Per il ciclo: la patologia nell’amore
Sabato 16 Novembre 2019, alle ore 16.30 nella sede dell’Arsenale 2 (Via San Martino angolo Vicolo Scaramucci, Pisa) si svolgerà l’incontro che avrà come riferimento i personaggi del film “Jules e Jim” di François Truffaut.
Jules e Jim: libertà e limiti nell’amore
Di Alberto Lorenzini
Amore e libertà dovrebbero andare sempre d’accordo – con buona pace del nostro retaggio etico basato sullo sforzo di volontà, cioè su un’idea di coscienza completamente disincarnata, come si potrebbe amare per obbligo e non liberamente? L’amore, soprattutto inteso come innamoramento, corrisponde all’improvvisa apertura di un nuovo orizzonte di senso, alla gioia di vivere, alla sensazione di poter dare vento alle vele: come potrebbe essere diversamente? Eppure l’amore ci può incatenare, piuttosto che aiutarci a essere più autenticamente noi stessi nell’impresa della nostra vita. Come si spiega questo paradosso? Quando e perché l’amore ci rende schiavi?
Penso che le parole costituiscano una fonte inesauribile d’inganno e quando parliamo d’amore intendiamo facilmente intenzioni e obiettivi molto diversi fra loro. Spesso amore significa possesso, aspettative e pretese di ogni genere, accampate più o meno consapevolmente sull’oggetto d’amore, oppure all’opposto abnegazione e sacrificio fino allo smarrimento e alla totale perdita di sé. Forse il denominatore comune a tutte queste patologie nell’amore si può identificare nella perdita del confine fra una persona e l’altra, quella che Winnicott chiamava la violazione dello spazio privato del Sé.
Catherine, con la sua sconfinata necessità di amare, vive come molti noi nell’illusione che l’amore possa riempire un insostenibile senso di vuoto, un senso di mancanza di senso, soprattutto quando la vita, per continuare, dovrebbe prevalentemente circolare fra sé e sé. Forse si aspetta come Rosaspina che un principe possa intervenire per guarirla da una subdola forma di addormentamento dell’anima, dalla quale si sente minacciata ogni volta che s’interrompe il flusso emotivo prodotto da un’intensa relazione d’amore.
Ma di cosa stiamo parlando, di quale forma di patologia dell’amore, visto che ci sembra di conoscerla così bene eppure di faticare così tanto nel tentativo di definirla più chiaramente, al punto che io stesso vado a cercare aiuto in una fiaba, piuttosto che nella scienza?
Catherine sperimenta una mancanza di vita fra sé e sé e vorrebbe colmarla con l’amore: si aggrappa a questa unica e disperata soluzione e non ha scelta. In questo caso, però, io non vedo nessuna libertà che si accompagni all’amore. Catherine, in cerca della medicina necessaria per sentire scorrere dentro di sé il flusso della vita, decide di sorpassare alcuni limiti che ci sono stati imposti dalla tradizione e di amare contemporaneamente più uomini: sarebbe questa l’esagerata libertà dell’amore che scandalizzò la coscienza dei benpensanti, al punto che il film rischiò pesanti censure nel momento della sua prima uscita? Vedete come ci si inganna facilmente con le parole? Il film non mostra affatto un amore troppo libero, ma al contrario dei pesanti limiti interiori che impediscono all’amore di scorrere più liberamente.
Il vuoto interiore di Catherine mi fa pensare a due termini contrapposti, che potrebbero anche essere i due estremi di un continuum, se vogliamo ragionare in una prospettiva di salute mentale – o esistenziale: “mancanza di sé” e “pienezza di sé”. Sicuramente l’amore ha a che fare con il secondo dei due, piuttosto che con il primo: con l’abbondanza, anzi con la sovrabbondanza, piuttosto che la mancanza.
Ma ecco che tutto gira intorno al mistero rappresentato nella parola di due lettere che la psicoterapia ha spesso collocato al centro della propria riflessione: il Sé. Il mistero consiste nel fatto che la psicologia è capace di descrivere con molta accuratezza tutti i tentativi di falsificazione di sé che gli esseri umani operano per un’infinità di secondi fini, il cosiddetto “falso Sé”, ma curiosamente sa dire molto poco del vero Sé, altro che consiste nella nostra spontaneità, o nella nostra autenticità. Ma questi concetti, a loro volta, non sono affatto esenti da ambiguità e non ci lasciano del tutto soddisfatti.
Solo recentemente ho l’impressione di avere risolto il mistero, risolvendo contemporaneamente un secondo enigma, quello rappresentato dalla provocatoria asserzione buddhista che il Sé non esiste affatto. La convinzione cui sono giunto è che il Sé esiste, ma non è una cosa. Non è né il nostro corpo, né il nostro cervello, né il nostro inconscio e nemmeno la nostra storia personale. Bisogna mettersi in una prospettiva ecologica per capire cosa sia per davvero il Sé, perché esso consiste nel dialogo che il nostro corpo, cervello, inconscio e storia personale intrattengono con il proprio mondo: né più, né meno. Per questo il maestro zen dice: «Colline e fiumi, terra, piante ed alberi, tegole e pietre, tutte queste cose sono l’elemento originario del sé» [1].
Lo zen, una pratica buddhista che ha guadagnato una certa notorietà anche in Occidente, è intenzionalmente paradossale nel suo stile comunicativo, perché vuole produrre un capovolgimento nella percezione del reale: quello che oggi possiamo più scientificamente definire come il passaggio da una prospettiva di oggettivazione cartesiana a una prospettiva ecologica del pensiero. Proprio questo capovolgimento copernicano è la soluzione che ci consente di uscire da un’infinità di equivoci, alla fine anche quello di scambiare la schiavitù in amore per troppa libertà, come dire la chiave per comprendere il dramma di Catherine e della Catherine che abita dentro tutti noi.
Non soltanto i maestri zen sono arrivati a questa forma d’illuminazione, cioè a comprendere che il vero Sé non abita dentro alla testa ma tutto intorno, o meglio nella relazione con ciò che abbiamo intorno, ma già altre volte, in tradizioni culturali lontane e diverse, si era già affacciata la stessa fondamentale intuizione. Per esempio, il maestro di Castaneda, Don Juan Matus, parlava dell’arte di “vedere” come della sua più grande passione: si trattava di vedere tutta un’altra realtà, attraverso e oltre la nostra solita percezione appiattita delle cose. Con la loro capacità di “vedere”, Juan e i suoi amici si dilettavano del percepire in ogni forma particolare tutta la grandiosa complessità del reale che ci circonda e di godere di un senso di profonda ammirazione e di meraviglia di fronte allo spettacolo inesauribile dell’essere. Al di là del capovolgimento copernicano operato dalla prospettiva ecologica nella studio della coscienza, penso che l’amore, nella sua essenza, abbia che fare con un barlume d’intuizione molto simile allo zen e al “vedere” degli stregoni indo americani: lungi dal chiuderci nelle angustie della gelosia e del possesso, l’amore ci consente di aprirci e di abbracciare l’infinito quando abbracciamo il nostro oggetto d’amore. Tutto il resto, possesso, gelosia e pretese d’ogni genere, per quanto possa prevalere e dominare la scena, appartiene di buon diritto al ciclo della patologia nell’amore.
Alberto Lorenzini
alberto.lorenzini@gmail.com
Jules e Jim di François Truffaut. Francia 1961 B/N.
Sceneggiatura: François Truffaut e Jean Gruault.
Fotografia (b.n. Franscope): Raoul Coutard.
Montaggio: Claudine Bouché.
Musica: George Delerue (la canzone “Le tourbillon”, interpretata da Jeanne Moreau, è di Boris Bassiak).
Costumi e scenografia: Fred Capel.
Voce fuori campo: Michel Subor (nel doppiaggio in italiano la voce è di Nando Gazzolo).
Interpreti: Jeanne Moreau (Catherine), Oskar Werner (Jules) Henri Serre (Jim), Marie Dubois (Thérèse), Vanna Urbino (Gilberte), Boris Bassiak (Albert).
“Parigi, 1912 circa. Tra il francese Jim (Henri Serre) e il tedesco Jules (Oskar Werner) nasce un’amicizia subitanea e profonda, fondata sull’amore per le lingue e la letteratura, sull’indifferenza nei confronti del denaro, e sull’interesse per le donne: ma Jim ne conosce molte, Jules nessuna. Jim allora ne presenta qualcuna a Jules, che scopre l’amore in breve tempo.
Una sera Thérèse, una giovane anarchica (Marie Dubois), chiede riparo per una notte: è Jules ad ospitarla, mentre Jim va a dormire da Gilberte (Vanna Urbino), che non intende sposare perché teme la routine del matrimonio. Il giorno dopo Thérèse se ne va con un altro uomo.
A casa di Albert (Boris Bassiak), che frequenta il mondo artistico parigino, i due amici assistono alla proiezione di alcune diapositive di statue. Una testa femminile, scoperta in un’isola greca, li cattura con il suo sorriso enigmatico: partono immediatamente per vederla.
Di nuovo a Parigi, Jules comincia a scrivere un romanzo autobiografico, Jaques e Julien. Jules invita a cena tre donne, di cui una Catherine (Jeanne Moreau), ha il sorriso della statua. Jules se ne innamora, e trascorre con lei un mese. Una sera invita Jim a casa di Catherine: Jim capisce che non può corteggiarla, ma i tre vanno in vacanza insieme. Jules chiede a Catherine di sposarlo, lei si riserva di rispondere. Al rientro a Parigi, dopo un appuntamento mancato con Jim, Catherine accetta la proposta di matrimonio di Jules. La coppia si trasferisce in Austria.
Separati dalla guerra, che ciascuno combatte per il proprio paese, Jules e Jim riprendono i contatti, tramite lettere, dopo la fine del conflitto. Jules e Catherine vivono in uno chalet con la figlioletta Sabine. Jim non sa se sposarsi e chiede consiglio all’amico. Jules lo invita ad andarli a trovare.
Jim ha l’impressione che, nonostante le apparenze, la coppia sia in crisi. La conferma gli arriva da Catherine, che gli confessa di non amare più il marito e di aver avuto delle avventure, di cui una con Albert, ferito in guerra e rimasto in un paese vicino. Jim confessa a Catherine di amarla, e Jules, pur di non perdere la moglie, accetta la loro relazione. La convivenza a tre va piuttosto bene, ma Jim vorrebbe sposare Catherine e avere dei figli.
Costretto a rientrare a Parigi per lavoro, Jim lascia passare molto tempo prima di ritornare da Catherine: lei, stanca di aspettarlo, al suo arrivo non si fa trovare. Poi riappare, ma non riesce a sopportare di non rimanere incinta. I due decidono di non vedersi per tre mesi.
Ma, la notte dell’addio, Catherine ha concepito un figlio. Scrive a Jim, che dubita che sia suo. Jules fa da intermediario allo scambio di corrispondenza, poi comunica all’amico che Catherine ha perso il bambino e non vuole più avere sue notizie.
Qualche anno dopo i due amici si incontrano per caso a Parigi: Jules e Catherine vivono adesso in un vecchio mulino lungo la Senna, Jim è tornato con Gilberte e pensa di sposarla. I tre vanno a fare una gita in auto, durante la quale incontrano Albert. Alla fine della giornata Catherine saluta Jules e Jim e rimane con Albert.
Un giorno Catherine si presenta in macchina sotto casa di Jim e lo convince ad andare da lei. Quando cerca di sedurlo, Jim si nega e dice di volere sposare Gilberte. Catherine lo minaccia con una pistola.
Qualche tempo dopo, Jim incontra la coppia a un cineclub del Quartiere Latino, lo Studio des Ursulines. Insieme vanno in un locale sulla riva della Senna. Catherine propone a Jim un giro in macchina: sotto gli occhi di Jules si dirige verso un ponte tronco e fa precipitare l’auto nel fiume. Jules assiste da solo alla cremazione dei due corpi” [1].
come una breve eternità
finché la morte non verrà [2].
Mi hai detto ti amo
Ti ho detto aspettami
Stavo per dirti eccomi
Mi hai detto vattene.
Quattro rapide battute, su fondo nero, pronunciate da una voce di donna, seguite dai titoli iniziali, che sono parte integrante della costruzione narrativa, innalzata sul concetto di contrasto continuo. L’insieme di battute si conclude con l’ultima che annulla inaspettatamente e repentinamente le tre che la precedono ed è un’apertura a “rovescio” delle prime immagini, costruite sul genere commedia.
Come presentate da un immaginario cantastorie, le prime inquadrature (musica senza rumori o dialogo) ci presentano i protagonisti in scene giocose e, appunto, di commedia. Le riprese si rifanno alla slapstick comedy del cinema muto. L’accompagnamento musicale è molto ritmato, le inquadrature che si susseguono sono costruite sulla musica, che, a sua volta, sostiene le immagini come gli accompagnamenti del pianoforte nelle proiezioni dei film muti.
Jules e Jim film (“un puro amore a tre” [3], per la presenza in mezzo a loro di Catherine, il personaggio femminile del terzetto) è originato da una storia vera, da una stratificazione narrativa e da una sceneggiatura cinematografica derivante da quest’ultima, a volte quasi alla lettera: i personaggi, prima della loro trasformazione in “segni” artistico-estetici, hanno avuto la veste di persone viventi, fatti realmente accaduti, negli anni che vanno all’incirca dalla seconda metà degli anni ’10 del Novecento agli inizi degli anni ’30. Le vicende sono ambientate soprattutto a Parigi e in Germania.
La narrazione si riferisce al romanzo “Jules e Jim” (1953) dell’intellettuale francese, diventato scrittore con questo romanzo, a settantaquattro anni, Henri-Pierre Roché (1879-1959), uno dei componenti il triangolo (Jim, nel romanzo e nel film). La parte filmica è costituita dall’omonimo film del 1961, girato da François Truffaut (1932-1984). La sceneggiatura e le riprese si attengono, in alternanza, a volte strettamente al romanzo (passi tratti letteralmente dal libro sono letti dalla voce fuori campo), a volte presentano zone di invenzione del regista (ad esempio la sequenza della canzone “Le tourbillon”).
In questa elaborazione pluriennale (se non altro nella mente di Roché, ma non con minore importanza per l’energia creativa di Truffaut) prendono vita artistica tre diverse psicologie (i tre personaggi che costituiscono il triangolo narrativo e filmico), in vario modo caratterizzate dal ricercare, nell’amore e nell’amicizia (sentimenti attraversati con slanci verso l’assolutezza) la ragione fondamentale, se non unica, della vita.
In ragione di questa “pulsione” l’amore si sviluppa in netto e continuo contrasto con la morale corrente. Inizia una relazione a tre. I protagonisti si scambiano, ritornano nella forma precedente, si moltiplicano con altri personaggi che entrano in scena (soprattutto per le diversioni continue di Catherine), fino ad un finale da tragedia che chiude, da un punto di vista estetico ed espressivo, una ricerca di assoluto che si invera attraverso la morte (di Catherine e Jim, provocata dalla prima e accettata passivamente, con poca sorpresa, da Jim). La fine della vita suggella un assoluto amoroso che è impossibile da raggiungere come possesso di un tutto esistenziale.
Soltanto l’amicizia di Jules e Jim si salva sempre in ogni tempesta, come se Catherine fosse, intenzionalmente e in reciprocità, vissuta senza gelosia, senza giudizio, senza storia di conflitto, al di fuori del tempo.
Tutto l’impianto narrativo si regge su una ricerca di felicità erotico-sentimentale che distrugge ogni ostacolo che si frapponga alla ricerca immediata della felicità e che finisce per distruggere se stessa.
I contrasti nelle relazioni, attivati soprattutto da Catherine, si muovono in maniera frenetica e con reazioni che non arrivano ad essere risposta ad esigenze di completamento e sviluppo dell’amore, ma che fuggono da un rapporto necessariamente diverso da come uno dei tre l’aveva pensato e che, nel cambiamento del partner (occasionale o più presente nel tempo) vedono, con occhi quasi paranoici, la possibilità-impossibilità di trovare quiete.
Questa impossibilità-dolore in Catherine si trasforma in agiti di violenza, per Jim in illusioni, presto lasciate o perdute, di poter vivere una vita con Catherine (sposarsi ed avere dei figli). Per questo Jim sospende e riprende la relazione con Gilberte, l’amante di sempre. Per Jules le intermittenze del cuore significano, dopo un matrimonio con Catherine, tenersi in disparte, sacrificandosi, pur di non allontanarsi da lei, anche se non sono più una coppia e anche di fronte alle sue continue disorganizzazioni.
Soprattutto per Catherine la ricerca della felicità amorosa presuppone il suo raggiungimento reale e la violenza nei confronti dell’altro testimonia del suo fallimento. Non c’è mai un ritiro “depressivo” sull’interiorità, la consapevolezza di una sconfitta, anche se momentanea. Per Catherine la sconfitta non è quella del momento dell’esperienza, ma quella della condizione esistenziale, e non è sopportabile [4].
La dinamica del “triangolo” è un amore di proprietà transitiva, attraverso un altro o nell’altro, senza mai menzogne, senza tradimenti di se stessi (con leggerezza, ma anche con passione) in una moltiplicazione di relazioni triangolari: erotiche e al tempo stesso caste, nella ricerca rigorosa di una nuova e diversa morale (“…Si vergognavano di obbedire alle leggi e non alle leggi che si portavano dentro…) [5]
Catherine si configura, nel rapporto con gli altri, come se tutti fossero come lei, in un continuo fagocitare l’altro per farlo diventare se stessa, è un “Alien” che rifiuta l’assunto di Rimbaud “L’Io è un Altro” [6].
La felicità, per Catherine, è frutto di una continua disconoscenza dell’altro e di una ossessiva ricerca dell’assoluto. Giudica che l’amore di Jules per lei appartenga al relativo, mentre il suo è assoluto, non trova mai il soggetto d’amore e cade nel vuoto.
Jules è innamorato dell’amore e non delle persone, e le donne che frequenta se ne accorgono. Dopo il matrimonio Jules diventa quella pace che Catherine disdegna, non rinunciando mai, lei, ad andare a ritrovare quello che una volta era stato suo (relazioni precedenti, finite e ridiventate occasionali, o nuove e immaginate durature, relegate al rango della provvisorietà, come con Albert). La sua maturazione è senza evoluzione, come se gli uomini fossero i “secondi unici amori” [7]. E così la vita va incontro al suo spreco, nella ricerca della sua irraggiungibile pienezza, all’interno della quale niente è “secondo”.
Jules non formula giudizi sul comportamento di Catherine “… e se Catherine si fosse tuffata negli uomini come si è buttata nella Senna?…”. La gelosia era lontanissima “…Jalousie…/ Mensonge éviteras comme la peste simplement / Tendresse tu prodigueras selon ton coeur directement…” [8].
Inoltre Jules non ha caratteristiche attrattive di erotismo e sentimentalità, è un uomo senza qualità di amante e forse è per questo che, come dinamica di personaggio, sopravvive all’apocalisse di Jim e Catherine.
Catherine impersona una moderna eroina, devota al mito platonico, illustrato nel Simposio: ogni essere umano cerca di trovare, nell’oggetto d’amore, la propria metà mitica, primordiale, preesistenziale …perduta. Ma la metà perduta, per Catherine, è perduta per sempre, il nichilismo è la meta finale. Come un angelo ribelle si è trasformata, nella sua caduta, in altro.
La passeggiata nel bosco alla ricerca “degli ultimi segni della civiltà”, come dice Catherine (una scatola di fiammiferi, una scarpa vecchia, un mozzicone di sigaretta…) fa emergere tracce e impronte di un passato scomparso, quasi poveramente archeologico. Il tempo è iscritto nel costrutto narrativo e nell’interiorità dei personaggi, all’insegna della nostalgia. È raccontato (la voce fuori campo) con tempi verbali passati, soprattutto l’imperfetto (ad indicare una persistenza temporale ed una continuità non evolutiva). Il film è una sostanziale rappresentazione del tempo perduto.
Ed è un tempo di natura circolare, attraverso molte panoramiche o carrellate, che circoscrive un “eterno ritorno”, senza una progressiva linearità. O con spostamenti minimi (nelle relazioni tra i personaggi, nel loro mondo interiore, nel loro rapporto con l’ambiente, soprattutto la natura).
La forza motrice è Catherine che propone gite, viaggi, passeggiate.
Il terzetto (quando arriva a chiudere lo spazio Catherine) amplierà notevolmente i movimenti di Jules e Jim, articolati fino ad allora dai due uomini su una ripetizione da flaneur.
E il movimento di Catherine, che presuppone un movimento simmetrico con la natura, è costruito spesso, di conseguenza, su fondi naturali (eccetto le sequenze della casa parigina, della corsa sulla passerella e del mancato appuntamento con Jim al caffè. Anche nell’episodio del tuffo nella Senna, la città è appena accennata).
Una natura che ha una vita “indifferente”, riflesso delle azioni repentine di Catherine, che non lasciano agli altri il tempo di seguirle. Sono palesi gli echi della natura provenienti da “Une partie de campagne” del regista Jean Renoir.
Anche nei raccordi tra una sequenza e l’altra, nelle riprese ambientate nello chalet della campagna renana, è la natura che fa da collegamento, con ampie circonvoluzioni riprese dall’alto, in campo lungo.
E dall’interno e fuori dalla natura la figura femminile “in assoluto”, incontrata dopo le avventure frammentate parigine di Jules e Jim, rimanda ad un mondo profondamente ideale (la statua “richiamo” è una dea, la madre terra, è un’immagine del mondo delle idee platonico e, nello stesso tempo, foriera delle essenze funeree che si trovano incastonate in ogni immagine museale).
L’idealizzazione porta Catherine ad essere intesa come una figura materna e regale allo stesso tempo, una regina madre senza regno, ma con lo scettro del potere, indifferente all’amore materno perché interessata al dominio sulla prole, in un regno immaginario che è l’esistenza stessa e la sua essenza.
Negli effetti Catherine è tutt’altro che una dea-madre. Dalla statuaria comparsa nelle prime immagini costruisce un personaggio votato al narcisismo e al dominio, all’ attaccamento disorganizzato, all’atteggiamento istrionico, ad una variabilità umorale con periodi di oscillazione molto distanti tra di loro ed infine ad una tensione di morte, inflitta a se stessa e data all’inafferrabile oggetto d’amore-Jim.
“I rapporti che (Catherine) intrattiene con i due uomini sono caratterizzati da una reciproca mancanza di comprensione dei bisogni dell’altro…La sua persona non infonde nessuna sicurezza o fiducia. La vita con lei è una continua festa governata dall’imprevisto: arriva, se ne va, ritorna, canta, legge a voce alta, seduce, schiaffeggia, tradisce, incanta….I due uomini passano il tempo a cercare di decifrare le espressioni del suo viso come si fa con un cielo tempestoso e mutevole, cercando di scoprire i suoi segreti” [9].
Il tutto mancante del possibile equilibrio di una figura paterna. La societas di Jules e Jim è un mondo senza padri, senza politica, giocoso al limite dell’irresponsabilità e che vede la guerra come una lontananza dall’amore.
Lo stesso Truffaut ci mette in contatto con l’immagine materna primaria, quella della propria madre: “Non sono mai conscio dell’aspetto globale del soggetto quando lo seleziono e ne faccio il trattamento. In genere lo capisco molto tempo dopo aver fatto il film. Avevo un rapporto molto difficile con la mia famiglia, in particolare con mia madre, e solo qualche anno fa ho capito di aver fatto “Jules e Jim” per farle piacere e per avere la sua approvazione. L’amore giocava un ruolo molto importante nella vita di mia madre e poiché “I 400 colpi” per lei era stata come una coltellata nella schiena, ho fatto “Jules e Jim” nella speranza di dimostrarle che la capivo” [10]. Il riferimento è alle infedeltà della madre e alla tolleranza del padre di François.
Di conseguenza Catherine-madre di François non viene vista come una moglie o un’amante traditrice, ma come una Giovanna d’Arco che fa dell’amore-nouvelle vague l’impronta della propria vita, come una fede laica incrollabile, anche se la meta non è raggiunta e questa forza ha finito per essere autodistruttiva.
Il legame del terzetto, dei due uomini con Catherine si sviluppa a senso unico, non è scambievole: da una parte una donna-madre idealizzata e dall’altra un bambino dipendente. Se non c’è scambio è perché non c’è necessità di comunicazione e quindi Jules e Jim sono diversamente gregari di una corsa che Catherine guida (ma è vietato parlare al conducente).
Alla fine a Jules rimane il tempo della contemplazione (che lo salva e lo rasserena), nella sua solitudine e il legame con una figlia, frutto dell’amore di un attimo, svanito dopo un inizio casuale e provvisoriamente necessario, nella sua durata istantanea.
Jim è lo specchio maschile di Catherine, corre alle sue chiamate, si butta nel rischio di raggiungere la vetta di un amore irraggiungibile attraverso il tempo, tergiversa nei confronti dell’amore sicuro di Gilberte. Catherine lo porta con sé nella morte, come un consapevole elemento sacrificale. La perfezione assoluta dell’amore conduce al mondo immutabile del morire. Jules vorrà unire il contenuto delle due urne cinerarie, ma questo non era permesso. La morte va a realizzare “ciò che non era permesso”.
Fine modernamente romantica. La nouvelle vague è cominciata.
[2] Da la canzone “Lo straniero”, parole e musica di Georges Moustaki.
[3] È il sottotitolo che Truffaut avrebbe voluto ci fosse sui manifesti del film.
[4] R. LOPEZ PEDRAZA Coscienza del fallimento. Rivista “Anima” n. 6, 1992.
[5] HENRI-PIERRE ROCHÉ Jules e Jim, Adelphi, 1987, pag.125.
[6] ARTHUR RIMBAUD Lettera a Paul Demeny, 1871, conosciuta anche come Lettera del Veggente.
[7] Nel romanzo Catherine e Jules hanno due figlie. Un giorno Catherine presenta ad un negoziante la figlia più giovane come “…la mia seconda unica figlia”.
[8] Da Victor di Henri-Pierre Roché, romanzo postumo incompiuto che tratta della vita di Marcel Duchamp.
[9] F. TRUFFAUT. Autoritratto. Lettere 1945-1984. Einaudi, 1989.
[10] ANNE GILLAIN. François Truffaut. Il segreto perduto. Le Mani1995.
Appendice storico biografica: le persone storiche, i personaggi, l’autore e gli autori, dalla vita alla scrittura e dalla scrittura al film.
È un brusio la vita, e questi, persi in essa, la perdono serenamente [1].
Henri-Pierre Roché
“Jules e Jim”, (1961), film di François Truffaut (1932-1984), si basa sull’omonimo romanzo (1953) di Henri-Pierre Roché (1879-1959).
Il romanzo è la trasfigurazione letteraria della vita e delle vicende di tre persone realmente esistite che sono Henri-Pierre Roché (Jim), Franz Hessel (Jules) (1880-1941) e la moglie Helen Hessel (Kathe nel romanzo e Catherine nel film)(1886-1982).
Quindi abbiamo davanti a noi Henri-Pierre Roché (Jim), Helen Katharina Aminta Berta Grund, sposata Hessel (Kathe/Catherine) e Franz Hessel (Jules).
Franz Hessel
Chi sono le anime “vive”?
Henri-Pierre Roché è uno scrittore francese e collezionista d’arte.
Franz Hessel è un autore tedesco, famoso per aver tradotto una parte della “Recherche” di Proust in tedesco, assieme al collega ed amico Walter Benjamin.
Helen e Franz si conoscono a Parigi, all’inizio degli anni ’10. Si innamorano e si sposano.
Hanno due figli maschi (Ulrich e Stéphane). Henri-Pierre e Helen si incontrano dopo la guerra, nello chalet bavarese dove lei vive con Franz. Henri-Pierre e Franz si erano conosciuti a Parigi prima della guerra.
Helen Hessel
Inizia la frequentazione di Henri-Pierre ed Helen. Franz si allontana da loro, va a Berlino e li prega di non avere figli. Helen ha un aborto, il figlio era di Henri-Pierre.
I due sono poligami. Lui ha una relazione anche con la sorella di Helen, Helen lo tradisce a sua volta. I due meditano di scrivere un romanzo sulla loro vita, con al centro la convivenza con Franz, nel frattempo ritornato a vivere nello chalet bavarese.
La relazione fra Roché e Helen dura fino al 1933 e viene interrotta per volontà di lei.
Franz Hessel muore in Francia, il 6 gennaio del 1941, qualche mese dopo il suicidio dell’amico Walter Benjamin (28 settembre 1940).
Dopo la morte del marito Franz, Helen ottiene un visto per gli Stati Uniti per sé e per il primogenito Ulrich. Il secondo genito Stéphane (1917-2013) si unisce alla resistenza francese, dopo la guerra diventerà un diplomatico. Nel 2010 scriverà un pamphlet divenuto famoso, dal titolo “Indignatevi”, a cui Pietro Ingrao risponderà con “Indignarsi non basta”.
Helen, negli Stati Uniti, lavora come scrittrice e come pittrice. Traduce in tedesco “Lolita” di Nabokov. Ritornata in Francia, muore a Parigi nel 1982. Nel 1991 escono i suoi diari, col titolo “Journal d’Helen”.
Rainer Maria Rilke le dedicò una poesia: Geranio che sboccia / In una dolce sera piovosa / Che la tua gioia scarlatta / Mi penetri meglio / del presagio più tenero. [2]
[2] Queste notizie sono tratte dall’articolo di CAMILLA TAGLIABUE. “Jules Jim e Kathe: tre amanti due ceffoni e un colpo di fucile”. Il Fatto quotidiano, 29 agosto 2019.
Giovanni Lancellotti
giovannilance@alice.it
Jules e Jim, la lettura di una psicoterapeuta
Per il ciclo “La patologia nell’amore”, questa volta lo Studio Script ha scelto un film di François Truffaut del 1962.
Insieme a Giovanni Lancellotti e Alberto Lorenzini molto abbiamo discusso sulla scelta della preposizione articolata da premettere al sostantivo, “nell’amore” e non “dell’amore”.
Per quanto l’innamoramento garantisca uno stato mentale alterato della coscienza, ed anche l’amore nei suoi momenti di grazia o di assoluta mancanza della stessa, faccia altrettanto, crediamo che questo nulla abbia a che fare con la patologia.
“Dell’amore”, quindi avrebbe dato adito a un fraintendimento in cui non volevamo incorrere.
La scelta di “nell’amore”, invece, può indicare che anche in un rapporto che per almeno uno dei protagonisti nasce sulla base dell’amore, può entrare in gioco la patologia. Spesso perché ce ne sono le tracce, non sempre chiaramente visibili, in almeno uno dei partners. Uso questa parola non a caso visto che è il titolo di un testo di Carl Rogers edito da Astrolabio. “Partners, il matrimonio e le sue alternative”, pubblicato negli USA nel 1972 e tradotto e pubblicato in Italia due anni dopo, un termine a mio avviso onnicomprensivo. Nell’incontro, nella scelta di condividere un periodo non breve della propria vita si diventa partner in una coppia. Le coppie scelte da Rogers e di cui parla nel suo libro avevano vissuto la dimensione della coppia di cui parlano con il famoso psicologo e psicoterapeuta americano da un minimo di tre anni ad un massimo di didici. Unica eccezione la coppia Carl stesso e sua moglie Helen che, al momento della stesura del libro avevano già all’attivo 47 anni di matrimonio.
“Partners” anche perché è una parola che significa libera adesione ad un progetto comune, in questo caso il progetto è di tipo affettivo.
La prima coppia che incontriamo nel film “Jules e Jim” è quella composta da questi due giovani uomini tanto diversi tra loro ma legati da un sentimento forte che vivono e chiamano amicizia, a dispetto delle voci che il loro sodalizio suscita, così come Jim scrive nel suo romanzo in parte autobiografico. Il desiderio di condividere le esperienze è tale che nel viaggio che li porta alla scoperta delle sculture che Albert, amico o forse solo conoscente comune, aveva mostrato loro in fotografia, partono con abiti identici. Un gioco che gli adolescenti conoscono bene e che, in questo caso, è praticato da adulti. Il gioco, la leggerezza unita alla profondità dello scambio intellettuale sembrano caratterizzare questa relazione. Oltre ad un affetto che si percepisce nella cura che ognuno ha dei sentimenti dell’altro.
Nella parte di film che precede l’incontro con Catherine abbiamo modo di conoscere anche la generosità di Jim nei confronti dell’amico che la voce narrante descrive “timido, un pochino buffo e infantile” e le idee di Jules sulla coppia “In una coppia quello che è importante è la fedeltà della donna”.
Fino a che non entra in scena Catherine, la donna che incarna il sorriso della testa scolpita che li aveva catturati e portati a fare un lungo viaggio per vederla dal vivo.
Catherine è, a sua volta, una giovane donna che appare annoiata ma che sembra facile agli entusiasmi. Ci sono altri personaggi femminili, Thérèse e Gilberte. La prima sembra avere la funzione di sottolineare il clima di un’epoca in un ambiente preciso, quello degli artisti e degli anarchici che sembrano, in qualche misura, sovrapporsi. Gilberte ha una funzione molto più significativa. È la donna che, senza saperlo, elicita in Catherine l’amplificarsi del senso di vuoto, la paura dell’abbandono, gli impulsi legati all’incapacità di Catherine di andare a patti con la realtà.
Se Catherine è il personaggio che compiutamente esprime una patologia che oggi chiameremmo borderline, Jules e Jim, nell’incontro e nella frequentazione della stessa, finiscono per annullare parti di sé facendo prevalere le loro parti meno funzionali.
Catherine è alla ricerca di qualcosa o di qualcuno che le faccia provare emozioni che la liberino dal senso di noia che rende tutto ugualmente tedioso. Incontra due giovani uomini che entrambi restano affascinati dalla sua bellezza e dalla sua finta vitalità. Jules sembra avere la meglio, tra i due, e le chiede di sposarlo. Chiede a Jim il suo parere che è “Non sembra fatta per il mondo reale”. Purtroppo, come spesso accade nella vita,capita che diamo poco peso alle intuizioni nostre e degli altri. Perseguiamo i nostri bisogni e ad essi sacrifichiamo anche le nostre più intime verità. Jules ha dei dubbi ma li mette da parte. La frase con cui Catherine accetta la sua proposta di matrimonio è, a dir poco, inquietante: “Lei ha conosciuto poche donne, io ho conosciuto molti uomini. Così si farà una media e costruiremo una discreta coppia”. Potrà mai essere sufficiente una “discreta coppia” per una giovane donna che prende vita solo se la fiamma è alta?
La difficoltà di Catherine ad accettare di poter non essere sempre al centro dell’attenzione, si manifesta già durante una passeggiata in cui il legame tra Jules e Jim, prima in occasione di un gioco da tavolo e poi attraverso uno scambio di battute, provoca in Catherine un gesto impulsivo, il tuffo nel fiume, che solo sembra rianimarla in quanto la riporta al centro dell’interesse dei due uomini.
La guerra a cui Jules partecipa e lo scambio epistolare, che sappiamo appassionato da parte di Jules, sembra offrire un’esperienza emozionale intensa al loro rapporto ma il rientro alla normalità del dopoguerra, fa emergere le spinte distruttive di Catherine, che già si erano manifestate alla vigilia del matrimonio, il vuoto esistenziale che l’attanaglia, i tentativi di creare situazioni emotive capaci di farla sentire viva e di darle l’illusione di poter azzerare quello che l’ha disturbata e ripartire sempre da capo, come se stesse scrivendo su una pagina bianca. Sappiamo che questo è quanto di più lontano ci possa essere dalla realtà. Siamo l’insieme delle nostre esperienze, non possiamo applicare alla nostra vita ed ai nostri rapporti la logica di “erase and rewind” come cantavano The Cardigans.
In questo contesto, Jules, un poco alla volta, perde se stesso. Incapace o forse impossibilitato a trattenere Catherine, accetta di dividerla con gli uomini che lei, di volta in volta, sceglie. Fino ad accettare che anche Jim diventi il suo amante. Sullo sfondo la figlia, pressoché ignorata da Catherine ma compagna di giochi di Jules e Jim.
Jules è lucido nella sua descrizione della moglie “Quando tutto va troppo bene le prende una smania. Chiede in anticipo perdono a Dio sicura di ottenerlo (…) Di solito è dolce, generosa però quando pensa di non essere curata diventa terribile, con reazioni forti, nevrotiche”. Il commento silenzioso di Jim “Lei si era tuffata negli uomini come si era tuffata nella Senna” sembra significare altrettanta comprensione di come Catherine si muove nel mondo ma, nel seguito del film, vedremo come Jim arrivi a rimuovere sia quello che sente e pensa rispetto a Catherine che gli eventi che si sono succeduti nel tempo e che altro non sono che segni precursori del tragico finale.
Alla domanda di Jim che si preoccupa per Jules che sta assistendo alla crescita del loro innamoramento, Catherine risponde “L’ameremo e lo rispetteremo”. L’incongruenza tra le parole e la realtà è forte come è forte l’incapacità di Catherine di provare qualsiasi forma di empatia per tutti coloro che non sono l’oggetto del suo bisogno di vitalizzarsi. Per Catherine esiste solo la fusione, non l’amore. Confonde le due cose, nel suo cuore e nella sua mente sono parole intercambiabili.
Mentre Jim è a Parigi, incerto sulla scelta da fare, Catherine continua a chiedere a Jules se crede che Jim la ami. E Jules, sempre più, sprofonda in una posizione mentale che non gli permette di esistere se non in funzione dei desideri di Catherine. Anche Jules si è ammalato, anche Jules sembra avere perso il senso della realtà.
Nelle scene dell’addio di Jim a Catherine, lì dove pensa che se avessero avuto dei figli sarebbero stati bellissimi e Catherine avrebbe smesso con le sue avventure, assistiamo alla perdita di Jim del senso della realtà, quello stesso distacco dalla realtà che non gli permetterà di leggere la minaccia nell’invito a salire in macchina che lei gli fa chiamandolo “Signor Jim”.
Il film si chiude con la sepoltura delle ceneri di entrambi e con la voce narrante che racconta la volontà di Catherine che le sue fossero sparse al vento “Ma ciò non era permesso”. Solo la morte, in questo caso, riesce a ridefinire i confini tra realtà e idealizzazione quando l’idealizzazione rappresenta il solo modo per riempire un vuoto all’interno del Sé.
Mariangela Bucci Bosco
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