì. Il lunedì (noi ci vedevamo cinque volte a settimana) lei venne, si sedette e chiese adirata: “Perché mi ha sgridata?”. Spiegò che si riferiva allo scambio di battute sulla porta. Tentai di invitarla ad esplorare le sue idee sul motivo per cui l’avrei sgridata, ma naturalmente la sua posizione fu: “Non ne ho la più vaga idea, ecco perché voglio che me lo dica Lei.” Tentai di spiegare che, dal mio punto di vista, io non l’avevo sgridata. Tentai di ipotizzare elementi di ansia, di desiderio ecc. da parte sua che avrebbero potuto indurla a vivere quello scambio come se l’avessi sgridata. Tentai molte cose, ma nessuna di queste servì a produrre qualche effetto.
Dopo questi eventi, lei parlò ancora meno durante i nostri incontri, passando molto tempo in un silenzio stizzito. Niente che potessi fare sembrava intaccare la situazione. “Dire tutto quello che mi passa per la mente? Perché mai dovrei volerlo fare?” chiese ironicamente. Contemporaneamente, mi comunicò che la sua ricerca di lavoro stava andando avanti. Qualunque cosa stesse succedendo tra noi, sembrava avere un effetto benefico sul resto della sua vita, cosi decisi di rimanere in attesa.
Settimana dopo settimana, nonostante lei continuasse a fare progressi sul fronte della carriera, le cose sembravano peggiorare sempre più durante le sedute, “lo sono un gruppo di particelle che sta per disperdersi. Ho bisogno di stare dentro di Lei. Ma Lei non vuole che io stia dentro di_Lei._Ha_paura che io la divori”. Questi pensieri vennero fuori un po’ alla volta. Nemmeno a dirlo, l’idea di fare ulteriori indagini su questi pensieri era fuori discussione. La sua rabbia aumentava. Ogni volta che apriva la borsa, quasi mi aspettavo che tirasse fuori una 375 magnum o, perlomeno, un registratore.
La mia preoccupazione aumentava sempre più. Pensavo che potesse succedere realmente qualcosa di drammatico. Benché ci fossero stati dei giovamenti, sembrava che il vissuto-negativo nei miei confronti stesse crescendo e non sapevo a che cosa attribuirlo. Tentai di parlare con lei di quello che mi sembrava stesse succedendo. Lei perdeva sempre più la speranza di poter avere da me qualcosa che io non sapevo darle e si arrabbiava sempre più con me perché non gliela davo. Poiché era evidente che per lei era impossibile concepire l’idea di rinunciare a questo suo doloroso attaccamento a me, mi domandai se la cosa migliore per lei non potesse essere che prendessi io la decisione di congedarla. Allo stesso tempo, temevo che, se avessi agito in questo modo, lei avrebbe potuto sentirsi un mostro divorante e rifiutato e restarne profondamente devastata.
Il trattamento aveva raggiunto ciò che era, per me, una singolare impasse. In genere, se dopo sforzi protratti, compresa l’autoanalisi, le supervisioni ed altro, non riuscivo a trovare un modo per aiutare un paziente a partecipare almeno al tentativo di lavorare in analisi così come io ritenevo che si dovesse fare, trovavo un modo rispettoso e diplomatico di concludere il trattamento, magari inviando il paziente a qualcun altro. Tuttavia, in questo caso, nonostante non riuscissi a trovare nessun modo per far sì che la mia paziente collaborasse nel modo in cui intendevo io, non sentivo di avere il potere di chiudere il trattamento. Il mio desiderio di aiutarla e il mio desiderio di non recarle danno erano entrambi troppo forti. Mi vidi messo all’angolo; non mi era mai successo prima e non avevo idea di che cosa fare. Fu per questa ragione che alla fine feci qualcosa di assolutamente nuovo per me, qualcosa che contraddiceva i principi di tecnica analitica che mi erano stati insegnati. Senza avere in mente un obiettivo preciso, comunicai semplicemente alla paziente come mi sentivo. Le comunicai tutti i desideri di cui ero consapevole e, di fatto, ammisi il suo potere su di me.
Un giorno le dissi: “Vede, come abbiamo già detto, io davvero non so come aiutarla. Le ho spiegato come lavoro di solito con le persone e che questo modo in genere si è rivelato utile, ma per Lei questo non ha senso. So che cosa Lei dice di volere da me, ma io davvero non lo capisco e non sono riuscito a renderlo possibile. Sono preoccupato perché, continuando a vederci, le sto impedendo di trovare un trattamento che potrebbe giovarle; mi preoccupo addirittura di poterla far stare peggio. Da una parte, sembra che Lei proceda meglio nella sua ricerca di un lavoro, rispetto a prima di cominciare il nostro lavoro; e se i nostri incontri le sono utili, anche se in un modo che io non capisco, sono felice di continuare. D’altra parte però la nostra relazione le sta causando una sofferenza tremenda, che mi sembra stia peggiorando. A volte penso che per Lei potrebbe essere meglio concludere, ma che Lei non ce la faccia a farlo da sola, così forse dovrei essere io a chiudere. E’ un bel dilemma e non so come procedere.” Riguardo a tutto questo, come era prevedibile, lei non disse nulla.
Venne comunque alla seduta successiva, portando un bei numero di quaderni a spirale. “Ho pensato che questi potrebbero aiutarla a prendere la sua decisione”, annunciò mentre me li porgeva. Preso alla sprovvista da questo gesto del tutto inaspettato, li presi e diedi un’occhiata. Ogni riga di ogni pagina di ogni quaderno era compilata con la sua calligrafia minuta e ordinata. I quaderni contenevano la registrazione completa di tutti i nostri incontri, non soltanto di tutto quello che lei aveva detto e che io avevo detto, ricostruito dopo ogni seduta, ma anche di tutti i pensieri che le erano passati per la mente durante i suoi silenzi. La ringraziai a lungo per avermi portato i quaderni e riconobbi quanto importante e significativa era stata la sua decisione di mostrarmeli. Le dissi che desideravo leggerli tutti, ma che mi ci sarebbe voluto un po’ di tempo.
Durante le sedute successive, mi chiese spesso se avessi finito di leggere i suoi quaderni e io le rispondevo che ci stavo lavorando. Mano a mano che mi orientavo in questi quaderni, scoprivo che non c’erano delle reali sorprese in ciò che leggevo. Scoprii che i pensieri che avevano riempito i suoi silenzi erano in sostanza degli ampliamenti di quello che mi diceva: le stesse lamentele, ansie, perplessità e risentimenti. Alla fine venni a capo della lettura. Nel restituirle i quaderni le dissi: “Sono molto contento che Lei me li abbia dati. In un certo senso non ho trovato niente di nuovo. I pensieri che Lei non mi comunicava durante i nostri incontri mi sembrano molto vicini a quelli che mi comunicava. Dopo aver letto tutto quello che Lei ha scritto, io ancora non so come aiutarla o se sono in grado di aiutarla. Ma c’è una cosa molto importante che ho imparato dai suoi quaderni. Ciò che ora mi è chiaro è che, indipendentemente da quelle che possono essere le mie reali intenzioni o dalla precisione con cui io gliele possa esporre, se la decisione di concludere il trattamento venisse solo da parte mia, Lei la intenderebbe come un mio desiderio di liberarmi di Lei per non essere divorato da Lei. Le cose non stanno così e non voglio che Lei pensi questo. Perciò ora le faccio una promessa. A meno che Lei non faccia qualcosa che mi renda impossibile proseguire, tipo distruggere i mobili o cose del genere, non prenderò mai io l’iniziativa di chiudere la terapia”.
Un lieve sorriso illuminò il suo viso. Dopo questo mio intervento, il suo umore nelle sedute migliorò e cominciò a parlare con più libertà. In seguito mi raccontò che, quando era piccola, i suoi genitori partivano per lunghe vacanze senza avvisare, lasciando che i figli venissero informati da una babysitter al loro rientro da scuola; che suo padre a volte le strizzava le sue “tettine”, come lui le chiamava, quando entrava in camera sua per darle la buonanotte; che le condizioni di negligenza e arbitrarietà in cui erano cresciuti scatenavano aspre rivalità tra tutti i fratelli; e molti altri dettagli di quella che sembrava essere stata un’educazione latitante e abusante. Come sempre, manteneva dei limiti alla sua disponibilità di discutere ciò che mi confidava. Nel frattempo, trovò un impiego come associata in uno studio legale e dopo un anno decise di lasciare quel posto per un altro migliore. Riportava in seduta i suoi problemi professionali perché ci lavorassimo insieme, ma sempre entro i limiti che, senza darne spiegazione, prestabiliva lei.
Questa successione di eventi mi insegnò qualcosa riguardo al desiderio e al potere nell’analisi clinica, qualcosa che avrebbe trovato poi ripetute conferme durante il mio lavoro con questa giovane e, alla fine, anche con molti altri pazienti. Ho imparato che il lavoro analitico procede efficacemente quando non c’è un gradiente di potere tra analista e paziente, quando entrambi hanno lo stesso potere nella situazione clinica; inoltre, ho imparato che il modo migliore per un analista per evitare di assumersi un potere indebito e controproducente è evitare di creare l’illusione di uno squilibrio del desiderio nella relazione terapeutica. E questo richiede la disponibilità da parte dell’analista a comunicare i suoi desideri al paziente.
Mi resi conto che, nonostante io pensassi di avere assiduamente evitato, fin dal principio, di ingaggiare una lotta di potere con la paziente, in realtà, senza accorgermene, avevo semplicemente continuato ad insistere affinché lei si sottomettesse al mio potere. Volevo che lei si conformasse alla mia idea di trattamento efficace, che ritenevo migliore e da preferire alla sua idea di trattamento. Soltanto quando abbandonai questo punto di vista, riuscimmo ad entrare in una dimensione di negoziazione. E la cosa che colpisce di più è che il risultato della nostra negoziazione fu un lavoro analitico efficace, anche se anomalo secondo i criteri tradizionali! Perché, come vedremo, la paziente non soltanto abbandonò progressivamente i sintomi, ma divenne anche più consapevole di sé, modificando le sue convinzioni riguardo alla sua storia così come riguardo all’esperienza e ai comportamenti attuali. Divenne, inoltre, più schietta e più libera nel rapporto con me e poté elaborare gli aspetti transferali presenti nella nostra relazione. Mi era stato insegnato che comunicare il mio desiderio e rinunciare al mio potere avrebbe compromesso le possibilità del lavoro analitico. Scoprii invece che eliminare l’illusione di uno sbilanciamento di desiderio e livellare il potere all’interno della nostra relazione rese il lavoro analitico possibile.
Ad un certo punto del nostro lavoro, entrammo in conflitto sulla regola degli appuntamenti disdetti. Io faccio pagare tutte le sedute saltate che non possono essere recuperate. La paziente riteneva questo ingiusto. Per lei questo non era semplicemente un mio modo di fare le cose legittimo, anche se non condiviso da lei: era inequivocabilmente ingiusto. Il suo punto di vista non cambiava. Avrebbe potuto adattarsi, ma sentiva chiaramente di non doverlo fare. Le dissi che pensavo di avere diritto a fare le cose a modo mio e che non ero d’accordo con quella che io ritenevo fosse una visione sua, soggettiva, della giustizia, ma che per me il nostro rapporto era più importante delle questioni di principio o di denaro. Suggerii di trovare un compromesso. Fu d’accordo e propose di non pagare le sedute disdette con almeno due settimane di preavviso. Accettai questo accordo.
La sua carriera procedeva bene. Alla fine trovò un lavoro che le piaceva moltissimo. Si guadagnò la stima sia dei due colleghi associati, sia dei clienti. Andando avanti, discusse con me di alcuni problemi, come il fatto che le capitava di identificarsi troppo con gli imputati che rappresentava e di come questo interferisse con il suo lavoro. Le cose stavano cambiando in modo significativo anche nel suo matrimonio. Ebbe una relazione con un collega, la concluse, e cominciò a esporre in modo più diretto e costruttivo le sue insoddisfazioni al marito. Il marito smise di esserle infedele. Cominciarono a costruire la loro relazione su una quotidianità più reale e concreta e ripresero ad avere rapporti sessuali. Il fatto che la paziente sviluppò una maggiore capacità di condividere con me la sua vita psichica mi aiutò a capire perché era stato così proficuo, dal punto di vista analitico, darle un potere parlandole dei miei desideri. Lei era cresciuta in un ambiente familiare in cui i genitori restavano inaccessibili e in cui lei non aveva nessun potere. A differenza dei suoi genitori, io mi ero reso disponibile a farmi conoscere e a negoziare con lei. Poteva cogliere che il mio interesse per me stesso era sullo stesso piano del mio interesse per la sua salute e questa fu una esperienza emozionale correttiva fondamentale. Dal momento in cui capii tutto questo, mi fu possibile procedere in modo più diretto verso una soluzione costruttiva dei conflitti che emergevano nel nostro rapporto. Il risultato fu che la mia tecnica, in tutti questi casi, non era ortodossa, ma gli esiti erano, anche in base agli standard più tradizionali, dei successi psicoanalitici. Ecco un esempio piuttosto significativo.
Un giorno, dopo circa due anni di lavoro, la paziente venne e annunciò: “Non posso vederla”. Le chiesi che cosa intendesse (lavoravamo vis a vis), ma lei rispose soltanto: “Non posso vederla quando Lei mi guarda”. Ovviamente, non fu possibile fare ulteriori indagini. “Che cosa pensa che dovremmo fare?” le chiesi alla fine. “Beh – disse – penso che Lei dovrebbe stare voltato da un’altra parte, cosi io potrei vederla”. “Mi dispiace – risposi – non sono disposto a fare questo”. “Perché no?” chiese. “Perché non mi piace lavorare con le persone se non posso vederle” spiegai. “Come pensa che io mi senta?” rispose. Le dissi che ero sicuro che non piacesse neppure a lei. Fui molto comprensivo, ma non ero davvero disposto a fare quello che lei voleva. Mi disse che non era giusto. Le dissi che forse non lo era, ma io non ero proprio disposto. Continuò a venire agli appuntamenti, anche se ovviamente le condizioni non le piacevano. Dopo alcuni giorni di crescente disagio da parte mia, dissi “Okay, sono disponibile a voltarmi di lato. Che ne pensa?” Lei mi ringraziò e, da allora, siamo andati avanti così.
In seguito, mi riferì di aver rivisto la sua famiglia e di aver cominciato a incontrare i suoi con una certa regolarità. Descrisse la complessità dei sentimenti che provava verso sua madre, una persona affettuosa ma disorganizzata e irresponsabile, e i suoi conflitti nel trattare con suo padre, uomo brillante, interessante e manipolatore. La sua cerchia sociale si allargò e cominciarono ad arrivare maggiori dettagli sulle sue amicizie. Riportava anche pensieri e sentimenti che riguardavano me. In questi casi, riuscivamo a collegare i suoi vissuti a questioni antiche che avevano origine nelle sue relazioni passate.
Avevamo raggiunto un modo di lavorare insieme in cui i desideri dell’analista – il desiderio di sentirsi a proprio agio, cosi come il desiderio di seguire il metodo che gli era stato insegnato – non avevano la priorità sui desideri della paziente – di sentirsi a proprio agio e di andare avanti come lei riteneva fosse meglio. Per la prima volta nella mia carriera analitica, partecipavo ad una relazione terapeutica in cui non c’era squilibrio di potere. Per quanto riguardava i nostri desideri, negoziavamo su un piano di parità. Di conseguenza la mia paziente si sentiva più capace di analizzare in profondità e riportare gli aspetti problematici della sua vita psichica e io sentivo maggiore libertà e spazio per affrontarli in modo creativo.
Ad un certo punto, lei riprese a sentirsi preoccupata perché mi sentiva rifiutante. Questa volta era meno arrabbiata e poteva esporre le sue lamentele come tema da discutere. Nello specifico, disse che non le andava di parlare con me perché non aveva mai avuto una risposta alle cose che diceva. Trovavo tutto ciò particolarmente sconcertante, come le dissi, poiché dal mio punto di vista avevo sempre valorizzato le sue rare comunicazioni e avevo sempre immediatamente risposto, proprio nella speranza di aiutarla a dire qualcosa di più. Evidentemente, avevamo delle visioni differenti e sembrava che non andassimo lontano tentando di capirne il perché. Continuammo a provare a chiarire che cosa stesse succedendo; ma i mesi passavano e le cose rimanevano identiche. Lei non sentiva di venire a capo di qualcosa parlandomi della sua difficoltà a parlare con me.
Evidentemente, avevamo raggiunto un’impasse. A lei non piaceva quello che stava succedendo, ma non voleva smettere di vedermi; voleva solo che io cambiassi. Stava ricominciando ad avere la sensazione di cadere in fondo a un pozzo. Ancora una volta, mi preoccupava l’idea che potesse non avere senso continuare i nostri incontri e ancora una volta sentivo, allo stesso tempo, che sarebbe stato un errore concludere. Le dissi che mi sentivo nello stesso dilemma di prima. Lei non fece commenti con me su questo perché credeva che io non fossi in grado di ascoltarla, ma non voleva lasciare l’analisi.
Mi venne un’idea: perché non cercare qualcun altro con cui lei potesse parlare di me e della nostra relazione? Le chiesi se voleva vedere un secondo terapeuta per discutere quello che stava succedendo tra noi. Pensò che fosse una buona idea e mi chiese di suggerirle qualcuno, cosa che feci. In realtà, lei vide molti terapeuti che io le consigliai, tutte donne, come lei desiderava, per periodi che andarono da una seduta a tre mesi, finché alla fine trovò qualcuno che realmente andava bene. Si stabilì un programma per cui vedeva me tre volte a settimana e l’altra terapeuta una volta a settimana o ogni quindici giorni. Questa doppia terapia continuò fino a che non terminammo il nostro lavoro insieme.
Il trattamento durò altri due anni, fino a quando suo marito, che intanto aveva ripreso l’Università, trovò lavoro come insegnante in un’altra città. Quando terminò l’analisi, stava pensando di provare ad avere un bambino. Aveva sempre pensato che non avesse senso mettere al mondo un bambino, ma come risultato di tanti temi affrontati insieme, la sua posizione a riguardo era cambiata. Negli anni successivi, ho ricevuto molte cartoline in cui mi diceva, sempre laconicamente, che le cose andavano bene.
L’ultimo episodio nel nostro lavoro fu, a mio modo di vedere, un esempio perfetto della modalità con cui la mia paziente esprimeva il suo desiderio. La sua modalità richiedeva da parte mia un esame del mio desiderio, senza la presunzione che avesse la precedenza sui suoi. Ritengo che la paziente avesse ripreso la sua antica lamentela per comunicarmi i limiti della mia capacità di soddisfare il suo desiderio di essere aiutata a guarire. Potremmo vederla in questo modo: io avevo imparato ad essere un buon genitore che ripara, potremmo dire un buon padre, ma lei aveva bisogno anche di una buona madre. Per aiutarla a trovare una buona madre, senza perdere il buon padre, dovevo abbandonare un modo tradizionale e fondamentale di gestire il mio potere di analista.
Siamo abituati a pensare al rapporto del paziente con l’analista come se fosse un’unità conclusa in se stessa, da un punto di vista clinico. Se il paziente decide di trattare un problema psicologico fuori dalla relazione analitica, lo interpretiamo come un ostacolo al lavoro analitico: acting out, resistenza, evitamento del transfert. Ma in che misura questo modo di pensare è sostenuto dall’evidenza? E, cosa ancora più importante e significativa per la nostra discussione: in che misura l’idea che la relazione di un paziente con l’analista debba essere esclusiva è l’espressione di un desiderio dell’analista: evitare le critiche, negare i propri limiti, difendere l’idealizzazione ecc.? Certamente, nel caso che ho riportato, la paziente raggiunse risultati analitici molto soddisfacenti attraverso il lavoro con due terapeuti. Questo fatto non dovrebbe perlomeno farci riconsiderare i nostri assunti?
Riguardo al tema del desiderio nell’analisi clinica, concluderei dicendo che è stata dedicata moltissima attenzione all’analisi del peso dei desideri del paziente nell’incontro clinico, ma siamo ancora solo all’inizio della nostra indagine sul modo in cui nella relazione incide il desiderio dell’analista.
Di Owen Renik