Il film di Truffaut, L’argent de poche, per quanto delicato e divertente, non entra davvero in sintonia con il mondo infantile. C’è come una separazione fra adulti e bambini, due mondi che non comunicano veramente. Questo film mi ha fatto venire in mente i meravigliosi Peanuts di Shultz, l’epopea poetica di un universo infantile interamente chiuso in una bolla di autosufficienza, dove gli adulti possono entrare, al massimo, con un piede, una mano o una voce fuori campo. Nel nostro film un bambino troppo piccolo per essere lasciato da solo, vittima della mamma incosciente e distratta, cade dalla finestra. Un altro è senza mamma e s’innamora di una mamma altrui, ma nessuno si accorge dei suoi sentimenti, meno di tutti la destinataria, che scambia il dono che lui le fa (immaginiamoci quanto argent de poche possa essere costato quel mazzo di splendide rose!) per un dono del suo papà! Infine, nessuno si accorge del dramma del bambino considerato come il più monello di tutti, finché non viene costretto a spogliarsi per la visita medica: solo allora ci si accorge che è vittima di genitori aguzzini che lo torturano sistematicamente.
Non penso che questa distanza sia un limite del film, preferisco credere che sia la cosa più difficile da rappresentare e, in un certo senso, la cosa più importante che il film vuole farci vedere. Personalmente, non ho bisogno di attingere alle mie competenze professionali per sapere che le cose stanno davvero così: mi basta ricordare la mia infanzia. Sono cresciuto negli anni cinquanta, in una palazzina di sei piani, alla periferia di Bologna e ho conosciuto la società dei bambini, organizzata per cortili, gerarchie, orde, capace di trasmettersi infinite competenze infantili, di vivere infinite esperienze interessanti e pericolose, il tutto dentro a quella bolla di magica invisibilità che ci separava completamente dal mondo adulto. Forse ora le cose sembrano diverse, perché il mondo adulto ha smembrato la società dei bambini e le impedisce di manifestarsi nelle forme più organizzate di un tempo, ma io sospetto, anzi sono sicuro che la società dei bambini esiste ancora e trova invisibili modi per comunicare e sopravvivere, come del resto ha sempre trovato. Esiste la società dei bambini come esiste quella dei cani che si riconoscono infallibilmente e anche da lontano, a prescindere dai travestimenti imposti loro dai loro padroni. Così come esiste la società dei gay, enormemente più presente e numerosa di quanto i non appartenenti possano mai immaginare, così come esistono infinite altre società, invisibili le une alle altre. La società dei bambini esiste ancora, nonostante la diaspora, ma noi adulti ne siamo esclusi. Non le diamo spazio e ci illudiamo che non esista più, ma gli spazi si sono semplicemente sovrapposti. Per fare un esempio, percepiamo come indisciplina scolastica la sovrapposizione della loro società alla nostra, del loro bisogno di riconoscersi, di sfidarsi e di mettersi alla prova con il nostro bisogno di ammaestrarli, di inquadrarli e di assimilarli al nostro mondo di regole e di doveri, disorientandoci tutti, adulti e bambini, in una confusione di codici e di lingue che nessun educatore sarà mai in grado di decifrare.
Se questa enorme difficoltà d’incontro fra mondi compresenti ma separati è la normalità delle cose fra adulti e bambini, proviamo a immaginare la patologia! Senza entrare nelle maggiori complessità dell’argomento, è chiaro che la patologia dello sviluppo presenta due possibilità logiche fondamentali: il blocco o ritardo dello sviluppo e il deragliamento evolutivo, cioè la nevrosi, la costruzione di una complessa struttura difensiva, a scapito della sviluppo armonioso della personalità, cioè a scapito della spontaneità, della creatività e, in generale, della capacità di essere se stessi nelle diverse situazioni della vita.
Se è difficile entrare in rapporto con il bambino sano, incontrarlo per davvero, fare qualche passo nel suo mondo e non pretendere da lui che sappia già essere se stesso nel nostro, cioè che (per comodità nostra) sia già un adulto, figuriamoci quale enorme difficoltà si frapponga nel tentativo di entrare in contatto con un bambino spaventato, disorientato, difeso o, peggio, traumatizzato. Questo è il compito dello psicoterapeuta infantile. Ricostruire un ponte fra due mondi che non comunicano più, per sventare il pericolo più grave, e cioè che il bambino rifiuti completamente il mondo che gli presentiamo, apparendogli come assurdo e impraticabile, o insensibile ai propri veri bisogni, o francamente ostile, determinandosi così un grave blocco evolutivo, o una psicosi infantile. Altro pericolo da sventare, quello nevrotico, è che il bambino si adatti per convenienza, che sviluppi un falso sé compiacente e redditizio sul piano della remunerazione da parte degli adulti: è questo “il dramma del bambino dotato” per parafrasare il titolo del celebre libro, o meglio il dramma del bambino traviato che viene elogiato perché sa rivendere agli adulti la parte di bravo bambino che gli chiedono di fare, ma ha comunque perduto la propria spontaneità e la capacità di essere se stesso, cioè di essere quella persona unica di inestimabile valore che è ogni bambino.
Donald W. Winnicott, prima pediatra e poi geniale innovatore nel campo della psicoanalisi, è una specie di nume tutelare della psicoterapia infantile e penso che evocarlo sia un obbligo e una sorta di rito inaugurale per un’attività di psicoterapia infantile che apre i battenti.
Io nutro un amore e un’ammirazione particolare per questo grande maestro, tanto è vero che ho appeso il suo ritratto nel mio studio e non quello di Freud o di qualcuno dei maestri in carne ed ossa che ho avuto nel corso della mia formazione psicoanalitica. Perché ho appeso Winnicott e non altri? Perché Winnicott ha compreso per primo l’enorme importanza dell’incontro o del mancato incontro fra il proprio mondo soggettivo e il mondo degli altri, ha creato gli strumenti concettuali e ha sviluppato i metodi terapeutici necessari allo scopo. Egli ha rivendicato l’importanza di una terza dimensione che costituisce il ponte, l’interfaccia indispensabile, e l’ha chiamata dimensione transizionale. Citerò direttamente le sue parole: “il compito di accettazione della realtà non è mai completato; nessun essere umano è libero dalla tensione di mettere in rapporto la realtà interna con la realtà esterna, e il sollievo da questa tensione è provveduto da un’area intermedia di esperienza che non viene mai messa in dubbio (arte, religione ecc.). questa area intermedia è in diretta continuità con l’area di gioco del bambino piccolo che è completamente assorto nel gioco. […] Dovesse un adulto pretendere la nostra accettazione della oggettività dei suoi fenomeni soggettivi, noi vi scorgeremmo o diagnosticheremmo la follia. Se, tuttavia, l’adulto trova la maniera di godere dell’area intermedia personale senza avanzare pretese, allora possiamo riconoscere le nostre proprie aree intermedie corrispondenti e ci fa piacere trovare un certo grado di sovrapposizione, vale a dire l’esperienza comune fra i membri di un gruppo nell’arte, nella religione o nella filosofia”. (1)
Vorrei anche accennare alla tecnica dello scarabocchio, che costituisce una sorta di applicazione clinica diretta delle considerazioni precedenti: “Nel gioco dello scarabocchio, Winnicott gioca con il suo paziente liberamente e spontaneamente. Winnicott disegna delle linee su un pezzo di carta e il bambino deve trasformare le linee in qualcosa. Poi è il bambino a disegnare delle linee ed è Winnicott che deve completarle. Di chi è il disegno finale? È del bambino o di Winnicott? Come l’oggetto transizionale, esso non è né interno né esterno sia per Winnicott sia per il paziente. Come l’interpretazione, dal punto di vista di Winnicott, esso non proviene dall’analista o dal paziente ma al contrario nasce dallo spazio transizionale tra loro”.(2)
Vorrei concludere, citando una poesia di Tagore, che, per qualche motivo, dentro di me si associa sempre al significato della dimensione transizionale, quando cerco di coglierne l’essenza.
La poesia si chiama Mondi infiniti:
I bambini si incontrano sulla riva dei mondi infiniti.
Su di loro l’infinito cielo sta silenzioso,
e l’acqua increspa il velo
Con gridi e salti si incontrano i bambini
sulla riva dei mondi infiniti.
Innalzano castelli di sabbia sulla spiaggia
e giocano con le conchiglie vuote.
Intrecciano barchette con le foglie secche
e ridendo le fanno veleggiare
sull’immensa distesa del mare.
I bambini giocano così sulla riva del mondo.
Non sanno nuotare e neppure gettare le reti.
I pescatori si tuffano a strappare le perle dal fondo del mare,
sulle navi veleggiano i mercanti,
mentre i bambini raccolgono sassolini che poi gettano via.
Non vanno a cercare tesori nascosti, non sanno gettare le reti.
Il mare si increspa di mille sorrisi,
e la spiaggia risuona del dolce rumore.
L’onda che porta la morte canta invece
ninne nanne senza senso ai bambini,
come fa ogni mamma cullando suo figlio.
Il mare si perde a giocare coi bambini,
e la spiaggia risuona del dolce rumore.
I bambini si incontrano sulla riva di mondi infiniti.
Si aggira la tempesta nel cielo dalle molte rotte,
fanno naufragio le navi sul mare dalle molte mete,
la morte corre e giocano i bambini.
Si sono radunati sulla riva dei mondi infiniti
NOTE:
(1) D. W. Winnicott, Gioco e realtà, Editore Armando Armando 1974, pp. 41-42.
(2) L. Aron, Menti che si incontrano, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004, p. 119.