Originariamente pubblicato su Il Manifesto quotidiano. Mercoledì 31 marzo 2004.

Ci sono voluti ventisette anni, ma alla fine la giustizia è arrivata. Poca e tardiva. Ma l’impunità è finita. Ieri (il 30 marzo 2004) un tribunale federale di La Plata, città sul fiume omonimo, ad una cinquantina di chilometri da Buenos Aires, ha condannato a sette anni di carcere due dei criminali che la dittatura militare che, fra il ’76 e l’83 affogò l’Argentina nel sangue di trentamila desaparecidos.

Miguel Osvaldo Etchecolatz e Jorge Bergés sono stati riconosciuti colpevoli per il “furto” della bambina appena nata in uno dei lager clandestini in cui i generali detennero, torturarono e fecero sparire decine di migliaia di “sovversivi”. Era la figlia di uruguayani (l’Operazione Condor non conosceva i confini di nessun paese del Cono Sud in quegli anni): Aida Sanz e Eduardo Gallo, desaparecidos. “La sentenza è meno dura di quello che speravamo, ma l’importante è che si sia arrivati ad una condanna”, ha commentato Maria Ester Alonso, l’avvocato delle Nonne della Piazza di Maggio che, con la loro implacabile ostinazione sono riuscite a ritrovare la ragazza, convincerla a sottoporsi alla prova del Dna (le Abuelas hanno messo insieme, in questi ventotto anni di lotta, una banca genetica), ridarle il suo nome e la sua identità, strapparla ai genitori fasulli cui i due imputati l’avevano regalata. Carmen Gallo Sanz ha oggi ventisette anni e non deve più chiamarsi Maria de las Mercedes Fernandez.

Finalmente. È la prima volta che due criminali della dittatura sono stati condannati per il reato di soppressione dell’identità di un figlio di desaparecidos senza essere stati diretti beneficiari di quell’osceno furto. Il furto di bambini, anche prima che il presidente Kirchner obbligassi il Congresso a proclamare la nullità definitiva delle leggi di impunità, era stato lo strumento per cercare di portare i macellai in divisa davanti ai giudici, in quanto specie di reato che si erano “dimenticati” di inserire nelle varie leggi di amnistia e indulto.

Fu Bergés, un dottor Mengele argentino che, come medico della Polizia Boarense, assisteva alle torture per dire quando bisognava interrompere onde evitare che il torturato morisse subito, a firmare il falso atto di nascita di Carmen, come l’aveva chiamata la madre prima di scomparire nel nulla, e poi a consegnarla di persona ai signori Fernandez. Fu Etchecolatz, come capo della sezione investigativa di quella polizia, a rendersi responsabile dei crimini che furono commessi dentro i lager clandestini della provincia di Buenos Aires, fra cui el Pozo de Banfield, dove Carmen vide la luce.

Aida Sanz fu sequestrata mentre era incinta di nove mesi, il 23 dicembre del ’77. Quattro giorni più tardi nacque la bimba. Un parto provocato dalle torture cui era sottoposta la madre. Tre anni fa Maria de las Mercedes scoprì di essere Carmen.

Una storia di ordinario orrore nell’Argentina di quegli anni. Sono ancora fra i quattrocento e i cinquecento i bambini rubati alle loro madri desaparecidas e poi regalati o venduti. Finora le Nonne sono riuscite a trovarne settantadue. A volte lo choc è tanto grande che alcuni di loro, pur scoprendo di essere “altri” rispetto a chi credevano di essere e di avere chiamato “papà” e “mamma” qualcuno responsabile diretto della morte sotto tortura dei loro genitori veri, preferiscono restare con i genitori fasulli e colpevoli (e in quei casi le straordinarie Nonne rispettano la loro decisione e accettano la realtà).

Nelle loro ultime dichiarazioni, prima della sentenza, il Commissario Etchecolatz ha rivendicato ancora una volta “la lotta contro i sovversivi” in quello che i generali chiamavano “il Processo di Riorganizzazione Nazionale”; il dottor Morte Bergés ha provato a difendersi dicendo di essere già stato processato e assolto nell’86. In realtà entrambi furono condannati quell’anno ma, come tanti altri genocidi, tornarono subito liberi e impuniti grazie all’oscena Ley de la obediencia debida, promulgata, insieme all’altro obbrobrio etico-giuridico del Punto final, dal presidente radicale Raul Alfonsin.

La sentenza del tribunale di La Plata è stata accolta dalle grida di giubilo e dalle lacrime delle Madri e delle Nonne presenti in aula. Che speravano in una condanna più dura, ma “il precedente è importante”.

Ai due mascalzoni non è andata tanto male, in fin dei conti. Arrestati per il caso di Carmen Gallo Sanz nel 2001, potrebbero uscire già in dicembre. Ma il commissario dovrà restar recluso agli arresti domiciliari nella sua casa di Mar del Plata, dal momento che è sotto processo anche per altre malefatte. E sul dottore non incombono processi in corso, ma sì una lunga sfilza di denunce che potrebbero garantirgli un bel po’ d’anni di galera.

La sentenza di condanna di La Plata viene una settimana dopo il 24 marzo, ventottesimo anniversario del golpe militare del 24 marzo ’76. Il presidente Kirchner l’ha voluto ricordare con un gesto di grandissimo significato politico e simbolico, in un’Argentina in cui la ferita inferta dalla selvaggia repressione degli anni ’76-’83 non si è mai cicatrizzata. Quel giorno Kirchner è andato all’Esma, la Scuola meccanica della Marina, e al Colegio Militar. Il bianco edificio, che sorge nella Avenida Libertador, fra il Rio de la Plata e lo stadio del River Plate (dove nel ’78, nel silenzio complice e indifferente del mondo esterno, l’Argentina vinse i mondiali di calcio), è divenuto il simbolo di quelle atrocità. La “Auschwitz argentina”, attraverso cui passarono migliaia di “sovversivi”. Uomini come Eduardo Gallo, donne come Aida Sanz, bambini come Carmen, torturati, caricati sui voli della morte che poi li scaricavano – ancor vivi – nelle acque del fiume e dell’oceano, uccisi. Desaparecidos.

In nome della “riconciliazione nazionale” il primo presidente dopo il “ritorno della democrazia”, il radicale Alfonsin, pensò di chiudere i conti con il passato, mandando sotto processo e condannando i nove generali delle tre successive giunte militari, ma cedette poi di fronte alle rivolte militari dei carapintadas e, nell’86-’87, partorì quei mostri della Obediencia debida e del Punto final, che garantirono ancora una volta l’impunità agli assassini. Poi ci pensò il peronista Carlos Menem, appena eletto presidente, a completare l’opera: sempre in nome della “riconciliazione nazionale” (e del liberismo più sfrenato e corrotto), nell’89 regalò l’indulto anche ai generali appena condannati e propose di radere al suolo l’Esma. Come se questo potesse cancellare la memoria degli orrori.

Il 24 marzo scorso Kirchmer è andato all’Esma, accompagnato dai sopravvissuti di quell’inferno e dalle Madres, dalle Abuelas, dagli Hijos, i figli dei desparecidos. C’è andato non per raderla al suolo, come voleva Menem, né per mantenerla come “scuola” per i futuri ufficiali, secondo i desideri della Marina. Ma per farne un Museo della Memoria. “Come presidente vengo a chiedere perdono per lo Stato argentino, che in questi vent’anni di democrazia è rimasto zitto. Non è il rancore né l’odio che ci muove. È la giustizia e la lotta contro l’impunità”. Parole forti e chiare non soltanto contro i macellai in divisa che scatenarono la “guerra antisovversiva” in nome “dell’Occidente cristiano”, ma anche contro l’imbelle Alfonsin (che infatti si è risentito) e molti dei suoi stessi compagni del Partito peronista (che furono complici sia della repressione sia dell’impunità).

Prima dell’Esma Kirchner era passato per il Collegio militare dell’Esercito dove, alla presenza di tutti i generali aveva obbligato il comandante in capo, generale Roberto Bendini, a togliere con le sue mani dalle pareti del Patio de Honor, i ritratti di Videla e Bignone, primo e ultimo capo delle giunte militari. Una umiliante degradazione sul campo. In nome di alcune parole che erano risuonate per tutti questi anni: “Nunca mas“, “Ni olvido, ni perdon“. Invano, finora.

Maurizio Matteuzzi

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