Fabio Beni & Daniele Santoni [1]

1. Introduzione

Nel corso degli ultimi anni, ci siamo appassionati allo studio di un concetto ferencziano, Orpha, per molto tempo considerato non di primissimo interesse dagli addetti ai lavori.

Nel 2015, in occasione dell’International Ferenczi Conference a Toronto, ci rendemmo conto che, su oltre 70 interventi, solo tre, compreso il nostro [2], parlavano di Orpha – un insieme di fenomeni di natura traumatica/post-traumatica.

Non scoraggiati da questa apparente mancanza di interesse, abbiamo deciso di approfondire l’argomento, stressandolo in più direzioni. In occasione dell’International Ferenczi Conference di Firenze del 2018, abbiamo riscontrato, invece, un crescente interesse riguardo Orpha.

Non solo, durante l’intervento di un collega, in uno dei tanti panel ascoltati, il relatore stimolava l’uditorio a considerare che Orpha fosse più frequente e ubiquitario di quanto generalmente ritenuto. Nella fattispecie si chiedeva: si potrebbe immaginare che Orpha sorga anche a causa di disastri naturali o incidenti, oltre che di traumi d’abuso?

È in tal senso che il seguente lavoro esplora la possibilità che Orpha possa essere utilizzato per leggere in modo migliore fenomeni ed episodi di varia natura, presenti nella nostra cultura, nelle esperienze di vita di alcuni di noi e nelle nostre rappresentazioni artistiche.

Intendiamo quindi illustrare, dopo una breve descrizione di Orpha, alcune rappresentazioni letterarie, cinematografiche e biografiche che ci sembrano ben raffigurare tale concetto. Sebbene nell’ambito psicoanalitico Orpha non sia ancora al centro dell’attenzione, al di fuori di esso sembrerebbe invece essere presentissima e raffigurata in molti modi diversi.

2. Orpha

Ferenczi inizia a tratteggiare Orpha durante l’analisi con Elisabeth Severn, una donna dalle capacità straordinarie sia in campo artistico che terapeutico, benché gravata da crisi personali pesantissime. Ella aveva subito, nella prima infanzia, traumi così precoci e annichilenti che l’avevano segnata profondamente, cosa che l’accomunava molto al suo analista.

Durante il percorso analitico, i due cominciarono a notare e descrivere dei fenomeni psichici e fisici che si attivano nel momento in cui il trauma entra nella vita della persona, garantendone la sopravvivenza psichica al prezzo di un devastante e massivo processo dissociativo. Ad eccezione di porzioni di personalità che afferiscono agli ambiti concreti, prestazionali, tutto il resto viene spazzato via. Gli elementi più prettamente umani, che riguardano l’affettività, l’emotività e la tenerezza, vengono frammentati e dissociati.

La nascita di Orpha può essere percepita dal soggetto come la comparsa di un’allucinazione – come un angelo custode, una luce, una voce – oppure può essere avvertita come una sensazione di benessere, di calore e protezione.

Questo processo di potenziamento consente alla vittima di fuggire da quello che sta avvenendo, di evitare il dolore, la paura, di sopravvivere allo shock.

Questo frammento di personalità – definito orphico da Ferenczi stesso (1958) – una volta attivatosi, continua a esistere, arrivando a compiere quella che sembra un’opera di possessione del soggetto: in altre parole, cresce, fino a produrre, auto-organizzandola attorno a sé, una pseudo-personalità vera e propria. Spesso accade che queste persone sviluppino, fra le altre cose, capacità di cura di tipo taumaturgico.

Infine Orpha andrà incontro ad una crisi grave, spesso definitiva, che vedrà la sua fine o il suo forte ridimensionamento: una personalità così disarmonica – potentissima in certi settori, quanto assolutamente deficitaria in altri – difficilmente potrà resistere al passare del tempo, ad una mancanza costante di affettività prettamente umana, alle difficoltà relazionali dovute ad una diversità stridente con il resto del genere umano.

3.1. Orpha fra cinema e realtà: Rafael Yglesias

Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, Rafael Yglesias riesce a imprimere una formidabile svolta alla sua carriera di romanziere quando, uscito illeso da un gravissimo incidente automobilistico [3], trova finalmente il modo di raccontare la propria esperienza di superstite.

Come racconta, l’ispirazione lo coglie leggendo del disastro aereo del volo United Airlines 232, schiantatosi il 19 luglio del 1989, tentando un atterraggio di emergenza presso l’aeroporto di Sioux City, in Iowa. Rafael rimane particolarmente colpito dai racconti di alcuni sopravvissuti che riferiscono di una hostess che, poco prima dello schianto, nel parapiglia generale di un aereo pieno di passeggeri terrorizzati, slacciatasi la cintura di sicurezza, si alza dal suo strapuntino per raggiungere un bambino salito a bordo da solo. Allo stesso modo, Rafael non riesce più a smettere di pensare alla storia di una madre che cerca di trattenere a sé, stretto al petto fra le sue braccia, il figlio, un bambino di pochi mesi che le sarà strappato via, centrifugato dalla rotazione della fusoliera dell’aereo, rovinato al suolo in più parti.

Due vicende che, nel loro insieme, forniscono una rappresentazione drammatica di quelle vette e di quegli abissi che l’essere umano può raggiungere in circostanze simili, aspetti che lo scrittore ha in qualche modo lui stesso conosciuto. Nasce dunque Fearless, un romanzo che non solo diviene bestseller ma che, nel 1993, si trasforma nel copione dell’omonimo film, lanciando Yglesias come sceneggiatore e come romanziere di primo livello [4].

Il protagonista maschile del film, Max, interpretato da Jeff Bridges, non solo va sedersi accanto ad un bambino terrorizzato, rimasto solo nell’orrore, ma conforta i numerosi passeggeri che poi porta pure in salvo, fuori dalle lamiere incandescenti. Max è l’unico dei sopravvissuti a non riportare la sintomatologia che, a seguito di un disastro, ci si aspetterebbe, ovvero la classica sindrome da stress post-traumatico.

Max, quel giorno, non avrebbe voluto prendere il volo United Airlines 232, anzi, mai e poi mai avrebbe voluto volare in generale, essendo aviofobico. Deve tuttavia cedere alla necessità del caso, ovvero ad un cruciale impegno di lavoro per cui quel volo delle 14:09 era divenuto indispensabile. Così quando alle 15:06 avviene la prima esplosione, ha conferma di ciò che si attendeva da sempre all’idea di mettere piede su un aereo, ovvero che sarebbe stata la fine. Agonizza incredibilmente a lungo quando, completamente vinto dalla paura, vede una luce baluginare fuori dall’oblò e la contempla – è Orpha che nasce? Sente quindi le seguenti parole: “È finita, Max, è arrivato il tuo momento”.

È allora che, completamente pacificato – e potenziato – alzatosi in piedi mentre tutto sta crollando, può vedere l’abisso negli occhi di ognuno dei passeggeri che raggiunge con lo sguardo. Mentre si avvicina al bambino rimasto tutto solo, porta a coloro che incontra lungo il suo cammino il conforto di un sorriso, di una carezza, di una stretta di mano. Invita il bimbo a chiudere gli occhi e attendono assieme lo schianto: la sua espressione, così calma e tranquilla, lo rassicura e lo consola. Alle 16:00, infine, il disastro. Per molti sarà la fine, alcuni si salveranno, per Max sarà invece un nuovo inizio – l’inizio della possessione? Nessuna paura, una inesauribile energia vitale, la consapevolezza di non poter più vedere le cose come le vedeva prima, come le vedono ancora tutti, compresi i suoi cari, tranne coloro che, come lui, hanno vissuto quell’esperienza. Non solo, Max sviluppa, suo malgrado, il potere terapeutico – taumaturgico? – di curare il dolore di chi ha perso qualcuno. Potrà allentare, con la sola sua presenza, la morsa dell’ansia di chi, pur sopravvissuto, si sente comunque morto dentro.

Max compie così il suo prodigio più grande, là dove la medicina, la psichiatria e la psicologia non riescono ad arrivare, prendendosi cura di una madre che, nella sciagura, perdendo il suo bambino, ha perso anche l’anima. Apatia, ritiro catatonico, sindrome da rassegnazione, sintomi che solo Max può alleviare, mettendo a rischio, però, la vita sia di chi gli aveva chiesto aiuto, sia di sé medesimo, andando incontro ad una crisi personale profonda.

3.2. Steven alias Cat Stevens alias Yusuf Islam

Steven Demetre Georgiou, nato il 21 luglio del 1947 da padre greco e madre svedese, cresce ascoltando dalla sua camera le musiche ed i canti provenienti giù dabbasso, cioè dall’osteria (The Moulin Rouge) dei genitori, sita al 245 di Shaftesbury ave, Londra. Stiamo parlando della Swinging London, una città assai dinamica nei ‘60s che, da lì in avanti, ospiterà una serie di rivoluzioni culturali e sociali straordinarie. È così che Steven non manca all’appuntamento col suo destino divenendo, giovanissimo, uno degli interpreti dello scenario musicale pop del momento.

Steven, divenuto Cat, per consiglio di un’amica, volto a sottolinearne il taglio felino degli occhi, conosce velocemente un certo successo con i suoi primi singoli, pezzi come “I Love My Dog”, incisi su 45 giri. Fa sua la “Peacock Revolution”, segue gli stilemi artistici dei Rolling Stones, indossa i “Beatles Boots” con tacco “Cuban”, calandosi completamente nel mood del periodo, cavalcando brillantemente la sua epoca. Tutto bene, dunque, fino a quando, nel 1968, smunto oltre ogni limite e senza più fiato in corpo per cantare, si ritrova a tu per tu con una gravissima forma di TBC, che lo porterà a temere per la sua vita. Ricoverato inizialmente presso la Harley Street Clinic di Londra e successivamente al King Edward VII Sanatorium Hospital, nella campagna del Sussex vicino a Midhurst, dopo il terribile shock per una diagnosi dalla prognosi potenzialmente infausta, vive per tre mesi una difficile convalescenza. Steven sopravvive e, dopo aver passato molto tempo a riflettere sulla sua esperienza, diviene alla fine quel Cat Stevens che tutti noi conosciamo e riconosciamo, sentendo le note di pezzi come “Father and Son”.

Tuttavia Cat non è più lo stesso né nel corpo, né nell’anima. Con barba lunga e lunghissimi capelli, cambiata casa discografica, Cat compone una serie di canzoni assolutamente originali che, in pochi anni, lasciano un segno indelebile nella storia della musica, sia per successo commerciale che per valore artistico. Il cambiamento di Cat non rimane solo un tanto drammatico quanto passeggero exploit: per tutti gli anni successivi, i testi delle sue canzoni si allontanano definitivamente dai temi tipicamente “yé-yé” del periodo, divenendo sempre più intimistici e spirituali. Allo stesso modo, la struttura musicale dei suoi componimenti diviene sempre meno adatta ad una programmazione radiofonica, finendo – vedi, ad esempio, il suo album Numbers – per rappresentare un problema per i suoi discografici che, ad ogni nuova pubblicazione, paventano il flop commerciale. Ormai la “deriva” spirituale anticommerciale di Cat appare irreversibile, così come il suo interesse per le religioni, in particolare per quella islamica.

Ed è cosi che nel 1976, mentre fa il bagno nello specchio di mare antistante alla residenza di Malibù di Jerry Moss, suo amico e produttore, il destino gli si presenta nuovamente di fronte sotto forma di risacca; una corrente che letteralmente lo risucchia, portandolo via, a largo. Nuota forte e ancora più forte, fino allo sfinimento, quando all’improvviso si rende conto di non riuscire più a tornare a riva. Nella totale disperazione, prega Dio – Allah – di salvarlo, promettendo che, qualora avesse ricevuto la grazia, sarebbe divenuto suo strumento. È lui stesso a raccontare [5] che, a quel punto, una forza misteriosa – nata non si sa come – lo sospinge dal basso fino alla spiaggia, arrivato sulla quale, sano e salvo, rinnova il suo voto di fedeltà ad Allah, prendendo definitivamente la via del Corano e divenendo di lì a poco Yusuf Islam. Drammaticamente Yusuf rinnega Cat, dismette infatti completamente i panni della rockstar illuminata, impiegando tutti i suoi talenti e le sue risorse per la diffusione del messaggio islamico.

Divenuto tutt’uno con la sua fede – che parebbe essersi definitivamente impossessata di lui – Yusuf, alias Cat, alias Steven, è ormai interprete canoro esclusivamente del Corano, assume posizioni e sposa cause tanto estreme da finire con l’essere considerato – e ahimè ricordato – come sponsor dell’integralismo.

3.3. La morte sospesa

1985. Siula Grande, Cordillera Huayhuash, Ande Peruviane. Il 19 marzo tre ragazzi ventenni, Joe, Simon e Richard si trovano al campo base, a circa 4.500 metri sul livello del mare: i primi due si apprestano a scalare la parete ovest, mai raggiunta prima da nessuno, il terzo, Richard, che non è un alpinista, aspetterà lì il loro ritorno. Il modo di scalare è quello tradizionale, in libera: nessun soccorso, né bivacchi, né rifugi, solo due uomini con zaini, scarponi e piccozze.

Il 20 marzo inizia la salita, che si conclude con un successo, nonostante maltempo e bufere: sono i primi ad aver scalato quella parete così impervia. Poco dopo l’inizio della discesa, Joe scivola e atterra malamente sulla gamba destra, procurandosi una bruttissima frattura scomposta. È spacciato. Se ti rompi una gamba a 6.000 metri sei morto, Joe lo sa e anche Simon lo sa, glielo si legge negli occhi. Tuttavia l’amico non lo abbandona, e lo cala con una fune per 45 metri alla volta, fino a che non incontrano un dirupo, nascosto alla loro vista dal vento e dalla neve. Joe si ritrova a penzolare nel vuoto, sospeso sopra ad un crepaccio profondissimo. Simon resiste, tenendo la corda, con le mani semicongelate, per un’ora e mezzo. Poi deve cedere e, per salvare la propria vita, taglia la corda. Joe precipita per 30 metri nel vuoto e atterra sul crepaccio, che lo inghiotte. Simon sa di aver causato la morte dell’amico, e ricomincia la discesa, da solo.

Ma Joe è sopravvissuto alla caduta, e rendendosi conto della sua situazione, si dispera e abbandona ogni speranza di sopravvivere. È in questo momento che succede qualcosa nella sua mente: sembra emergere una parte che prima non c’era.

Le parole che seguono sono di Joe, che descrive la sua esperienza sul Siula Grande in un libro, Touching the Void (La Morte Sospesa, nella versione italiana), che diviene un bestseller e un docu-film.

«E per un attimo dimenticai Simon, il crepaccio, perfino la gamba. Rannicchiato contro la parete ridevo come un folle e tremavo. Una parte di me riconobbe il tremito. È il freddo, disse una voce distaccata, tranquilla, dentro la mia testa. È il freddo. È lo shock. E mentre l’altra parte si abbandonava quietamente alla follia, quella voce continuava a ripetere, è il freddo, è lo shock. Ed era come se fossi spaccato in due, una parte rideva, l’altra la guardava ridere, impassibile. Dopo un po’ mi accorsi che avevo smesso di ridere ed ero tornato uno. Il tremito aveva riportato un po’ di calore nel mio corpo intirizzito, l’adrenalina era tornata a livelli normali. […]

Era come se dentro di me vi fossero due teste diverse che cercassero la supremazia l’una sull’altra. Una era quella voce: ferma, calma, perentoria. Aveva sempre ragione e quando parlava dovevo ascoltare e obbedire. L’altra produceva un flusso disordinato di immagini, ricordi, speranze cui mi abbandonavo come in un sogno, anche mentre eseguivo gli ordini della voce. Dovevo raggiungere il ghiacciaio. Là, poi, avrei trovato il modo di proseguire. Ma non era necessario pensarci ora. I miei obiettivi si erano fatti perfettamente chiari, ma anche estremamente limitati. Pensavo soltanto a ciò che dovevo fare nell’immediato. Ora la meta era il ghiacciaio. Quello che veniva dopo non contava. La voce mi diceva esattamente cosa fare e io obbedivo, mentre l’altra testa distrattamente svolazzava da un pensiero all’altro. […] Il sole a picco mi intontiva. Mi fermavo, ma quando stavo per assopirmi, la voce e l’orologio mi costringevano a riprendere la marcia. Erano le tre. Mi restavano tre ore e mezzo di luce. Avanzavo con la lentezza di una lumaca, indifferente a tutto, tranne che alla voce imperiosa che mi comandava. Obbedirle era l’unica cosa che importasse davvero. Guardavo davanti a me, sceglievo un punto qualsiasi della superficie ondulata del ghiacciaio, lanciavo un’occhiata all’orologio e la voce ingiungeva: devi arrivare laggiù entro mezz’ora. Io obbedivo.» (Simpson, p.136-176).

Disidratato, semicongelato, con una gamba gonfia e violacea, dimagrito di oltre venti chili, Joe riesce, guidato e comandato dalla voce, a raggiungere il campo base e a ricongiungersi ai suoi amici, che lo porteranno in salvo.

Due anni dopo essere sopravvissuto a tutto questo, Joe Simpson sarà di nuovo in vetta, oltre i 6.000 metri. Le sei operazioni alla gamba non fermano la sua passione, il suo bisogno di montagna; si trova in altre situazioni difficili, ma continua ad arrampicarsi fra roccia e neve. Smette di scalare soltanto anni dopo, nel 2003, quando l’artrite comincia a rendergli la discesa davvero troppo dolorosa.

In un’interessante intervista al Trento Film Festival, nel 2008, l’intervistatrice, Kay Rush, chiede a Joe se c’è vita, per lui, dopo l’arrampicata, se è felice. Lui risponde che non lo è, che prima, quando scalava, aveva uno scopo, sapeva cosa stava facendo e perché; ora non lo sa più e ciò lo fa sentire instabile, senza appigli.

3.4. Adrift

Una piccola digressione sulla qualità più caratteristica del mare, la sua imponenza. Ho un frigo che, più o meno, misura 1,8 m di altezza, 60 cm di larghezza e lo stesso in profondità. Se fosse riempito di acqua avrebbe un peso di circa 650 kg, più o meno quanto la mitica Fiat 500 che motorizzò l’Italia a partire dal 1957. L’acqua dunque pesa e il luogo dove ce n’è di più è ovviamente il mare. Quando si pensa al mare si pensa alla sua grandezza, tanto da usare il termine “mare” per indicare una quantità significativamente grande di un qualcosa, del tipo: “ti voglio un mare di bene”.

Ma quando il mare è molto grande si chiama oceano e, fra gli oceani, quello più grande è il Pacifico che pacifico, come è noto, non è per niente. La bellicosità del mare si misura secondo due scale, quella di Beaufort e quella di Douglas. Il primum movens del mare è il vento, la cui intensità può essere stimata empiricamente appunto con la Beufort; invece il vero Kraken [6] temuto da ogni marinaio è il moto ondoso che viene valutato secondo la Douglas. In una scala da 0 a 12 – poi estesa a 17 per considerare gli uragani di varia entità – dire “mare forza 7” vuol dire vento forte, cioè fino a 33 nodi, ovvero, per chi non naviga, ben 60 km/h abbondanti. Quando invece si dice mare “3”, ovvero mosso, in una scala che arriva a 9, si intende onde alte fino a 1,25 m.

Ebbene, il 10 ottobre del 1983 Tami Oldharm Ashcraft e Richard Sharp si ritrovano, incolpevolmente e loro malgrado, a tentare disperatamente la fuga da Raymond, il peggior uragano di quell’anno, avendo raggiunto il valore massimo previsto dalla Siffrin-Simpson, scala che divide in cinque categorie gli uragani, l’ultima delle quali noma come “disastroso” l’uragano così valutato. Raggiunti da quest’ultimo sulla rotta che, attraversando il Pacifico, li avrebbe portati da Thaiti a San Diego, non possono più scampare al loro destino. Vengono dunque risucchiati da onde alte 12 metri e venti che spirano a velocità superiori ai 140 nodi, ovvero, più o meno, 260 km/h. Oltre il “17”, ovvero oltre il valore massimo riservato agli uragani dalla scala Beufort. Non onde ma “palazzi” di 4/5 piani, frangenti tonnellate di acqua, che rendono il mare un ottovolante di spuma bianca e l’aria tanto pregna di vapori acquei da non essere più respirabile. Nessuna possibilità di governo, nessuna possibilità di evitare avarie. Per Hazana, una barca a vela di 13,5 mt., nessuna speranza. Surfando sempre più velocemente e fuori controllo lungo il crinale delle onde, essa finisce per conficcare la sua prua nella bocca del “Kraken”, ovvero dentro un’onda mostruosa che le si richiude sopra, sommergendola completamente fino alla punta dell’albero. Un attimo prima che ciò accada, Tami, prudentemente mandata sottocoperta dal compagno consapevole del rischio imminente, ode il disperato grido di Richard levarsi invano verso Dio. Un istante dopo, i 13,5 metri di Hazana, così come Tami stessa, sono quasi frullati a morte. Nonostante si sia assicurato a più cime di sicurezza, Richard muore, strappato via dal timone.

Tami, invece, gravemente ferita alla testa, riesce sì a sopravvivere, ma per fare nuovamente i conti col destino. Stordita, o meglio, in un permanente stato di veglia attenuata, sola su una Hazana semi-galleggiante, ormai ridotta a relitto, rimane naufraga per ben 41 giorni, ago in un immenso pagliaio blu di nome Pacifico. È la disperazione totale. Il dolore per le ferite aperte si attenua solamente nel creparsi del cuore spezzato dalla perdita. Tanta fame perché il pesce sta sotto, in acqua, e bisogna saperlo pescare. Tanta sete perché i tempi della disidratazione sono spesso più brevi di quelli necessari al processo di dissalazione. C’è poco da fare, non si può che accettare il destino, ovvero che le probabilità di sopravvivenza, in una situazione simile, sono quasi nulle. Ma paradossalmente c’è anche molto, troppo da fare, nel senso che quelle poche speranze sono appese a tutte quelle avarie che si deve provare a riparare. C’è un cielo da scrutare in cerca della strada, illuminata dagli astri, ma c’è anche un cielo da temere, perché araldo di nuove sciagure.

È una voce che, nei momenti peggiori, le viene in soccorso, aiutandola a venire a capo dell’impossibile. Tami sopravvive anche a questa lunghissima seconda prova e viene recuperata, ormai pelle e ossa. Continua a prendere il mare e racconta la sua storia in un libro, Red Sky in the Morning, poi adattato per il cinema con il titolo Adrift. Quella voce, Tami lo continua a ribadire a lungo, non era la sua, l’ha sentita veramente [7], distinta dalla sua voce interiore: senza di lei non sarebbe stata in grado di farcela.

4. Conclusioni

Dove altro possiamo riscontrare tracce di una possibile presenza di Orpha? Forse in Mike Tyson, che passa da essere un ragazzino grassoccio, timido e sporco, a diventare una macchina da guerra inarrestabile, dopo essere stato violentato da un uomo in un vicolo. Sarà il più giovane peso massimo a diventare campione del mondo, per poi andare incontro ad un precoce declino.

O forse nell’esperienza di Antoine de Saint Exupery, che, dopo aver fatto un atterraggio d’emergenza in mezzo al deserto del Sahara, mezzo morto per la disidratazione, viene soccorso da un ragazzino che gli indica la via verso la salvezza. Ragazzino che in realtà non esiste, e che ispirerà la storia de “Il Piccolo Principe”.

Probabilmente in tantissimi supereroi dei fumetti, come Wolverine, il cui trauma precoce lo porta a “tirare fuori gli artigli”, a perdere la memoria dell’evento e a guarire velocemente da qualsiasi ferita potrà ricevere in futuro.

È possibile che la particolarità, la natura nascosta e la descrizione quasi metafisica dipinta da Ferenczi – che non ebbe il tempo di sviluppare questa idea in maniera organica e completa – abbiano reso Orpha un concetto difficilmente conoscibile e utilizzabile, almeno all’interno del mondo psicoanalitico.

Crediamo di aver dato, con questo nostro contributo, una rappresentazione plastica di come Orpha possa abitare questo mondo. Teniamo altresì a precisare che non vogliamo dare per certa la natura orphica dei fatti qui riportati, ma solo far notare che questi ultimi ben si possono prestare a tale lettura.


Bibliografia

Ferenczi, S. (1958). Journal clinique. Paris: Payot. (trad. it.: Diario clinico. Milano: Raffaello Cortina, 1988).
Simpson, J. (1992). La morte Sospesa. Torino: Cda & Vivalda.


Note

[1] Fabio Beni, psicologo, psicoterapeuta ordinario, socio S.I.P.I., docente presso l’Istituto di psicoanalisi H.S. Sullivan di Firenze, Dirigente Psicologo presso il SerT di Prato. Email: fbeni@usl4.toscana.it. Daniele Santoni, psicologo psicoterapeuta, socio S.I.P.I, socio SIPEP_SF, docente presso l’Istituto di Psicoanalisi H.S. Sullivan. Email: daniele_santoni@libero.it.
[2] Ci riferiamo a «La dissociazione farmaco-indotta: l’orpha “chimico” come base di una nuova tecnologia analitica» uscito su Ricerca Psicoanalitica, nel 2014.
[3] https://ew.com/article/1993/10/15/fearless-screenwriters-real-life-brush-death/
[4] Interessante notare come Yglesias rimarrà attratto dal trauma ancora, realizzando, ad esempio, un’altra sceneggiatura per il film, diretto da Roman Polansky, “La morte e la fanciulla”, pellicola dedicata agli effetti psicologici della tortura.
[5] https://www.youtube.com/watch?v=YMls9j5unFA
[6] Leggendario mostro marino, generalmente tentacolato che si riteneva responsabile dell’affondamento delle navi che vi si imbattevano
[7] https://www.historyvshollywood.com/reelfaces/adrift/

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