Manlio Iofrida [1]
L’ evento di dimensioni enormi e di carattere catastrofico del Coronavirus, un evento che è sembrato ricalcare la trama di tanta letteratura e cinematografia fantascientifica di impronta apocalittica, ha suscitato, come era da aspettarsi, anche molte discussioni filosofiche. Le prese di posizioni più importanti o, per lo meno, che più hanno suscitato polemiche e dibattito sono gli interventi, ormai numerosi, di Giorgio Agamben [2]; questi interventi possono servire da esponenti di una classe più ampia, che possiamo denominare, per usare una categoria ormai diventata di moda, “biopolitica”, in cui rientrano anche, ad esempio, gli interventi di Roberto Esposito e del suo gruppo dell’Italian Thought: l’impianto filosofico di questi ultimi è molto affine a quello di Agamben, anche se, specie sul piano politico, le conclusioni sono un po’ diverse.
Su cosa ha insistito, dunque, Giorgio Agamben? Sul fatto che la reazione dei vari Stati all’evento pandemico ha costituito una conferma dell’interpretazione apocalittica che da decenni egli viene dando della situazione politica e (verrebbe da dire) ontologica della civiltà occidentale; in quest’ultima una scorza democratica coprirebbe un nocciolo totalitario; la riduzione delle libertà a cui siamo stati di recente sottoposti non è altro che l’ennesimo avatar dello stato d’assedio che rappresenta la struttura fondamentale delle nostre società, organizzate per ridurre la ricchezza della vita umana (bios) a nuda vita (zoé).
Questo taglio di lettura ultrapolitico dell’evento Coronavirus è stato, nel dibattito, largamente dominante, anche se non sono mancate voci diverse (a livello giornalistico, ma con molta consapevolezza filosofica, Michele Serra; fra i filosofi, Rocco Ronchi; fra i sociologi, Pellizzoni e Villa [3]); mi sembra dunque importante presentare una linea di lettura filosofica diversa e distinguerò a questo scopo un serie di assi fondamentali del discorso.
Lo statuto della natura
A un primo livello, il virus rappresenta in modo concreto il limite: ricorda che il dominio compiuto delle forze naturali e la famosa tecnologizzazione integrale del mondo, su cui tanta parte del nostro immaginario filosofico e politico risulta ancora incardinata, sono un mito. Abbiamo avuto la dimostrazione tangibile che, certo, noi riusciamo a controllare molto meglio che in passato molti eventi naturali, ma che questo controllo è parziale e che la natura ha ancora una sua autonomia. Ma in cosa consiste questa autonomia? È bene allora passare a discutere un secondo livello del discorso e domandarci: che natura è questa di cui parliamo? Che statuto ha? Non è un biologico puro, ha certamente anche una dimensione biopolitica, nel senso che è anche la conseguenza di scelte storiche: il disastro ecologico, gli allevamenti animali, la velocità degli scambi hanno concorso nello scatenare la pandemia. Quindi, non parliamo di natura pura; ma nemmeno di storia pura: quello che ci si è presentato davanti è l’altro, l’elemento di alterità e irriducibilità, di non costruibilità (nei termini in cui ne parlava il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty e su cui mi soffermerò più sotto). Potremmo dire, per chiudere con una formula approssimativa, ma che mi sembra efficace, su una questione troppo complessa per essere approfondita qui, che la natura non si riduce alla storia, ma si mostra sempre nelle maglie della storia e in rapporto ad essa.
Il problema dello statuto della scienza e le contraddizioni di scienziati e tecnici
Qui si vede, mi pare, la piena attualità della lezione di Merleau-Ponty, Foucault e Canguilhem a proposito dello statuto della verità scientifica. Abbiamo visto, dopo una prima esaltazione acritica degli scienziati (nel senso della quale qualche voce isolata ancora si leva), una situazione molto più mossa e contraddittoria: la maggior parte degli scienziati e degli “esperti” continuano a invitare alla prudenza, gli agenti economici mordono invece ormai il freno e sono chiaramente insofferenti dei limiti imposti dai “tecnici”: in mezzo, i politici oscillano. Tutta questa situazione è, come dicevo prima, un esempio abbastanza parlante di quanto Canguilhem e Foucault hanno detto rispetto al rapporto fra verità e discorso [4]: la verità scientifica è uno strumento prezioso e irrinunciabile, ma è una verità, che deve inserirsi fra molti altri punti di vista e che viene interpretata, piegata, spesso strumentalizzata socialmente. In quasi nessun caso è possibile, da un risultato scientifico, dedurre una scelta (individuale e tanto meno collettiva) univoca; l’enunciato scientifico deve sempre comporsi con molti altri enunciati diversi (filosofici, politici, sociologici, economici) e questa composizione deve (o meglio dovrebbe) essere frutto di un dibattito pubblico il più largo e democratico possibile. Una cosa, comunque, dopo la vicenda Coronavirus, si può dire con sufficiente certezza: l’emarginazione della filosofia dal dibattito, l’idea che “ormai è la scienza, o le varie scienze che stabiliscono cosa è vero e falso”, oltre che essere erronea, è pericolosa; la funzione della filosofia come titolare dell’indagine critica, ma anche come luogo di raccordo e composizione delle varie “verità” disciplinari ne dovrebbe (condizionale di pio desiderio: sono abbastanza certo che non sarà così…) uscire rafforzata.
Lo statuto della storia
Dal Lago, in un suo bell’articolo [5] ha detto: “Ma per la prima volta nella storia (a parte la crisi ecologica) l’umanità deve affrontare un rischio comune, e come tale percepito, anche se declinato nelle forme e nei condizionamenti sociali e politici più vari.” È un po’ esagerato. Intanto, per ora, non si è trattato dell’umanità intera, ma di un’umanità a macchie (4 miliardi su 7). Poi, non è proprio la prima volta: ci sono state due guerre mondiali, a cui è seguito, specie dopo la seconda, il costituirsi di una serie di istituti sovranazionali, nella direzione di quello che Occhetto chiamò una volta il “governo mondiale”. Qui bisognerebbe riflettere sul concetto di storia universale e su quello di globalizzazione e ricordarsi che non sono fenomeni recenti: entrambi cominciano con la fine del Settecento e con lo sviluppo del capitalismo; è quando comincia lo sfruttamento su larga scala della natura che nascono insieme i concetti di natura e di storia. Il problema ecologico nasce col capitalismo, anche in senso epistemologico, conoscitivo.
E comunque, se dobbiamo parlare di storicità, parliamo anche di quello che ha detto Lucio Caracciolo in un suo interessante editoriale [6]: questa crisi dimostra che c’è un nuovo rapporto storico con la vita, che il neoliberismo occultava, ma che in fondo ha contribuito a generare: nelle società avanzate non si è più guerrieri, non si vuol morire, e il potere è costretto a tenerne conto; l’individualismo e il consumismo, il materialismo e l’edonismo fanno sì che ora non si possa dire che, in nome dell’economia, si deve morire; si è dovuto dire: prima la vita, poi l’economia! Ora è già cominciata una fase in cui quest’ultima è ridiventata centrale, ma rimarremo sempre in una situazione in cui il governo e i singoli si troveranno confrontati con l’alternativa fra economia e vita, salute. Quel che è certo è che qui si apre una forte contraddizione fra questa crisi e il liberismo: non sarà facile cambiare le ricette liberiste, ma nemmeno riproporre pari pari il liberismo di prima. Una nota sulle tesi di Agamben: questa crisi dimostra in realtà il contrario di quello che egli sostiene, poiché mette in luce l’estrema fragilità del potere e della società liberiste; viene da dire: altro che potere di eccezione! I politici sono disorientati perché, in un mondo in cui quel che contano sono i piaceri, il consumo, le vacanze, ecc., per poter vendere tutte queste cose bisogna innanzitutto garantire ai cittadini la vita. È proprio il capitalismo neoliberale che ci ha resi così paurosi, così incapaci di sopportare la malattia e il limite, ora come se la caverà?
Qualche divagazione geopolitica e qualche riflessione sul capitalismo neoliberale
Faccio seguire a questo un po’ di considerazioni più empiriche, diciamo storico-giornalistiche, ma anche geopolitiche e schiettamente politiche.
Innanzitutto, sul fatto che, d’improvviso, la crisi del Corona ha fatto diventare tutti keynesiani: giornali, giornalisti, politici fanno a gara per rivalutare e osannare la sanità pubblica, di Stato, ecc., come se negli ultimi trent’anni proprio questi stessi personaggi non avessero attivamente collaborato a distruggere il keynesismo! Comunque, prendiamo atto di questa ulteriore contraddizione: tutti dicono che ci vuole la sanità pubblica, quindi il welfare, e, per questo lato, il liberismo sembra crollare; sembra anche messo fortemente in discussione il privilegio della finanza sulla produzione – tutti hanno d’improvviso riscoperto l’economia reale ed è anche questo un bell’effetto filosofico: dopo l’ubriacatura per l’immateriale e la produzione ridotta al suo aspetto puramente intellettuale, abbiamo rimesso i piedi per terra e ci rendiamo conto che l’economia su cui si basa tutto è quella reale. Ma ci domandiamo: tutte queste prese di posizione porteranno a qualche effetto? Quali sono le proposte concrete per ridare peso all’economia reale e per limitare il potere della finanza? (A giudicare dall’atmosfera già assai diversa della fase 2, il ritorno ai comportamenti e ai quadri teorici del periodo pre-epidemia sembra assai rapido e temiamo che nessuna traccia rimarrà di quanto era stato detto nel periodo più buio del confinamento).
Al di là di là di questo la domanda è: possono tornare per tutti il welfare e il keynesismo? Con la crisi ecologica evidentemente no, e qui si apre il gran rimosso di tutta questa situazione: tutti stanno toccando con mano che il modello neoliberale è insostenibile per cause sanitarie, che finalizzare la vita al consumo è assurdo, ma che la società dei consumi è arrivata al suo ultimo atto lo dice, a livello di movimenti di massa, solo Greta Thünberg con i suoi Fridays for Future. Con la ripresa già si intravede che il problema sarà di riavviare l’economia costi quel che costi e che i vincoli ecologici saranno visti come fumo negli occhi peggio di prima (le discussioni di queste ultime settimane, specie quella sul nuovo decreto, sembrano confermarlo). Come portare avanti un discorso ecologico veramente non si capisce, anche se questa crisi ha offerto ad esso ulteriori conferme. Ma sarebbe anche da dire: come il discorso ecologico, per aver gambe politiche, può articolarsi con quello delle disuguaglianze, all’interno dei paesi e fra i vari paesi? In questo momento storico il nesso fra questione ambientale e questione di classe, per usare questo vecchio termine, pare proprio il nodo più importante: voglio dire che appare evidente il nesso fra una nuova, possibile, cooperazione fra gli uomini e una nuova, altrettanto possibile e auspicabile, cooperazione con la natura. È per riflettere un po’ meglio su questo complesso intreccio di problemi che mi sembra opportuno, a questo punto, aprire una parentesi di riflessione storica e filosofica meno legata alle contingenze attuali, in modo da inserire il nostro presente in una prospettiva lunga, che ci permetta di orientarci meglio in esso.
Un approfondimento storico-filosofico: Maurice Merleau-Ponty, la freccia e il circolo
Comincerò raccontando un po’ di storia – perché dobbiamo tornare alla storia non meno che alla natura, a mio parere, e spero che dal seguito si capirà perché.
Quindi, propongo un primo salto all’indietro, al 1989; con la caduta del Muro, è noto, finì un’epoca durata settant’anni, quella in cui il mondo capitalistico aveva di fronte un suo “altro” e questo “altro”, sebbene criticabilissimo da tanti punti di vista, in primis da quello dei diritti umani, permetteva a chi stava al di qua della Cortina di Ferro di pensare che il capitalismo non era una necessità storica, un fenomeno naturale, ma una possibilità storica fra altre che erano costruibili e disponibili. Da allora, avemmo il dominio di una potenza unica, di una razionalità unica e assolutamente indiscutibile. Due sono i libri che hanno segnato quest’epoca e che, in forma estrema, ma chiara, ne hanno delineato i contorni: La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama [7] e La condizione postmoderna di Jean-François Lyotard; [8] il primo dichiarava, riprendendo la lezione di (un certo) Hegel, che la ragione era ormai del tutto dispiegata nel mondo ed aveva assunto le forme e le vesti della democrazia liberale statunitense; il secondo affermava che la modernità, con le sue prospettive emancipative, era finita, perché la struttura del capitalismo era del tutto mutata: la produzione di merci materiali sarebbe stata rapidamente sostituita da quella dei linguaggi e delle merci informatiche, il lavoro materiale stava scomparendo, sostituito dal lavoro computerizzato e intellettuale, il mondo intero era ormai ridotto a linguaggio e questo era il nuovo terreno su cui doveva confrontarsi la sinistra. Fu su queste basi che emerse, fra Stati Uniti e Inghilterra, la prospettiva della “terza via”, teorizzata da Giddens e messa in pratica da Blair e da Clinton, prospettiva che liquidava il keynesismo e la socialdemocrazia classica e che allineava al neoliberismo anche i partiti tradizionali della sinistra.
Faccio subito notare che l’ecologia, la terra, il corpo non esistevano in queste prospettive.
Qualcuno obietterà: ma oggi infatti nessuno parla più ( a parte qualche accademico) – e ben prima dell’evento della pandemia – di fine della storia e di postmoderno: è vero, risponderei, ma alcuni dei presupposti di quelle concezioni – il predominio assoluto del linguaggio, la secondarietà del corpo, l’ oblio del fatto che viviamo in un contesto naturale che dobbiamo rispettare, l’idea che si possa fare a meno del lavoro – continuano in realtà a determinare l’impostazione del dibattito politico e filosofico. Certamente, anche gli anni Ottanta e Novanta non erano stati così lineari e univoci come potrebbe sembrare dalla sintesi troppo stringata che ne ho dato: nel 1986 c’era già stato l’incidente della centrale di Chernobyl; dopo il 2000, è arrivata alla coscienza di tutti la crisi ecologica, il riscaldamento globale si è fatto sempre più minaccioso, e poi abbiamo avuto la crisi economica del 2008, seguita, pochi anni dopo, dalla catastrofe di Fukushima (2011). La situazione storica è dunque completamente mutata e la pandemia odierna è certo un evento di eccezionale gravità, ma si allinea a quei precedenti, nel dimostrare il carattere del tutto ideologico delle visioni postmoderne e facendo vedere che la natura non è affatto scomparsa: un virus, qualcosa che appartiene al mondo della vita, è stato in grado di fermare letteralmente la storia e la civiltà.
Al nostro tempo si adatta molto di più la parola d’ordine di un filosofo come Bruno Latour, che, già nel 2017, ha sollecitato la politica a atterrare [9], volendo significare che terra ed ecologia sono diventati il primo punto dell’agenda politica.
È qui che vorrei inserire il riferimento al pensiero di Maurice Merleau-Ponty, il filosofo che, a mio parere, è più attuale oggi, nelle due crisi, ecologica e pandemica, che stiamo vivendo congiuntamente [10].
E allora, faccio un secondo salto all’indietro, a sessant’anni fa e più, a quando, fra il 1956 e il 1960, Merleau-Ponty cominciò a tenere i suoi corsi sulla natura; erano anni caratterizzati da una situazione storica contraddittoria. Per un lato ci trovavamo nel cuore dei cosiddetti Trenta Gloriosi, culmine del processo di industrializzazione e mondializzazione cominciato, in Inghilterra, nel XVIII secolo, era l’epoca dell’energia atomica impiegata a scopi civili e pensata come grande soluzione dei problemi energetici posti dal nuovo grande decollo industriale; l’immaginario era dominato dallo Sputnik, da Gagarin e dalla corsa per lo spazio, che gli americani avrebbero vinto nel 1969, conquistando la Luna; vivevamo il mito dell’automobile, simbolo della società dei consumi, che per la prima volta estendeva il benessere e il tempo libero a vasti strati della popolazione. In questo quadro di enorme sviluppo economico e anche di speranze che sconfinavano nelle illusioni, l’URSS faceva ormai a gara a diventare a sua volta una società dei consumi, sullo stesso terreno degli USA: era la prospettiva della convergenza dei due sistemi nel quadro della coesistenza pacifica. Ma questa era anche l’epoca della riduzione a zero dei problemi ecologici, dei danni più grandi inflitti all’ambiente, anche se a livello di coscienza e di studi l’ecologia fece alcuni primi grandi passi.
E comunque c’erano, oltre a quella ambientale, anche molte altre contraddizioni: disuguaglianze che permanevano all’interno dei paesi e si allargavano fra di essi, conflitti di classe, ma soprattutto si delineava la crisi definitiva del colonialismo e arrivavano all’ indipendenza molti, nuovi paesi non occidentali, quelli africani in testa.
In questo quadro, era l’Europa a essere soprattutto è in crisi: nel 1956 ci fu la crisi di Suez, colpo definitivo al colonialismo francese e inglese; era in pieno svolgimento la guerra di Algeria, che avrebbe dilaniato per molti anni la Francia. Il tramonto degli imperi coloniali europei si aggiungeva alla nuova situazione geopolitica delineatasi con la fine della seconda guerra mondiale nel determinare la definitiva perdita di centralità dell’ Europa; ma da questo tramonto emergeva anche una specie di terza via fra capitalismo e comunismo, fra Usa e URSS: si chiamò allora il blocco del Terzo Mondo ed ebbe una certa importanza nel costituire lo sfondo storico dell’epoca, nell’aprire prospettive nuove, anche dal punto di vista del rapporto uomo-natura. Infine, dobbiamo ricordare che in quel ’56 anche il comunismo era in grande difficoltà, poiché l’insurrezione ungherese, repressa nel sangue dai carri armati di Krushev, determinò una crisi del blocco sovietico che, alla lunga, si rivelò irreversibile.
Ebbene, è in questo quadro che Merleau-Ponty lancia la sua parola d’ordine “Bisogna atterrare” sessant’anni prima di Latour e con molta più profondità filosofica e politica [11]. Nella prospettiva di Merleau-Ponty il comunismo non è che un’altra versione del rapporto prometeico con la natura che è cominciato col capitalismo a fine ‘700; il problema dell’uguaglianza fra gli uomini rimane fondamentale, ma non è disgiungibile da quello, ancora più fondamentale, del partenariato, della pari dignità fra l’uomo, gli animali (importante tema odierno di cui Merleau-Ponty era già consapevole) e l’ambiente, la Terra; una nuova politica deve dunque far perno sui concetti di natura, Terra e corpo.
Alla fine degli anni cinquanta, come ho detto prima, stava già cominciando il boom e la posizione di Merleau-Ponty rimase molto isolata; oggi, in piena crisi ecologica, appare molto attuale. Ma lo è soprattutto per la qualità dei concetti che propone, cioé per gli specifici concetti di natura e corpo che egli elabora e anche per il significato che dà alla crisi del colonialismo – anche questo è molto attuale. Cercherò adesso di spiegare meglio tutto questo.
Il concetto di natura
Oggi tutti parlano di natura e ecologia, ma in modo confuso; o l’ecologia viene ridotta semplicemente a un elemento secondario nell’ambito di un modello che continua a dare il primato alla produzione e al profitto; oppure si parla di natura e ecologia come recupero di una natura originaria, mitica, pura – non è solo nell’ambientalismo fondamentalista o estremista che si trova questo equivoco. L’importanza del concetto di natura di cui parlava Merleau-Ponty risiede proprio in questo: esso permette di far uscire da questi equivoci, e innanzitutto da quello di una natura originaria. La natura di cui egli parla è limite, resto, terrestrità, radicamento; significa cioè che non possiamo illuderci che possiamo costruire tutto, che l’uomo possa rifare tutto dal nulla; esiste un fondo che dobbiamo rispettare, ma non si tratta di rinunciare ad essere attivi, a costruire, si tratta piuttosto di costruire altrimenti, in un modo che conservi i presupposti della nostra vita, cioè l’ambiente entro cui viviamo – che può e deve essere trasformato, ma a certe condizioni, entro certi limiti. Qui la lezione di Merleau-Ponty si sposa con quella di Gregory Bateson, che, in alcune opere di grandissimo rilievo sia scientifico che filosofico [12], ha proposto l’idea che alla freccia, cioè alla razionalità lineare, alla ragione strumentale tipicamente occidentale, dobbiamo affiancare il circolo [13], una razionalità circolare, fondata sul feedback, sistemica: poiché la vita, l’essere vivente, come ci insegnano le scienze biologiche e la migliore filosofia del XX secolo, non si spiegano con il determinismo della causa e dell’effetto univoci e lineari, ma sono altrettanto autoriferimento, retroazione, feedback, rapporto circolare e di rinvio reciproco fra essere vivente e ambiente. La natura, in questa prospettiva non è altro che un insieme di presupposti ambientali in cui ci dobbiamo inserire attivamente, in cui dobbiamo agire; che è come dire: non si tratta di negare l’industria, si tratta di farne una differente.
Tecnica e corpo
La crisi ecologica in cui ci troviamo immersi dovrebbero convincerci dell’illusorietà della prospettiva postmoderna e della sua unilaterale fiducia nella tecnologia: non è vero che i telefonini e i computer e i robot possano sostituire la vita. Anche la nostra esperienza ultima di confinamento, in cui i mezzi tecnologici si sono rivelati così importanti, va valutata attentamente: i nostri contatti via Skype, certo, ci hanno salvato, ma solo per farci sentire quanto ci mancano i contatti veri, corporei. Più in generale: non è vero che il lavoro come contatto reale con gli altri e con la materia possa finire e, anche sul piano fattuale, non è nemmeno finito [14]; in quanto esseri viventi la nostra stessa vita è una continua elaborazione dell’ambiente, è lavoro. La tecnica, se correttamente impiegata e pensata, non è una negazione dell’idea di limite, ne è anzi un’elaborazione. A questo proposito voglio riportare un passo di Merleau-Ponty a proposito del rapporto che un suonatore di organo ha con il suo strumento:
È noto che uno strumentista esperto è capace di servirsi di un organo che non conosce e che ha le tastiere più o meno numerose e i registri disposti diversamente rispetto a quelli del suo strumento abituale. Gli basta un’ora di lavoro per essere in grado di eseguire il suo programma […] durante la breve prova che precede il concerto, egli non si comporta come chi vuole tracciare un piano [corsivo mio]. Prende posto sul sedile, aziona i pedali, alza o abbassa i registri, misura lo strumento con il suo corpo, assimila le direzioni e le dimensioni, si installa nell’organo come ci si installa in una casa [corsivo mio]. [15]
Un passo che ci ricorda che arte e lavoro non sono disgiungibili e che, se il lavoro deve avere una componente estetica, l’arte a sua volta è lavoro come elaborazione del reale.
Quindi, se correttamente intesa, la tecnica non è affatto distruttiva rispetto all’ambiente: è uno dei modi per inserirsi in esso, rispettando l’esigenza di conservarne gli equilibri fondamentali. Detto altrimenti: la Terra non può e non deve essere ridotta ad artificio, non può e non deve essere integralmente tecnologizzata [16].
Ma da questo ne consegue anche l’arretratezza di tutti i programmi politici della sinistra [17], che tutt’al più ripropongono il keynesismo, tanto rilanciato dal Coronavirus (soprattutto a parole, per ora): oggi non sono riproponibili lo sviluppo illimitato né il progresso, a cui il keynesismo era così strettamente intrecciato; caso mai, il modello da proporre è quello in cui freccia e circolo convivono. Da esso potrebbe nascere un nuovo patto con la Terra, che sarebbe comunque un patto tecnologico, poiché, come ho appena cercato di spiegare, la tecnologia non è necessariamente nemica della natura.
Infine avevamo visto che, sul cadere degli anni Cinquanta, era emerso il blocco delle nazioni del Terzo Mondo: anche su questo la nostra situazione attuale risuona con quella dei primi anni sessanta. Negli ultimi anni, al dominio della potenza unica americana si è andata sostituendo una situazione più complessa, che vede crescere in importanza diverse altre potenze, molte delle quali non occidentali – in primis la Cina, e poi la Russia, l’India, l’Iran, le realtà latino-americane; recentissimamente, si è riaperto addirittura uno scenario di guerra fredda fra due superpotenze, gli Usa e la Cina. Ma la situazione sembra piuttosto caratterizzata da dispersione e pluralità e dal risorgere correlativo dell’imperialismo e di un nuovo colonialismo: basti pensare a quel che sta accadendo in Libia e in Siria, all’attivismo della Cina in Africa, alle lotte, sui più diversi scenari del mondo, per accaparrarsi le materie prime.
Ma, come sempre, il colonialismo, il rapporto con popoli non occidentali, è motivo anche di nuovi confronti, di possibilità di criticare il modello occidentale, di contrapporre, alla violenza imperialistica e coloniale, un’altra strada. Come negli anni Sessanta, anche nei nostri anni l’antropologia più avvertita sta percorrendo questa strada: basti pensare alla grande opera di Philippe Descola, Oltre natura e cultura [18], che fa vedere come la relazione dell’uomo occidentale con la natura e il concetto stesso di natura sono assai relativi e che molteplici altri modelli esistono nel mondo. Sulla linea dell’impostazione di Merleau-Ponty, l’opera di Descola dimostra che, ispirandosi alle culture altre, l’Occidente potrebbe creare un nuovo modo di coabitare con la natura, una nuova civiltà in cui il rispetto dell’ambiente, del mondo animale e di tutto ciò che non è umano, siano prioritari rispetto alla ricerca unilaterale dell’utile e del profitto.
In questa visione, la questione dell’uguaglianza – un principio irrinunciabile della modernità che è un tesoro che l’Occidente ha saputo mettere a punto – rimarrebbe fondamentale, ma non sarebbe l’unico argomento dell’agenda politica: essa si configurerebbe solo come un aspetto di un problema più complessivo; il principio della reciprocità non dovrebbe valere solo fra gli umani, il dominio dell’uomo sull’uomo non potrebbe essere revocato o reso meno gravoso se non si revocasse anche il dominio sulla terra (e sugli animali); l’uguaglianza andrebbe vista insomma come una relazione triadica, uomo-uomo/uomo-Terra e queste due relazioni non dovrebbero essere pensate come disgiungibili.
NOTE
[1] Manlio Iofrida, docente presso l’Università di Bologna, si occupa di filosofia contemporanea, specialmente francese, con particolare riferimento ad autori come Merleau-Ponty, Foucault e Derrida. Da alcuni anni la sua ricerca si è orientata verso i temi della natura e dell’ecologia, su cui ha pubblicato di recente il volume Per un paradigma del corpo. Una rifondazione filosofica dell’ecologia (Macerata, Quodlibet, 2019).
[2] Li si possono leggere nella rubrica che l’autore tiene sul sito della casa editrice Quodlibet (https://www.quodlibet.it/una-voce-giorgio-agamben).
[3] Michele Serra, Impariamo dalla paura e cambiamo vita, in “La Repubblica”, 13 Marzo 2020; Rocco Ronchi, Le virtù del virus, in “Doppiozero”, rivista on-line, 8 Marzo 2020 (https://www.doppiozero.com/materiali/le-virtu-del-virus); Luigi Pellizzoni, La sfida del Covid-19 alle scienze umane. Alcune piste di riflessione, in “Le parole e le cose”, rivista on-line, 3 Aprile 2020 (http://www.leparoleelecose.it/?p=38050); Matteo Villa, Dire, fare, pensare qualcosa di diverso: il Coronavirus come crisi ecologica, in “Scienza & Pace Magazine”, rivista on-line del CISP (Università di Pisa), 7 Aprile 2020 (http://magazine.cisp.unipi.it/dire-fare-pensare-qualcosa-di-diverso/).
[4] Per cui si veda, fra i molti testi che si potrebbero citare, M. Foucault, L’ordine del discorso, tr. it. Einaudi, Torino, 1972.
[5] Alessandro Dal Lago, Dal virus non nascerà il comunismo ma l’umanità vive un rischio comune, in “Il Manifesto”, 21 Aprile 2020.
[6] Lucio Caracciolo, L’ora più chiara, in “Limes”, n. 3, 2020, p. 7 e sgg.
[7] tr. it. Rizzoli, Milano, 1992.
[8] tr. it. Feltrinelli, Milano, 1981.
[9] B. Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2018.
[10] Su tutti questi temi, e sulla necessità di mettere a punto un paradigma ecologico per pensare la nostra situazione storica attuale, mi permetto di rinviare a M. Iofrida, Per una paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, Quodlibet, Macerata, 2019.
[11] In proposito cfr. soprattutto M. Merleau-Ponty, La natura, tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.
[12] Cfr. soprattutto G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, tr. it. Adelphi, Milano, 1980 e Id., Mente e natura, tr, it. Adelphi, Milano, 1984.
[13] Alla lettera questa metafora, che corrisponde anche alla sostanza del pensiero di Gregory Bateson, è oggetto di un classico libro di uno dei massimi studiosi dell’evoluzionismo del Novecento, Stephen Jay Gould, di cui cfr. La freccia del tempo, il ciclo del tempo. Mito e metafora nella scoperta del tempo geologico, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1989.
[14] Dato che, come è noto, la produzione materiale è assai diminuita nei paesi avanzati non perché sia scomparsa, ma perché è stata delocalizzata, specialmente in Cina.
[15] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 202.
[16] Prima di Merleau-Ponty, questo tema è stato, come si sa, di Husserl; su di esso, e su molti altri concetti filosofici che ho toccato, cfr. il libro recente di Prisca Amoroso, Pensiero terrestre e spazio di gioco. L’orizzonte ecologico dell’esperienza a partire da Merleau-Ponty, Mimesis, Milano, 2019, che è ricco di spunti originali.
[17] Fatta esclusione per alcune formazioni verdi europee – non per i verdi italiani, che non sembrano ancora essersi rimessi dalla loro lunga crisi storica.
[18] tr. it. Seid Editori, Firenze, 2014.