Introduzione
Se per empatia, in senso generale, è possibile intendere la capacità di immedesimarsi in un’altra persona e di coglierne gli stati d’animo, l’originaria definizione del termine si riferiva a significati differenti.
La parola empatia (in tedesco Einfuhlung) compare per la prima volta nelle opere dello scrittore tedesco Herder e del poeta Novalis, esponenti del romanticismo europeo.
In questi due autori il concetto di empatia ha una valenza eminentemente estetica ed esprime l’immedesimazione totale del soggetto nella vita della natura, concepita, romanticamente, come essere vivente spirituale.
Attraverso l’empatia l’oggetto natura ha una sua risonanza estetica all’interno del soggetto poeta.
La parola empatia, in questi due autori, è però usata occasionalmente e non ha una sua sistemazione teorica chiaramente definita.
Sempre nel campo della speculazione estetica, ma con una visione sicuramente strutturata, si muovono le riflessioni del filosofo tedesco Robert Vischer, vissuto nella seconda metà del secolo scorso.
Al contrario della concezione romantica (la natura intesa come flusso vitale spirituale) la speculazione di Vischer interpreta la natura come contrapposta, alienata dallo spirito, priva di “logos” e di anima. Sempre secondo Vischer è la fantasia umana a trasmettere e a “sentire”, riflessa nella natura, la vita dello spirito. La fantasia si identificherebbe come empatia, intesa come capacità di cogliere la vita della natura esterna come se fosse la vita della natura interna, cioè del corpo umano, unità di natura e di fantasia.
Per entrare maggiormente nello specifico bisogna tener presente che la riflessione di Vischer parte dalla concezione hegeliana del bello come creazione e “riflesso dello spirito” e individua la fantasia come forza misteriosa, interiore e spirituale, che non soltanto è una facoltà estetica, ma la fonte stessa del bello: ragion per cui il bello non sarebbe una cosa in sé, ma un puro atto di intuizione del soggetto.
Sempre secondo Vischer il soggetto, nel momento in cui percepisce un oggetto della natura, lo “aliena” dal suo essere naturale e lo fa rivivere nel suo valore simbolico. Questo valore simbolico rivelerebbe e esprimerebbe l’intima unione della natura e della fantasia, come se esistesse una corrispondenza misteriosa che fa sì che un oggetto naturale possa in qualche modo influire sulle emozioni del soggetto.
La fantasia, sempre secondo Vischer, coglie il valore simbolico della natura attraverso una sorta di “sentire dentro” o “consentire”, attraverso il quale il soggetto esprime la vita della natura come vita spirituale; senza questo atto la natura rimarrebbe inerte.
La vita spirituale della natura può poi essere colta dal soggetto attraverso il ponte di passaggio del corpo, che viene da Vischer definito come unità di natura e di fantasia. E così la capacità del soggetto di cogliere questa “risonanza” della vita della natura viene definita, dallo stesso Vischer, empatia.
Già con quest’ultima definizione siamo all’interno dello scenario della dualità tra un soggetto “monadico” e la natura.
La problematica non coglie ancora la questione fondamentale dell’intersoggetività e della conseguente modalità comunicativa fra i soggetti , ma già lo schema interpretativo è chiaro: l’empatia viene definita come funzione con compito di ricucire un’originaria indifferenziazione e prendersi carico dell’alterità, per ora della natura, ed in seguito del soggetto.
Agli inizi del secolo, e sempre in ambito culturale tedesco, avviene il passaggio dal concetto di empatia in contesto estetico alla nozione impiantata sul terreno della conoscenza e della comunicazione intersoggettiva.
A favorire questo passaggio è il filosofo Theodor Lipps.
Secondo la sua concezione l’istinto umano è portato ad imitare, a riprodurre i movimenti e gli atteggiamenti altrui.
Quando ciò avviene il soggetto “imitante” ripete non soltanto le manifestazioni esteriori, ma anche gli stati emotivi che si accompagnano alle manifestazioni.
Ripercorrendo cioè realmente o idealmente i movimenti altrui sarebbe quindi possibile “sentire” ciò che l’altro sente e proiettarci in lui, fino a diventare “uno” con l’altro.
Lipps istituisce cioè il concetto di empatia sostanzialmente su un processo innato di imitazione e proiezione, per cui ci si identifica in un altro soggetto pur conservando la propria identità separata.
Il problema di fondo, con maggior chiarezza, diventa la distanza che si è aperta tra i soggetti umani e che rende difficili le condizioni della comunicazione.
A partire da Lipps l’empatia sembra essere destinata non soltanto a ricostituire, in senso platonico, un’ipotetica unità originaria, ma anche a ridare senso e possibilità alle relazioni umane.
L’empatia da un punto di vista fenomenologico
Da un punto di vista filosofico fenomenologico, alla base dell’empatia è rintracciabile quella condizione esistenziale che è “l’essere in un mondo comune a partire dalle prime esperienze”, di natura puramente emozionale.
Secondo questa interpretazione l’uomo vive più negli altri che in se stesso, più nella collettività che come singolo individuo, ragion per cui buona parte delle componenti di fondo che sono alla base della struttura comunicativa hanno la loro radice nell’originaria capacità comprensiva, che si esprime nell’empatia.
Questo capitolo si propone una breve analisi, in ambito fenomenologico, del concetto di empatia elaborato da Edith Stein, filosofa tedesca, allieva di Edmund Husserl [1].
La Stein pone il concetto di empatia al centro della speculazione husserliana e lo definisce (e qui c’è un salto di qualità notevole, rispetto alle concezioni precedenti) come l’essenza della capacità di istituire comunicazioni intersoggettive, fino a mettersi nei panni dell’altro (condizione genetica di ogni comunicazione e, quindi, “di ogni inizio di società”) [2].
Mentre nella cultura ottocentesca la mano dei pensatori, nei confronti dell’empatia era stata, in un certo senso, “leggera”, col Novecento e con la filosofia fenomenologica husserliana, l’empatia diventa elemento fondamentale e istitutivo della genesi della socialità.
All’empatia Husserl dedicherà un’attenzione considerevole [3].
Edith Stein approfondisce ulteriormente il concetto e, attraverso una coraggiosa operazione teorica, istituisce la genesi dell’esperienza, in senso ontogenetico, nell’ambito dello sviluppo dell’empatia.
La studiosa chiama tale processo “esperire empatico” [4] e lo definisce come una sorta di prima grammatica elementare del conoscere umano: un passaggio, da parte del soggetto, dalla percezione esterna alla consapevolezza di percepire empaticamente (appercezione empatica). L’evoluzione interiore sarebbe l’introspezione mentale e spirituale.
A questo punto sorge l’eterno problema già verificatosi in età postromantica: come si armonizza questo concetto “unitario” di empatia ai modelli cognitivi duali, di derivazione cartesiana (anima e corpo, mente e cervello, mondo naturale e mondo dello spirito, res cogitans e res extensa)?
La Stein assume innanzi tutto la persona empirica come termine ultimo di ogni sintesi unitaria, attraverso cui passa anche la forma empirica più alta, che la studiosa definisce empatia spirituale (è evidente la lontananza sia dal dualismo cartesiano-kantiano, sia dall’idealismo nella sua specie classica).
La stessa autrice sostiene che “il mondo dello spirito non è meno reale né meno conoscibile del mondo naturale. Poiché l’uomo appartiene a tutti e due i regni, la storia dell’umanità li deve prendere ambedue in considerazione” [5].
La tensione tra i due poli, che potrebbe compromettere l’unità della persona empirica, può essere valorizzata attraverso atti di empatia. Quest’ultima si pone come linea di collegamento tra la vita personale e quella collettiva, posta l’unità fenomenologica della realtà.
Non soltanto questo, che già postulerebbe una figura umana concreta che si forma attraverso un continuo esperire empatico, è fondamentale nella visione della Stein, ma anche la condizione dell’empatia come possibilità di collegare l’autoreferenza originaria della coscienza (con cui il soggetto autoriflette la propria identità) con l’autoreferenza dell’altro e viceversa.
In questa ipotesi l’intersoggettività diventa l’origine del noi sociale, possibile proprio attraverso un esperire di natura empatica.
E’ questa una fondazione importante della funzione del soggetto per la filosofia del Novecento, scelta che dà un asse di base ad un’interpretazione “democratica” dell’essere sociale, contrapposta alle visioni della soggettività come impossibilità comunicativa, se non per espansione di soggetti forti (vedi Nietzsche) in senso non empatico, ma sovrappositivo (come dominio, come “dittatura”).
Anche sul piano morale è da prendere in considerazione il punto di vista della Stein, che considera la morale come comprensiva di “quei vincoli umani che sono stati interiorizzati per empatia” [6].
Prescindendo dall’analisi puntuale dello sviluppo del concetto di empatia in ambito husserliano, vorrei occupare ancora una pagina per vedere quale può essere il terreno di collegamento fra la speculazione filosofica della Stein e l’assunzione dell’empatia come condizione terapeutica in Carl Rogers.
Penso che punto fondante di questo problema sia la teoria della struttura fondamentale della relazione intersoggettiva, secondo la Stein.
Secondo la filosofa, come la coscienza è strutturalmente aperta alla realtà esterna che le è data in modo originario (e tuttavia la coscienza è irriducibile ad essa) così l’Io è aperto agli altri Io, li coglie come centro di orientamento del mondo diversi da sé, ne coglie la vita psichica, ne può empatizzare le esperienze vissute.
Però, anche nel momento della massima partecipazione ed immedesimazione, l’Io non scompare, non si fonde, appunto, con l’Io dell’altro, ma gli resta accanto, intimamente solidale, eppure diverso.
Ed è proprio il permanere della diversità che consente l’empatia, vissuta così da un Io
che rimane ben determinato. Se l’Io si annullasse, secondo la Stein, venisse cancellato o assorbisse l’altro, non ci sarebbe più l’esperienza dell’altro.
L’empatia diventa così la strada per sperimentare l’esistenza di soggetti diversi da noi, anch’essi al centro di un loro mondo circostante, e per oltrepassare la visione del nostro mondo e giungere a quella del mondo oggettivo.
La ricerca di Edith Stein si colloca nel novero degli sforzi per superare la concezione unilaterale di una realtà assoluta, così come quella di un soggetto assoluto.
L’esigenza della sua opera è quella di porre come struttura fondamentale dell’essere la relazione originaria tra il mondo e la coscienza nella sua intersoggettività, per trovare una via d’uscita teoretica alla frattura non riconciliata fra soggetto e realtà, che è problema culmine della filosofia di fine Ottocento.
Il tema dell’empatia si colloca all’interno di questi problemi, come una piccola porta attraverso la quale entra una sfida più grande e cioè prendere coscienza dell’alterità incancellabile che vi è tra soggetto e natura e soprattutto tra diversi soggetti ma, allo stesso tempo, individuare le possibilità e le condizioni di rapporto e comunicazione fra i soggetti.
Se all’ambito filosofico sostituiamo quello terapeutico, queste ultime considerazioni possono essere estese al valore relazionale dell’empatia in ambito rogersiano senza mutare di una virgola il problema, ma affrontandolo in un setting molto particolare, come quello della psicoterapia.
Rimando al prossimo numero della rivista un breve excursus sulla centralità dell’empatia nel paradigma terapeutico rogersiano.
Giovanni Lancellotti
Psicologo psicoterapeuta SCRIPT Centro Psicologia Umanistica
[1] L’analisi di quest’ambito culturale si basa soprattutto sulla lettura del libro di Edith Stein “Zum Problem der Heinfuhlung”, Buchdrukerei des Waisenhausen, Halle 1917 (in italiano: “L’empatia”, Franco Angeli, 1992).
[2] E.Stein, op.cit., pag. 79.
[3] Gran parte del secondo volume dell’opera fondamentale di Edmund Husserl (“Ideen”, 1913; traduzione italiana con lo stesso titolo, Einaudi, 1950) è dedicata a questo argomento.
[4] E. Stein, op.cit., pag. 93.
[5] E. Stein, op.cit., pag. 120.
[6] E.Stein, op.cit., pag. 148.