È nato un libro…
LA COSCIENZA
Danza relazionale, coscienza primaria e coscienza superiore.
Ho di fronte a me la prima copia del mio nuovo libro, La coscienza: danza relazionale, coscienza primaria e coscienza superiore. Scriverlo mi è costata una gran fatica, il più grande sforzo di pensiero di tutta la mia vita. Negli anni dedicati al percorso di progressiva chiarificazione delle tematiche che affronto – la struttura relazionale della coscienza e le implicazioni nella pratica della psicoterapia – ho scoperto che la mia mente raggiunge la massima capacità di concentrazione il mattino presto, ancora prima di alzarmi dal letto, e ho usato questo espediente per affrontare i passaggi più difficili, nel silenzio che precede l’accendersi delle luci, il frastuono e il coinvolgimento in tutte le attività della vita.
Perché è stato così difficile scrivere un libro che – ne sono sicuro – non è altrettanto difficile da leggere? La risposta è semplice: focalizzando l’attenzione sulla relazione, piuttosto che sulla struttura materiale del cervello o sulla struttura spirituale dell’anima, mi sono avventurato in un territorio totalmente nuovo, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo. Mi spiego meglio: tutti – non solo noi psicoterapeuti – ragioniamo di psicologia senza mai chiederci con cosa realmente abbiamo a che fare. Diamo per scontato che la coscienza costituisca un presupposto insondabile della nostra salute psichica e operiamo in modo da rafforzarla, orientarla o liberarla dagli ostacoli dei condizionamenti che si sono inseriti nel nostro funzionamento mentale. Ci prendiamo “coscienziosamente” cura della coscienza, assicurando ai pazienti, agli allievi, agli amici e ai figli sostegno, empatia e capacità riflessiva, alimentando la fiducia, stimolando la curiosità, condividendo lo smarrimento dei momenti difficili e accompagnando in tutti i modi possibili la crescita di questo bene unico e prezioso di cui siamo felici o infelici portatori. E questo bene è ciò che noi stessi siamo, perché in definitiva non siamo altro che coscienza, o meglio siamo esattamente tre cose: danza relazionale, emozioni e pensiero.
Qualcuno ha detto che la coscienza è come la lampadina che illumina il buio: fa luce su qualsiasi cosa, ma non può illuminare se stessa. Oppure è come un occhio che vede ogni cosa, ma non vede se stesso. Di fatto, nessuno mette realmente in dubbio il presupposto di antichissima tradizione per cui la coscienza costituirebbe una sorta di realtà incorporea, come l’anima o gli spiriti e l’unica alternativa recente consiste nell’esatto ribaltamento di quella tesi, per cui la coscienza sarebbe invece il prodotto dell’organo cerebrale, nel tentativo di riportare l’ineffabilità del pensiero cosciente alla sostanzialità dei neuroni e dei collegamenti cerebrali.
Nel bene e nel male, personalmente non mi sono mai accontentato di maneggiare le cose senza chiedermi cosa sono e per questo motivo posso dire che nel libro ho raggiunto il traguardo della mia vita intellettuale, ma non solo intellettuale: non sarei mai arrivato a dipanare l’intima struttura relazionale della coscienza se non avessi fatto le scelte di vita che ho fatto, in primis quella di disertare la psichiatria e di formarmi in piena libertà nella psicoterapia, confrontandomi con tante Scuole, per poi buttarle tutte alle mie spalle, o meglio per non aderire fideisticamente a nessuna.
Che conseguenze può avere la scoperta che la coscienza, lungi dal rivelare la presenza di un’anima immateriale che si è graziosamente insediata nella materialità del corpo, si basa invece su di un processo relazionale, reso possibile dall’interconnessione che sta alla base della vita e da un gioco di fantasmi che ci proietta verso il futuro, creando nuove imprevedibili connessioni? A che pro svelare il patto di spartizione delle conoscenze, siglato da Cartesio, per mezzo del quale scienza e religione, fingendosi nemiche, di fatto reggono insieme il gioco di una convenienza reciproca? A che serve sviluppare una conoscenza più approfondita della realtà delle cose, piuttosto che limitare l’uso della mente a preoccupazioni di ordine pratico e di utilità immediata e mantenere la nostra capacità di pensare nei canoni fissati dalle gerarchie del sapere?
Al di là delle ovvie ripercussioni sulla psicoterapia, sulle pratiche educative e sul modo di essere genitori, si tratta di conoscere meglio noi stessi, cioè di aumentare la nostra saggezza, in ottemperanza del primo, fondamentale precetto della scuola socratica, oggi molto in disuso. Per quanto riguarda la mia personale sensibilità, la scoperta più sorprendente nella quale mi sono imbattuto è stata la consonanza della prospettiva relazionale con i più fondamentali principi della saggezza orientale, come se quella grande tradizione di pensiero non cartesiano ci aspettasse da secoli al varco. Forse riesco a rendere meglio l’idea stralciando direttamente un passaggio dal libro (p. 170-171):
«Nessun frammento narrativo ha un senso, se non evoca nel nostro intimo fantasmi, intenzioni e azioni potenziali, un esercizio immaginario di raffinate competenze, attraverso le quali sentiamo e sappiamo ciò di cui parliamo. In ciò consiste tutto ciò che sappiamo del mondo, o meglio la presenza stessa del mondo che, nel corso d’innumerevoli esperienze formative, si è inserita in noi fino a diventare ciò che noi stessi siamo. Siccome la coscienza vive di tutte queste esperienze che ci coinvolgono come continue aspettative nei confronti di ciò che sta per accadere e siccome tutte le esperienze fatte sono nient’altro che “il mondo fatto a nostra immagine e somiglianza”, ha perfettamente ragione il maestro zen, quando afferma che «Colline e fiumi, terra, piante ed alberi, tegole e pietre, tutte queste cose sono l’elemento originario del sé» (Nishitani, 1982, p. 150)».
In termini più attuali e alla moda, potrei dire che contemplare la struttura relazionale della coscienza ci mette di fronte all’ecologia come a una realtà che riguarda non soltanto la nostra sopravvivenza fisica, ma prima ancora la nostra anima e il senso di ciò che noi stessi siamo. In definitiva, ci può aiutare a sentirci meno stranieri nel mondo, ad abbattere il muro di diffidenza che ci protegge, segregandoci e contrapponendoci gli uni agli altri, per poter accedere a un sentimento di appartenenza intersoggettiva e cosmica che vada parecchio più in là, oltre i confini della nostra stessa persona.
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