Denni Romoli, psicologo, psicoterapeuta
Psicologo (iscr. Albo Psicologi Toscana n. 3533) e psicoterapeuta, ho ottenuto la specializzazione in Psicoterapia Integrata e sto conseguendo un master in Psicoterapia Psicoanalitica dell’Infanzia e dell’Adolescenza. Oltre all’attività clinica libero professionale, svolgo attività di psicologo giuridico relativamente ai temi del danno biologico, del danno da mobbing, di affidamento di minori, di abuso e maltrattamento. Inoltre, mi occupo da anni di burnout nelle professioni sanitarie e di psicologia delle disabilità, ambito nel quale ho svolto numerose docenze e corsi di formazione per operatori sanitari. Inoltre, sono supervisore di gruppo in una struttura toscana nella quale sono accolti bambini in stato di totale o parziale abbandono. Dal 2004 sono Consigliere dell’Ordine degli Psicologi della Toscana, attualmente con incarico di Tesoriere e referente della Commissione Deontologica.
In questo lavoro ci occupiamo di fornire una rassegna delle correnti teoriche presenti nell’approccio della cosiddetta “Psicoterapia Integrata”, andando a delineare nello specifico caratteristiche precipue e capisaldi nell’approccio dell’integrazione teoretica estesa.
Precisiamo il significato di alcuni termini: si parla alternativamente di Psicoterapia Integrata, di Psicoterapia Integrativa, di Integrazione in Psicoterapia: la prima dizione sembra dare per scontata la presenza di una reale integrazione (tra cosa e come poi è da vedersi), la seconda di un atteggiamento, di una forma mentis, la terza di un tentativo in corso. Alcuni autori (Alford & Beck, 1997; Jacobson, 1999) hanno mosso critiche importanti all’integrazione in psicoterapia; in particolare, anche la psicoterapia integrata sembra essere ideologicamente schierata, prematura, utopistica (Fisch, 2001; Lampropoulos, 2001); d’altra parte, altri (Fosha, 2004; Goldfried, 1991, 1999; Ramsay, 2001) sostengono che ogni psicoterapia che produce dei risultati positivi è integrata o integrativa, in modo da rispettare e rispecchiare la complessità dell’essere umano. Chi scrive ritiene prematuro l’utilizzo della prima dizione, preferendo appoggiare la seconda e la terza. Per comodità utilizzeremo l’acronimo P.I., dando per scontato il suo significato in base a quanto appena detto.
La P.I. si definisce per un approccio che non è limitato ad un solo orientamento teorico, ma che tenta di rintracciare possibilità integrative tra orientamenti distinti e tra campi differenti del sapere scientifico (biologia, neuroscienze, fisica, etologia). Essa prevede sostanzialmente tre modalità distinte di affrontare l’integrazione in psicoterapia (Carere-Comes, 1998; Glass et al., 1998): la ricerca sui fattori comuni, l’eclettismo tecnico, l’integrazione teoretica. Se ne può proporre un’altra, quella dell’integrazione assimilativa, che fa da ponte tra l’eclettismo tecnico e l’integrazione teoretica.
2. L’approccio dei fattori comuni
L’approccio dei fattori comuni nasce ufficialmente nel 1936, anno di pubblicazione dell’articolo di Rosenzweig, recentemente ripubblicato sul Journal of Psychotherapy Integration (2002), proseguita con gli studi di J.D. Frank (1973, 1982) e confermata empiricamente dalla ricerca sul risultato in psicoterapia degli anni ’70 e ’80 e dal famoso verdetto di Dodo (Lambert & Bergin, 1994; Luborsky et al., 1975; Smith et al., 1980), che stabiliva sia l’effettiva efficacia della psicoterapia sia l’equivalenza, in termini di risultati clinici, tra i vari orientamenti psicoterapeutici.
I fattori curativi risiedono nella presenza di fattori comuni implicitamente presenti in ogni psicoterapia: non sarebbe precipuamente il modello di riferimento a fare la differenza, quanto piuttosto alcuni elementi che risultano diffusi nella prassi clinica (Castonguay, 2000b). Detto questo, occorre precisare che non vi è un accordo pieno sul numero, sulla definizione e sul tipo di fattori comuni che sarebbero responsabili del processo terapeutico (Lampropoulos, 2000). Tra i fattori comuni proposti l’autore ricorda i seguenti:
- caratteristiche del terapeuta (genuinità, esperienza, coinvolgimento, accettazione, capacità intuitive; Bohart, 2000b; Wallner Samstag, 2002; Weinberger, 2002)
- caratteristiche del cliente quali motivazione, apertura mentale, capacità di auto-aiuto (Duncan & Miller, 2000; Goldfried, 2004)
- caratteristiche della relazione terapeutica (alleanza, contratto; Duncan, 2002b; Scano, 2000)
- obiettivi e finalità del terapeuta, attribuzione di risultato, aspettative (Irving et al., 2004)
- modalità interattive del terapeuta (Duncan, 2002a), tra cui la cosiddetta mindfulness (Martin, 1997, 2002), intesa come disidentificazione dal sé (detta anche decentramento) e attenzione al controtransfert
- tecniche specifiche, tra cui “compiti a casa” (Kazantzis & Ronan, 2006) e interpretazioni del terapeuta (Gazzola & Stalikas, 2004)
- modalità comunicative verbali e reazioni del cliente agli interventi del terapeuta (Rennie, 2000)
- fase della terapia e fase del cambiamento
- livello di assimilazione dei problemi (Bohart, 2000b)
- eventi significativi e di cambiamento (interni ed esterni alla terapia)
- dialettica del processo terapeutico (Carere-Comes, 1999b): compresenza dei poli materno/paterno, conosciuto (fenomeno) e sconosciuto (noumeno), base sicura vs. autonomizzazione e sperimentazione
3. L’eclettismo tecnico
Tale declinazione, da alcuni ritenuta la forma prevalente di pratica terapeutica (Kazantzis e Deane, 1998), prevede che il terapeuta utilizzi, rimanendo ancorato al proprio schema teorico di riferimento (si sottintende una forma “pura” di psicoterapia), tecniche provenienti da scuole psicoterapeutiche differenti (Giusti et al., 1997). In questo approccio l’integrazione teorica non è presa in considerazione, poiché ogni tecnica è inserita in modo “neutrale” all’interno di un approccio teorico differente (Lazarus, 1981; Lazarus & Messer, 1991); in tal senso, la tecnica sopravanza la teoria (Feixas & Botella, 2004; Garfield, 2000; Norcross & Beutler, 2000).
Tra i vari esempi che possiamo fare di eclettismo tecnico riportiamo i seguenti, che gettano luce sulle proposte presenti nel campo dell’eclettismo P.I.: all’interno di un approccio sistemico-relazionale, utilizzo di tecniche derivate dalla psicodinamica e dalla terapia esperienziale (Jones & Jablonski, 1998); all’interno di un approccio centrato sul cliente, impiego delle interpretazioni di matrice psicodinamica (Gazzola & Stalikas, 1997); intervento cognitivo-comportamentale associato a tecniche psicodinamiche relative all’insight (Juni, 2001) circa le resistenze del cliente; enfasi posta sulla negoziazione del trattamento con il cliente, in base anche alla teoria del cambiamento dello stesso (Norcross & Beutler, 2000; Van Audenhove & Vertommen, 2000)
4. L’integrazione assimilativa
In tale approccio si ritiene necessario rimanere comunque ancorati ad un modello di terapia pura nel quale possono essere integrate tecniche provenienti da altre forme di terapia, con una modalità differente rispetto all’eclettismo tecnico (Messer, 2001). Le tecniche devono essere adattate al contesto di riferimento: ad esempio, si presuppone che l’utilizzo di una tecnica gestaltista (ad esempio la sedia vuota) non sia immediatamente utilizzabile in un altro approccio, ad esempio in un setting di terapia cognitiva, ma che necessiti di dovuti accorgimenti (in termini piagetiani si parla di assimilazione) al fine di un suo corretto impiego (Hillman & Stricker, 2002; Honos-Webb & Stiles, 2002). L’approccio assimilativo corrisponde, secondo Carere-Comes (1999a, b, 2001), ad un movimento maggiormente conservatore rispetto all’integrazione teoretica, che ha il vantaggio di garantire una minore dispersione in un campo già fortemente frammentato e lo svantaggio di non consentire un reale progresso integrativo, essendo spostato sull’eclettismo più che sull’integrazione. Peraltro, l’aderenza a un sistema teorico coerente e rigoroso è da preferire alla mancanza di radicamento dell’eclettismo rigido, in cui il passaggio da una prospettiva all’altra avviene senza eccessive riflessioni teoriche.
Tra gli esempi di integrazione assimilativa, possiamo citare i lavori di O’Connor (2003), che integra la teoria costruttivista con la teoria delle relazioni oggettuali, di Dworkin (2003) che, all’interno della teoria cognitiva, inserisce elementi derivati dalla psicodinamica e dalla teoria sistemica, di Stricker (2006) che inserisce, all’interno della psicoterapia psicodinamica, i “compiti a casa” e di Futterman et al. (2005) che integra teoria cognitivo-comportamentale e teoria delle relazioni oggettuali.
5. L’integrazione teoretica
In questo approccio, almeno due modelli teorici psicoterapeutici sono integrati al fine di ottenere un risultato superiore alle singole terapie: l’enfasi viene posta appunto sull’integrazione teoretica, mentre le tecniche sono subordinate alla sintesi teorica. I primi studi sull’integrazione in psicoterapia possono essere ritenuti quelli di Dollard e Miller (1950), che cercarono di integrare la teoria psicodinamica e quella comportamentista, restando però un caso isolato fino agli anni ’70 del secolo scorso. Feixazs e Botella (2004) propongono due tipi di integrazione teoretica, l’integrazione teoretica ibrida e l’integrazione teoretica estesa.
5.1 L’integrazione teoretica ibrida
L’integrazione teoretica ibrida, che prevede la combinazione di due teorie e prassi terapeutiche, scelte in base alla possibile complementarietà (Wachtel, 1977). Tra queste possiamo annoverare, tra le molte, le seguenti: la terapia breve di Steinfeld (1999) che integra l’approccio cognitivo-comportamentale con la Thought Field Therapy, l’integrazione tra cognitivismo e psicoanalisi (Zapparoli & Gislon, 1999), la terapia per il disturbo borderline di personalità di Louw e Straker (2002) che mette insieme l’approccio cognitivo di Beck e quello psicodinamico di Kernberg, la terapia di Fields (1998) per pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo (integrazione delle teorie cognitiva, transazionale e comportamentale), la terapia di coppia cognitivo-sistemica di Teichman et al. (1998), l’approccio di Strass (2004) che contempla la teoria di Erickson, la terapia strategica e un approccio psicodinamico ai meccanismi di difesa, la terapia cognitivo-analitica di Ryle (1990).
L’integrazione teoretica estesa
L’integrazione estesa si distingue non solo perché prende in considerazione più di due teorie, ma anche perché definisce e considera aspetti differenti del funzionamento umano (cognitivo, emozionale, comportamentale, interpersonale). Questo approccio, nel quale si riconosce chi scrive, prende in considerazione l’individuo utilizzando un insieme di saperi che vanno al di là dell’integrazione tra due o più teorie, cercando di costruire una prospettiva epistemica complessa che prevede (Fosha & Yeung, 2006; Greenberg et al., 1998; Wolfe, 2001):
1. un approccio fenomenologico e dialogico: la relazione terapeuta-cliente si propone in una prospettiva centrata sul qui-e-ora, derivata fortemente dall’esperienza delle terapie umanistiche, in primis della terapia della Gestalt (Perls, 1973; Perls et al., 1951; Kepner, 1993). L’enfasi viene posta su aspetti imprescindibili di una relazione terapeutica: comprensione, rispetto, empatia, attenzione ai vissuti e ai significati del cliente, sostegno. Allo stesso tempo, è necessaria una dialettica che prenda in considerazione sia aspetti processuali sia aspetti strutturali (struttura di personalità). Il cliente e il terapeuta si incontrano come due esseri umani con medesimo valore e pari dignità, consapevoli della differenza di ruolo. Il contatto non è solo con l’altro, ma allo stesso tempo è contatto con sé: il terapeuta si pone come esperto di sé più che esperto dell’altro. Il dialogo terapeutico presuppone conferma, presenza del terapeuta, impegno al dialogo, tendenza a fornire consapevolezza più che istruzioni o direttive (Horowitz, 2002; Wolfe, 2002).
2. una teoria del cambiamento: essa parte dalla concettualizzazione della genesi del disagio del cliente. La psicopatologia si viene a configurare in una prospettiva relazionale (Greenberg et al., 1998), ispirandosi alla teoria delle relazioni oggettuali (Fosha & Yeung, 1996; Mitchell, 1988), alla teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1988; Greenberg et al., 1998) e alle rappresentazioni interne delle relazioni interpersonali (Stern, 1985), alla ricerca clinica sullo sviluppo (Fonagy & Target, 2003; Mahler et al., 1975; Stern, 1985), ad una visione costruttivista e multifattoriale dell’eziologia del disturbo (Greenberg, 2002a), all’epistemologia della complessità: l’uomo è un sistema complesso in interazione dinamica e non lineare con una molteplicità di fattori, interni ed esterni (Anchin, 2003; Greenberg, 2002a).
La persona, nella sua storia di vita, si trova ad esperire, in fasi precoci del suo sviluppo, relazioni disfunzionali nelle quali sono appresi pattern emozionali e cognitivi (imprinting relazionali) che elicitano la cronicizzazione di risposte necessarie (adattive, in ottica gestaltista) alla situazione passata, ma ad oggi portatrici di un disagio che è primariamente relazionale e che determinano una attribuzione di significati al presente esistenziale (sensoriali, emozionali, cognitivi, simbolici, ecc.) che è necessariamente ancorata alle esperienze che hanno strutturato le modalità interattive (Levenson, 2003).
La psicopatologia si basa sulla compromissione della competenza affettiva del caregiver nella relazione diadica con il bambino (Anchin, 2002; Fonagy & Target, 2003; Wagner, 2005; Young, 2005), che darebbe luogo a modalità relazionali fondate su intense e continuative esperienze di paura, vergogna, umiliazione, abbandono, distress. L’apprendimento di tali modalità relazionali darebbe luogo a sensazioni di solitudine, impotenza, assenza di valore, vuoto esistenziale, mancanza di rispetto, perdita, con la conseguente strutturazione di un assetto difensivo potenzialmente patogeno (Prochaska & Prochaska, 1999; Wachtel, 1999). Il legame con il caregiver, in chiave etologica ed evolutiva, consente al bambino di sopravvivere: diventa così necessario per lui strutturare un assetto difensivo al fine di evitare la destrutturazione del legame di attaccamento (Dowd, 1999; Fosha & Yeung, 1996).
La teoria del cambiamento dell’approccio integrativo esteso prevede alcuni assunti:
- il bisogno di acquisire consapevolezza circa le proprie emozioni ed i propri sentimenti, in un’ottica di cambiamento paradossale (Greenberg et al., 1998): è possibile cambiare soltanto accettandosi, avendo accesso alle emozioni disadattive e negate (Iwakabe et al., 2000; Paivio & Shimp, 1998)
- la centralità dei processi emozionali, risorse adattiva per il benessere della persona e forma primaria di comunicazione e regolazione interpersonale (Anchin, 2003; Greenberg, 2002a). I processi emozionali disfunzionali operano come resistenze all’interno del processo terapeutico (Fosha & Yeung, 1996) e necessitano di essere accolti, senza essere criticati o demoliti (Kepner, 1993)
- l’importanza dei processi di desincronizzazione di emozioni, cognizioni e azioni, al fine di poter processare le emozioni disfunzionali (sovra- o sotto-regolate, in un approccio definibile feeling the feeling) e promuovere la regolazione emotiva (cambiare emozione con emozione) all’interno di una relazione interpersonale. Elaborare l’esperienza terapeutica dà al cliente l’opportunità di mentalizzare un’esperienza funzionale al suo benessere (Fosha, 2000), accedendo agli effetti curativi dell’affettività (affetti centrali, aumento dell’autostima, accesso al vero Sé, aumentate capacità di empatia)
- il rilievo dato all’esperienzialità, al poter sentire pienamente le emozioni negate, ciò che Fosha (2000) chiama lutto del Sé, volendo dire il dolore per ciò che si è perso, per ciò che manca, per ciò che è stato, possibile all’interno di una relazione interpersonale che conferma e che sostiene
- enfasi sulla regolazione diadica della relazione terapeutica, necessaria per aumentare la resilienza e le capacità di tollerare esperienze emotivo-affettive intense. La relazione diadica, per svolgere una funzione terapeutica, deve poter sopportare momenti di rottura e prevedere possibilità riparative (Castonguay et al., 2004), al fine di consentire l’internalizzazione di una relazione emozionalmente correttiva (Safran, 2002). La relazione terapeutica deve permettere al cliente di aumentare l’auto-consapevolezza, rinforzare il senso di autonomia e di connessione, aumentare la capacità di fare esperienze di piacere e di auto-efficacia, aumentare la capacità di far fronte alle difficoltà future, ridurre la punitività degli introietti, fare spazio ad emozioni autentiche, rinunciare a credenze patogene e sostituirle con altre più adattive, ampliare la profondità delle esperienze affettive (Eagle, 1999).
3. attenzione ai microprocessi: in ottica esperienziale i microprocessi sono visti come occasioni di consapevolezza, come mezzi di esplorazione, piuttosto che come catalizzatori di esperienze catartiche. L’oggetto specifico di attenzione è ciò che si prova nel momento, non quello che si dovrebbe o potrebbe provare; il terapeuta si impegna nel tollerare l’incertezza di ciò che è senza nome, non chiaro, non definito. L’attenzione ai microprocessi si ottiene, secondo Greenberg et al. (1998), trovando la giusta distanza da ciò che si prova (senza coincidere con essa), riuscendo a percepire ciò che si sente in ogni sua componente (fisica, emotiva, cognitiva, sensoriale, simbolica) e accogliendola pienamente.
4. centratura su aspetti relazionali: i vissuti e i significati profondi del cliente potranno emergere soltanto in presenza di una base sicura, di una relazione interpersonale supportiva, non giudicante e che fornisca il necessario carico di stress (Bowlby, 1988; Greenberg et al., 1998; Richert, 1999a, b, 2003). La genesi dei disturbi del cliente viene fatta risalire a modelli di relazione patologici (Allen, 2002; Frank, 2002b; Fosha, 2000, 2004; Mitchell, 1988; Stern, 1985), che necessitano di una prolungata “esperienza emozionale correttiva” (Alexander & French, 1946): il processo di crescita e di cura del cliente sono possibili unicamente all’interno di una relazione ristrutturante (Gold & Stricker, 2001; Paivio & Shimp, 1998), che consente al cliente la possibilità di un re-imprinting (Butollo, 2000; Greenberg & Warwar, 2006) relativo non solo alle esperienze consapevoli, verbalizzabili, ma anche a quelle pre-verbali. Il lavoro del terapeuta si volge primariamente verso la strutturazione di una “sufficientemente buona” relazione terapeutica (Wollfolk & Murphy, 2004) che consenta l’esplorazione di emozioni dolorose e delle difese emotive e corporee (Iwakabe et al., 2000).
5. ruolo del cliente come agente attivo del cambiamento: il cliente, piuttosto che essere un elemento passivo nelle mani dello psicoterapeuta, è un soggetto attivo, portatore di risorse e potenzialità, con una capacità agentica che non deve essere minimizzata, ma che al contrario può e deve essere vista e promossa (Shahar, 2004). L’individuo ha la possibilità e la piena responsabilità nel creare la propria realtà: egli è il vero esperto delle sue esperienze (Anchin, 2003; Fosha & Yeung, 1996). Il terapeuta, piuttosto che focalizzarsi unicamente sulla patologia, può enfatizzare gli aspetti positivi, le risorse e le capacità della persona (Fosha, 2000; Greenberg, 2002b), al fine di promuovere un aumento dei suoi gradi di libertà (Richert, 2002).
6. ruolo del terapeuta come catalizzatore di processi di cambiamento: il terapeuta è innanzitutto una persona (Tyler Carpenter, 2004; Wachtel, 2005). In questa affermazione risiede probabilmente il senso più profondo della funzione terapeutica: il terapeuta è colui che esercita una funzione adulta normale, consapevole e monitorata. Il terapeuta è chiamato ad essere consapevole delle proprie modalità relazionali, delle proprie reazioni a determinate emozioni o vissuti (il controtransfert nella terminologia psicodinamica), di ciò che accade nella relazione con il cliente che ha di fronte e con quello che ha al suo interno, in una prospettiva dialettica che prevede i seguenti poli (Fosha, 2004):
- capacità di pensare il corpo e capacità di sentire il pensato
- empatia e autenticità
- accettazione vs. confronto e cambiamento di pattern disadattavi
- supporto e confrontazione
- il cliente sa cosa è meglio vs. il terapeuta è l’esperto
- esperienza emozionale correttiva vs. processi transazionali ciclici
- focus sull’eccezione dal ruolo vs. possibilità di inserirsi in pattern relazionali socialmente previsti
- focus sulla salute e sulle risorse del cliente vs. focus sulla patologia e sul disturbo
- focus sul futuro vs. focus sul passato.
Il compito del terapeuta è quello di catalizzare, di facilitare i processi del cliente, fornendo primariamente un ambiente contenitivo e di sostegno, dando al cliente una possibilità relazionale alternativa, piuttosto che una serie di interpretazioni pre-costituite e di pseudo-verità: parafrasando Freud (1992), sarebbe come dare ad un affamato il menù dei cibi di un ristorante. Egli non se ne sazierà. Chi ci siede di fronte non ha bisogno di un menù: ha bisogno di essere nutrito, ma soprattutto di imparare a nutrirsi (Perls, 1969).
7. attenzione agli elementi emozionali ed esperienziali: la terapia porta in primo piano i vissuti del cliente, comprendendo in essi anche la mancanza di sensazioni, le difese psicologiche, l’esperienza emotiva della persona (Dimaggio et al., 2002). Le emozioni coinvolgono varie forme di valutazione dello stimolo, in un processo interattivo dove diventa difficile stabilire una sequenza lineare (si tratta piuttosto di una sequenza dinamica non lineare), nella quale il ruolo della narrazione è solo perifericamente relato con il processo di generazione delle emozioni. Le emozioni, in ottica integrativa, sono responsabili dei processi di adattamento all’ambiente, promuovono l’azione, sono il sistema principale di comunicazione (assieme al linguaggio) e veicolano l’attribuzione automatica di significati (condensandosi, assieme alle cognizioni, in schemi emotivi pre-riflessivi).
8. importanza attribuita agli elementi biologici, neurologici ed etologici: la teoria dell’origine del disagio e del cambiamento nell’integrazione estesa si connette anche con le ricerche svolte in ambito neuroscientifico, che pongono l’attenzione sul ruolo precocissimo giocato dai sistemi emozionali nella regolazione interpersonale; ad esempio il caso dei processi coinvolti nell’attivazione del talamo e dell’amigdala per quanto riguarda il sistema di lotta-fuga (risorsa adattiva in chiave etologica). Tali processi avverrebbero al di fuori della consapevolezza del soggetto, senza che questi possa valutare lo stimolo in questione (ad esempio, apprendimento automatico della risposta alla paura): i processi emozionali sembrano ricevere una trattazione primaria nel sistema limbico, che comprende alcune regioni del diencefalo e del telencefalo che coordinano le afferenze sensoriali con le reazioni corporee e le necessità viscerali e che rappresentano il luogo di origine delle emozioni. Infatti, anche in chiave evolutiva, il sistema limbico (costituito dalla corteccia del cingolo, dall’ippocampo, dal nucleo amigdaloideo, dai nuclei del setto pellucido, dal complesso anteriore del talamo), che è una formazione filogeneticamente antica e simile in tutti i mammiferi, interviene nell’elaborazione di tutto l’insieme dei comportamenti correlati con la sopravvivenza della specie (attacco-difesa, nutrizione, attività riproduttiva, vita affettiva), elabora le emozioni e le manifestazioni vegetative che ad esse si accompagnano ed è coinvolto nei processi di memorizzazione (sistema tacito-esperienziale). La parte invece filogeneticamente più recente, il neopallio, responsabile della processazione cognitiva delle informazioni e di altre capacità specifiche dell’uomo, interverrebbe come inibitore/facilitatore della risposta emozionale primaria (sistema concettuale).
9. utilizzo di tecniche come strumenti inseriti all’interno di una relazione: ogni tecnica terapeutica è subordinata alla relazione terapeuta-cliente. Inoltre, in base alla teoria del cambiamento più sopra descritta, le tecniche rivestono il ruolo di facilitatori del processo terapeutico, di strumenti al servizio della relazione (e non viceversa), e sono applicate in base a parametri diversificati: grado di fiducia del cliente, grado di direttività implicita nella tecnica, conoscenza da parte del terapeuta della direzione del lavoro, analisi del transfert e del controtransfert. Le strategie si suddividono in relazionali, ristrutturative, affettivo-esperienziali, riflessivo-integrative (Fosha & Yeung, 1996).
10. importanza di un linguaggio teorico comune: l’integrazione estesa si propone di fornire alla psicoterapia un linguaggio comune relativamente ai campi della psicopatologia, dell’inquadramento diagnostico, della cura, della relazione terapeutica. Miller (2005) sostiene ad esempio che il vocabolario psichiatrico non ha fatto altro che descrivere quanto invece viene vissuto dal cliente, demoralizzando la sofferenza nei suoi aspetti fisici, psicologici e sociali.
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