Prefazione

Nei casi di Frank e di Anna, riportati da Alberto Lorenzini e Mariangela Bucci Bosco, viene evidenziato, nel corso della terapia, l’importanza del percorso della memoria. Basta ricordare che Aldo Carotenuto intitolava La nostalgia della memoria (il paziente e l’analista) Bompiani, 1988, un appassionato libro che raccontava il percorso della pscicoterapia, col focus rivolto al rapporto terapeuta-paziente.
Recupero della memoria di sé, ma non operazione puramente meccanica, bensì trasformativa, attraverso il cui processo i daimones escono dalla camera magmatica dell’Es, le Erinni si trasformano in Eumenidi e la sofferenza assume faticosamente il carattere della pietas e della comunione con gli altri esseri umani.
Nello spirito de “I modi del fare” i due contributi percorrono, in sintesi e puntualità, il cammino di due persone che hanno reinterpretato la loro memoria nel corso del processo psicoterapeutico.

“Lo scandalo della crisi e il fantasma della memoria di sé”

Alberto Lorenzini

Nello studio dello psicoterapeuta bisognerebbe appendere la seguente massima: non tutto il male viene per nuocere. Infatti, quando una persona viene in terapia, c’è sempre una crisi che ha fatto precipitare le cose e l’ha convinta ad affrontare il disagio che, magari da tanto tempo, la opprimeva e rende la sua vita peggiore di quello che meriterebbe di essere. C’è la crisi negli studi, la crisi lavorativa, la crisi esistenziale, la crisi di coppia… c’è crisi psicologica ogni volta che potremmo adattarci all’andazzo delle cose, ma troviamo angosciosamente intollerabile farlo e in quel momento ci accorgiamo che esiste un mondo interno dentro di noi che non è d’accordo, non dà il placet, anzi si pone come ostacolo insormontabile e tutta la situazione, vista dall’esterno, sembra una complicazione incomprensibile, un’isteria, una follia: “cosa ti metti a fare, adesso che va tutto bene; hai un bel lavoro, una fidanzata, una macchina nuova… cosa ti manca?” Ma chi si trova in questa poco invidiabile situazione oscuramente sa che, pur avendo tutto o quasi tutto, l’unica cosa che veramente gli manca è quella essenziale. Manca il senso di essere davvero se stessi o, per lo meno, di stare andando nella direzione giusta per diventare se stessi e per potere, di conseguenza, essere contenti di sé e della propria vita.
La persona in crisi è spesso irriconoscibile per gli altri e anche per se stessa, come uno spaventoso mister Hyde che ha preso il posto del rassicurante dottor Jekyll, e tocca a noi psicologi di avere a che fare con l’inquietante altro lato della personalità delle persone che hanno bisogno di noi. Dobbiamo stare molto attenti a non perdere l’occasione, perché nelle emozioni, nelle paure, nelle parole e nelle azioni dei mister Hyde che dilagano nell’esistenza dei nostri pazienti improvvisamente si stanno manifestando, in forma grottesca e incubosa, i retroscena della finta normalità, le verità nascoste, i condizionamenti subiti e le convinzioni disastrose che bloccano lo sviluppo della personalità. Nella crisi emergono i fantasmi, ma questi fantasmi sono collegati con la memoria più profonda contenuta nel nostro essere: il ricordo dell’essenziale e l’angoscia di perderlo. La crisi, in altri termini, è scatenata dalla percezione del rischio di fallire il senso della nostra vita.
Particolarmente istruttiva è la crisi del paziente grave, non perché sia intrinsecamente diversa dalla crisi del paziente meno grave o dalla crisi di ognuno di noi, anzi, proprio perché si tratta delle stesse angosce, solo più drammaticamente vissute, fino al punto di essere una lotta per la vita o per la morte… anzi, mi correggo, si tratta sempre di una lotta per la vita o per la morte, ma nel caso del paziente grave siamo di fronte all’improrogabilità di tale lotta all’ultimo sangue, che si deve svolgere qui e ora, oppure mai più. Vi racconterò quindi di tale lotta come di una particolare testimonianza che vi posso portare. Ripeto: la drammaticità della situazione non si spiega in altro modo, se non sulla base dell’improvviso e folgorante ricordo di chi siamo e dell’angoscia stare fallendo nell’impresa di tutta la vita, cioè l’angoscia che non riusciremo forse mai ad essere davvero noi stessi.
Frank, un uomo di 25 anni, è entrato in terapia a causa di intensi e ricorrenti stati di depressione vuota, subentrati in lui dopo che al padre fu diagnosticato un tumore maligno al cervello. Ben presto risulta evidente un grave disturbo del senso di sé: c’è un falso modo di essere se stesso che si è sviluppato a scapito della verità, manifestandosi come tendenza automatica a soddisfare le aspettative degli altri, ad essere esageratamente bravo, forte, coraggioso, responsabile e addirittura impavido, a scapito della spontaneità e del senso di essere più genuinamente se stesso nelle diverse situazioni della vita. Si tratta di un falso Sé particolarmente invasivo che, praticamente, non lascia spazio al vero Sé. Nei sogni, esso si presenta inizialmente come animale infernale, come gatto nero che ha preso il comando dei centri del piacere del suo corpo e che non può essere tirato via, perché, mentre con una zampa lo masturba, con le altre tre affonda tenacemente le unghie nella carne. In altri sogni appare come un vampiro che ha la meglio su di lui, fino a sopraffarlo completamente e a morderlo sul collo. Tutti sogni che adombrano una particolare somiglianza fra la nevrosi di quest’uomo e il tema letterario del patto con il diavolo. Con preoccupazione e sconcerto, assisto ad un progressivo peggioramento delle condizioni del paziente: la presa di coscienza lo porta alla disperazione. Ho la sensazione di avere sottovalutato la gravità del caso. Le sue difese crollano troppo rapidamente e ciò produce uno sconfinamento di tipo psicotico. Solo a questo punto mi si rivela la reale estensione del fenomeno di alienazione nel quale ha sempre vissuto e il suo ritornello diventa: “dottore, NON SENTO! … non sento niente…” La tragedia di quest’uomo si può riassumere così: il distacco emotivo da se stesso e, di conseguenza, dalla vita reale è tale che egli non ha, si potrebbe dire, la sensazione di esistere, o meglio non ha nessuna sensazione di provare emozioni e vive se stesso come una macchina umana, un robot al quale può comandare comportamenti e simulazioni. Non ha neppure il ricordo di avere mai provato qualcosa, a livello emotivo. Dice che, da tempo immemorabile, ha imparato a “guardare gli altri” e ad adeguarsi alla situazione, imitandoli: se le persone ridono, capisce che bisogna ridere e ride anche lui, se sono tristi, finge la tristezza ecc. Ancora oggi stento a credere ad una generalizzazione così totale del male e penso che, esprimendosi in questi termini, esagerasse un poco; fatto sta che, da quel momento, avendo messo a fuoco così impietosamente il proprio totale vuoto interiore, cominciò con la serie dei tentati suicidi. Il primo tentativo fu tramite l’assunzione di un’ingente dose di psicofarmaci. La spietatezza contro se stesso fu tale che, non morendo subito ma svegliandosi dopo alcuni giorni di sonno semi-comatoso, ebbe la determinazione di tornare barcollando in farmacia e di procurarsene ancora. Viveva da solo e dovetti intervenire io a salvarlo. Il seguito fu una serie di ricoveri e nuovi tentativi: con il tubo di scappamento, con l’accetta, strangolandosi, tagliandosi le vene… Sembrava chiaro che, dopo ogni nuovo ricovero in Psichiatria (dove, senza tanti complimenti, gli avevano subito appioppato una bella diagnosi di schizofrenia), la sua situazione psicologica fosse peggiore di quella precedente e la madre (che, a partire dal primo tentativo, si era trasferita nella casa del figlio) prese insieme a me la coraggiosa decisione di non ricoverarlo più. Durante le sedute, alle quali veniva regolarmente, Frank era per lo più taciturno e sottilmente ostile. Si lamentava costantemente del fatto di “non sentire” e mi spiegò che soltanto quando progettava un suicidio e faceva i preparativi per togliersi la vita riusciva ad emozionarsi un poco e a sentirsi quasi vivo. Aveva dunque sviluppato una sorta di dipendenza dal suicidio: togliersi la vita era l’unico modo per dare un significato emotivo alla propria vita. Ricordo di essermi sentito piuttosto provato dalla situazione: ero costantemente in allarme e mi capitava anche di passare delle notti insonni. Non c’erano segnali di miglioramento, nonostante la regolarità delle sedute, e non avevo idea di come le cose sarebbero potute andare. A questo punto, dopo lunga preparazione (ma vorrei dire dopo lunga macerazione), avvenne l’episodio drammatico che dette una svolta alla terapia. Un giorno, Frank entrò puntualmente alla sua ora e si diresse macchinalmente verso la sua poltrona. Anch’io mi stavo dirigendo verso il mio solito posto quando, alle spalle dell’uomo, sbucò improvvisamente la madre, che si era introdotta nello studio come la sua ombra. Non mi ero accorto affatto di lei e la sua improvvisa comparsa mi fece l’effetto che la donna si fosse come materializzata dal nulla. La madre si precipitò sul figlio, e, quasi gridando, ripeté più volte: “fallo vedere, fallo vedere al dottore!” Gli afferrò i polsi e sollevò con decisione le maniche. È qui che mancano le parole per descrivere l’esperienza che io feci in quel momento, nonostante essa sia impressa ancora oggi in maniera vivida nella mia mente. Sapevo che, fra le altre pratiche autolesive, Frank usava coricarsi la sera provvisto di lametta, per tagliuzzarsi un po’ le vene prima di addormentarsi e cullarsi nell’idea di morire dissanguato durante il sonno. Quindi mi aspettavo di vedere qualche taglietto. Vidi invece qualcosa di completamente diverso. L’avambraccio era totalmente martoriato ed essendo stato tagliato e ritagliato così tante volte era diventato nero e l’unico modo per descrivere l’aspetto che aveva è dire che ormai era diventato carne morta. Vidi questo orrore in uno stato di sogno, mentre la scena tragica che avevo davanti irradiava una sorta di potenza mitologica: mi trovavo di fronte alla Pietà e Frank era diventato il Cristo deposto dalla croce. So di non avere nascosto la mia emozione, anche se non ricordo esattamente le parole con le quali, al momento, devo averla accompagnata. Quel che è certo, in quell’attimo è avvenuto qualcosa di assolutamente determinante, tant’è che Frank, da allora in poi, non ha mai più tentato il suicidio. Da quel momento ha ripreso (a suo dire, ha cominciato per la prima volta) gradualmente a sentire. Prima la paura e l’angoscia di sentirsi diverso dagli altri. Poi, nascostamente, inconfessabilmente, l’euforia di un piccolo successo personale (la costruzione di un sito internet). Poi, faticosamente, l’intera gamma dei sentimenti, attraverso un tormentato percorso di alti e bassi, che ha richiesto molto sostegno da parte mia e che, inizialmente, è stato segnato da altre difficoltà e da altre crisi (bastava che si sbilanciasse anche di poco nell’interagire con altri, per riattivare un senso di persecuzione sempre in agguato). Ma, come ho detto, niente di paragonabile a quanto era avvenuto in precedenza. Nessuna difficoltà incontrata intaccava il solido rapporto di fiducia che si era stabilito con me e la gravità delle ultime crisi, nel complesso, è risultata progressivamente decrescente. A distanza di anni, mi sento di dire che il cambiamento di Frank risulta stabile e definitivo.
Tornando al punto cruciale della storia, cos’è realmente avvenuto in quel momento particolarissimo che ha segnato la svolta di una terapia così difficile? Per esprimermi nel modo più semplice e immediato, credo di aver percepito Frank per la prima volta; credo, cioè, che in quel momento io abbia potuto vedere per la prima volta fino in fondo al suo dolore. Per certi versi, ero anch’io, insieme a lui, nella condizione del “non sentire”, ma in quel momento ho abbandonato anch’io le mie difese e ho sentito e Frank si è sentito sentito e, da quel momento in poi, ha cominciato a sentire se stesso e a rapportarsi agli altri attraverso la mediazione del senso di sé. Il vero sentire è sentire noi stessi che sentiamo il bene e il male della vita.
Solo a questo punto è possibile volere bene a noi stessi, cioè volere il nostro bene e volere che la nostra vita sia un bene. Solo a questo punto è possibile, per estensione, volere bene ad altri e volere il loro bene. Solo a questo punto abbiamo ritrovato il ricordo più prezioso e più gelosamente sepolto dentro noi stessi: ci siamo ricordati chi siamo e sappiamo, soltanto adesso e soltanto in base ad una sentita e vissuta esperienza di crisi personale, chi è veramente l’essere umano, nostro fratello, nostro figlio o la donna che amiamo.

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