Visti da Giovanni Lancellotti

Locandina "Garage Olimpo"“Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt”.
VIRGILIO Eneide. I, v. 462.

“Chiunque abbia avuto occasione di riflettere sulla storia e sulla politica non può non essere consapevole dell’enorme ruolo che la violenza ha sempre svolto negli affari umani, ed è a prima vista piuttosto sorprendente constatare come la violenza sia stata scelta così di rado per essere oggetto di particolare attenzione. Naturalmente c’è una vasta letteratura sulla guerra, ma tratta dei mezzi della violenza, non della violenza in quanto tale”.
HANNAH ARENDT Sulla violenza. Guanda, 1996 (1970), pag. 11 e nota 6.

“Non è possibile riparare Auschwitz, o le complicità con Auschwitz…: solo le vittime potrebbero, se fossero scampate alla morte. E forse neanch’esse, poiché esistono crimini e ingiustizie che ledono l’ordine civile in quanto tale, prima ancora di ferire i singoli individui. Sono i casi in cui è la polis a subire un torto…: non a caso il codice penale prevede per tali evenienze l’obbligatorietà dell’incriminazione. La memoria e i lutti di una polis sono vissuti…sempre nella fatica. Spesso, come per i Lager di morte, non sono quasi verbalizzabili”.
BARBARA SPINELLI Il sonno della memoria. Mondadori, 2001. Pag. 23.

Garage Olimpo e Gli occhi stanchi sono due film molto diversi tra loro, il primo racconta le vicende dei desaparecidos argentini all’epoca dell’ultima dittatura militare di quel paese (1976-1982), il secondo ricostruisce le dolorose vicende di una ragazza polacca di 28 anni (Agnieszka Czekanska, che nel film prende il nome di Eva), entrata nel mondo della prostituzione e costretta a rimanervi per otto anni, come una schiava, fino alla sua fuga da una realtà diventata insopportabile perché veicolo di un’infinita abiezione fisica e morale.
Sono accomunati dalla trattazione del tema “violenza”, argomento che, da un punto di vista filosofico e psicologico, può essere definito come totale disconoscimento dell’altro, visto come proiezione della propria distruttività (nelle rispettive figure del sovversivo e della puttana). In entrambe le opere, anche se in diversi modi, emerge la denuncia, attraverso i mezzi dell’arte, della totale assenza, politica nel primo film, e sociale nel secondo, di una società che, nel suo complesso, riconosca la dignità della persona in quanto tale, indipendentemente dalla sua appartenenza politica (e dalla prassi conseguente) o dal suo valore di scambio (il potere economico sui mezzi di produzione e distribuzione).

fotogramma da "Gli occhi stanchi"La protagonista femminile di Garage Olimpo (Maria) è una studentessa che occupa il suo tempo libero nelle villas miserias (bidonville) di Buenos Aires, accanto ai diseredati, insegnando loro a leggere e scrivere. Eva è una ragazza povera, prima di otto fratelli, appartenente ad una famiglia operaia, nata in un paesino sul Mar Baltico che, per mantenersi all’Università, fa la cameriera in un albergo per stranieri di Varsavia. Le viene prospettato di fare la ballerina nel night dell’albergo stesso e così di guadagnare di più. Da ballerina a prostituta occasionale il passo sarà breve: il desiderio di avere una quantità di denaro tutto sommato modesta, ma comunque mai vista, di permettersi spese inimmaginabili prima, di mandare qualche soldo a casa, di smettere l’esperienza dopo un pò di tempo.Da una parte un impegno sociale, da parte della protagonista del film di Bechis, alieno dalle coscienze falso liberali e percorse dalla patologia individualistica di una classe dominante corrotta, violenta e distruttrice che non tollera l’esistenza della solidarietà (che di per sé è sovversiva), dall’altra la miseria in un paese eteroproclamato democratico-popolare e che, dietro l’ideologia, nascondeva realtà economiche ai limiti della sussistenza, la cui uscita dal blocco sovietico, soprattutto dopo il collasso “socialista” del 1989, spesso si è collocata sui cattivi sogni di un benessere a portata di mano e di un individualismo debolissimo sul quale i poteri di una criminalità mafiosa venuta alla luce molto in fretta dai sotterranei della sua esistenza, hanno occupato gli spazi di egemonia sugli individui e su interi ceti sociali.
Due violenze newtonianamente universali, che annullano i valori fondamentali della persona: la sua integrità fisica, che è e deve essere il limite invalicabile, anche in caso di conflitto politico, e l’identità di relazioni, di rapporti familiari, di esistenza sulla terra: i desaparecidos non hanno nemmeno il conforto di una tomba e gli schiavi sociali all’interno della prigione in cui sono costretti hanno perduto tutti i diritti e, primo fra tutti, quello della dignità.

Forse mai come ora allo statalismo hegeliano va sostituita la pietà di Antigone, per la rifondazione di un nuovo patto statuale e sociale in cui l’essenza della psicologia (gli aspetti soggettivi del comportamento) abbia un reale spazio che affronti il dolore e schivi gli inganni delle false elaborazioni del lutto (una pacificazione senza giustizia, ad esempio), che dia dignità d’appartenenza sociale ed individuale alla città sotterranea che sta nascendo intorno a noi (la nuova realtà dell’immigrazione, ad esempio) e non ci consoli con falsi obiettivi New Age di pacificazione col mondo attraverso una spiritualità artefatta e di consumo oppure con un benessere psichico basato sulla “contemplazione del proprio ombelico”.
Ho letto i due film con questi intenti, anche se non ho perso di vista la forza delle immagini che, in diverso modo, le due opere ci offrono, e che ci può dare una chiave di visione contenutistica del taglio interpretativo che ho proposto, affinché il parlare di un’opera filmica non si riduca soltanto ad un pretesto per parlare d’altro.

GARAGE OLIMPO

Regia: Marco Bechis.
Sceneggiatura: Marco Bechis e Lara Fremder.
Fotografia: Ramiro Civita.
Montaggio: Jacopo Quadri.
Musica: Jacques Lederlin.
Scenografia: Ròmulo Abad.
Costumi: Caterina Giargia.
Interpreti e personaggi: Antonella Costa (Maria Fabiani), Carlos Echevarria (Félix), Dominique Sanda (Diane, madre di Maria), Chiara Caselli (Ana, l’autrice dell’attentato al militare che dirige Garage Olimpo).
Produzione: Amedeo Pagani per Classic/Paradis e Films/Nisarga.
Distribuzione: Istituto Luce.
Durata: 98′.
Origine: Argentina/Italia, 1999.

Buenos Aires 1978, in piena dittatura militare. I vertici delle forze armate e del governo argentino decidono che tutti gli oppositori o i presunti tali, politici e sindacali, devono essere eliminati fisicamente, ma con operazioni segrete e di cui pochissimo compaia alla luce del sole. Gli squadroni della morte sequestrano i sospetti e li detengono in carceri illegali e clandestine, sottoponendoli a tortura, perché confessino i legami con i loro “complici” o semplicemente per annientarli, sia fisicamente che psicologicamente. Maria, una studentessa di vent’anni, viene sequestrata e torturata. Fra i suoi carcerieri c’è Félix, un innamorato respinto o comunque non accettato, che cerca di proteggerla, inutilmente, perché Maria subirà la sorte di tutti gli imprigionati di Olimpo: dopo mesi di detenzione e di torture, verrà loro promesso che saranno trasferiti in altre carceri e che la loro prigionia sarà regolarizzata; la loro sorte sarà invece quella di essere narcotizzati, caricati su un aereo militare e da lì gettati nel Rio della Plata, così che di loro non rimanga nessuna traccia. Garage Olimpo è la ricostruzione visiva della detenzione clandestina, dei suoi ritmi, dei suoi riti violenti, dell’universo concentrazionario di questa prigionia sotterranea. Marco Bechis, il regista, è stato detenuto per dieci giorni, nel 1978 in uno di questi luoghi di dolore e di morte (il Club Atletico) e poi liberato, per uno di quei misteriosi meccanismi diversi che rendono illogica anche la più perfetta macchina di annientamento (nel senso che viene lasciato libero un testimone).
Ma, come per i campi di concentramento nazisti le testimonianze dell’accaduto da parte dei sopravvissuti sarebbero state accolte con difficoltà (“nessuno vi crederà”, come disse a Primo Levi un ufficiale delle SS prima dell’arrivo degli Alleati), così per le carceri clandestine argentine la giustizia non ha ancora fatto completamente il suo corso, per il silenzio complice degli apparati militari, per la difficoltà della ricostruzione di testimonianze che abbiano la valenza giudiziaria di prove, perché una generazione è passata (e la parte più sensibile e matura politicamente è stata uccisa: i desaparecidos sono trentamila), perché Mnemosine (la memoria) e Antigone (la pietà umana) per trionfare hanno bisogno di tante fatiche e di tempi lunghi, ma non lunghissimi, perché allora subentra l’
Oblio che rende ancora fecondo il grembo della violenza fascista.

Il film si apre con una carrellata aerea su uno specchio d’acqua limaccioso e mosso dal vento, il movimento della macchina è rapido, più che un avvicinamento sembra  una fuga da un fiume che ha tutte le caratteristiche di un Acheronte infero; quando la cinepresa si muove lievemente in orizzontale e si allarga il campo di visione, lontano, in controsole compare la città, con grattacieli che si stagliano su un cielo di nulla.
L’acqua è quella dell’estuario del Rio della Plata, un confondersi di acque che arrivano lì partendo dalle frontiere dell’Argentina col Brasile e si fondono con le acque dell’Atlantico. Il colore di questa mescolanza è indescrivibile, nel film sembra sangue conservato troppo a lungo e che ha perso il colore rosso per diventare un’accozzaglia acida di liquame fognario.
La sequenza finale tornerà sulla medesima immagine: è la tomba degli scomparsi che, narcotizzati, saranno gettati nel Rio perché di loro scompaia ogni traccia. Le due sequenze sono estremamente realistiche, nulla che riguardi l’horror film; qui l’inferno, come dice Calvino, è “dei vivi”.

Le sequenze di azione del film sono poche, girate in esterno (le Ford Falcon che prelevano i “prigionieri”, masse scure che camminano su ruote, più carri funebri che automobili, le scene di vita quotidiana a Buenos Aires, che fanno da sfondo all’“uscita” di Fèlix e Maria dalla prigione, le scene girate al rallentatore dall’alto, che riprendono le strade centrali della metropoli sudamericana, una vita apparentemente normale e un po’ addormentata dall’effetto del rallentamento della ripresa: una città “superna” resa con immagini artificiali, contrapposta ad una città “infera” reale e sconosciuta, resa con immagini “sporche”, con luci basse, disordinate, provenienti dai posti più disparati (una bocchetta fognaria, una lampadina volante, una porta aperta all’improvviso su un neon che sbianca quasi del tutto l’immagine).
Bechis si è trovato di fronte ad un problema visuale molto serio dal momento che non esiste nessuna documentazione iconica dei luoghi di detenzione e tortura (in numero di 365) che sono esistiti in Argentina negli anni 1976-1982. Chi poteva parlare è stato assassinato e chi è sopravvissuto ha passato il tempo della prigionia il più delle volte bendato. La ricostruzione dell’ambiente risulta da brandelli di testimonianze (così come brandelli di ossa sono quelle che si trovano degli scomparsi che sono stati sepolti in terra, quelli spariti in mare si sono trasformati nel “nulla rimane”), ma il regista ha voluto ricreare sul set una vita di finzione il più possibile vicina a quella che è stata la realtà. Infatti le comparse sono parenti di scomparsi, i vestiti indossati dai prigionieri sono i vestiti di coloro che sono stati uccisi e Garage Olimpo (una prigione realmente esistita) è ricostruita come devono averla vista i suoi occupanti, per colpi d’occhio, per immagini entrate per un attimo nella vista sofferente di chi aveva ricevuto scariche elettriche nel corpo per una giornata intera, di chi era mantenuto in una vita ai limiti della sopravvivenza perché, come dice “Tigre”, il responsabile di Garage Olimpo, “nemmeno la morte te la puoi scegliere, perché te la diamo noi, quando vogliamo noi”.
Maria, con la sua figura fragile di poco più che adolescente, attraversa le fasi di questo girone infernale, mutando la sua immagine di ragazza normale in un corpo scomposto e sporco, privato di ogni controllo su di sé, costretta a soffrire per denunciare i suoi compagni e, infine, addormentata, caricata su un aereo e buttata in un mare di acqua rugginosa.

La psicologia di Maria è condotta dall’autore su un processo umano di forte verosimiglianza: ad un primo periodo di ventiquattro ore in cui Maria non parla e viene ridotta ad un conduttore umano di elettricità (la brutalità viene subito messa in scena, col denudamento, con i polsi e le caviglie legate sul tavolo della tortura, col corpo che viene sporcato dalla lordura presente permanentemente in luoghi che nessuno si incarica di pulire, dal corpo della ragazza che subisce movimenti da burattino privato dei fili sulla sua reale essenza di carne umana, di nervi, di muscoli, di ossa).
La sequenza è girata con estrema delicatezza, con una scelta del tutto ellittica, con particolari che lo spettatore deve mettere insieme per capire che cosa è successo, con sprazzi di luce bassissima che si insinuano nella caligine della cella [1].
In un secondo tempo Maria, sebbene riconosca Felix fra i suoi carcerieri, è costretta a scendere nei “sotterranei della sua psiche” e a mettere in atto gli istinti primordiali di sopravvivenza, come risposta alla paura che è subentrata all’isolamento, alla separazione completa dal mondo esterno, alla disperata consapevolezza che nessuno potrà cercarla. Emerge la naturalità della paura, ampliata ad arte dai propri simili, i carcerieri [2].
E qui arriva le delazione, la confessione, la ragazza racconta di un appuntamento che avrebbe dovuto avere il giorno stesso con alcuni suoi compagni di militanza, spostando di quattro ore l’avvenimento, in modo che i suoi amici non siano catturati. Disgraziatamente uno di loro, non vedendola arrivare, la attende, nello stadio in cui si erano dati appuntamento, fino a quando non è catturato dalla militari in borghese, rincorso all’interno del campo durante una partita. La scena è presentata come se fosse ripresa dalla stazione televisiva sportiva, il commentatore segue la scena come se fosse una finzione facendosi domande o riferendo neutralmente la scena (“vediamo un uomo che fugge in mezzo ai giocatori, è inseguito da altri due. Gli inseguitori sono armati, gli mettono le manette, sì sono armati. L’uomo è bloccato”. Sembra la telecronaca dell’incontro di calcio e invece è la cattura di un uomo che non uscirà vivo dalla detenzione. La sequenza, seppur breve, è emblematica, o meglio simbolica, di come i mezzi di informazione hanno coperto tutto ciò che succedeva, non tanto non raccontandolo, perché non si sapeva, ma dando spazio ad avvenimenti che, in sé e per sé servivano a coprire l’inferno sotterraneo che era diventata l’Argentina della seconda metà degli anni 70 (il calcio è stato, in questo senso, un potente anestetico) [3].

Maria (la vittima) e Félix (il carnefice), nel prosieguo della vicenda carceraria, costruiscono un rapporto che nulla ha a che fare col supposto legame di sopravvivenza che farebbe nascere una complicità emotiva fra i due attori di un siffatto dramma [4].
In realtà, se Maria è la vittima nel senso di come si svolge la vicenda, Félix è il vero perdente, non riesce ad avere l’amore della ragazza, se non come quello di un cucciolo spaventato che, quasi sotto anestesia, si presta ad una messa in scena amorosa impacciata e fuorviante e non ricopre nemmeno un’identità definita di carceriere. La sequenza che vede la separazione fra la ragazza e il carceriere è emblematica di due sconfitte, una dovuta alla violenza della storia (quella di Maria) e l’altra relativa all’ambiguità di fronte alla scelta del proprio ruolo: non esistono carcerieri buoni [5], le “funzioni” sono definite e rigide, per questo il mondo è invivibile, perché tra i dominanti e i dominati non c’è spazio per la flessibilità e gli aggiustamenti che definiscono la vita comune.

Un’ultima connotazione rispetto alla collocazione storica della vicenda. Chi segue l’attualità comprende subito che si tratta dell’Argentina, ma ci sono pochissime notazioni per riconoscerlo: le radiocronache delle partite di calcio del campionato internazionale, alcuni particolari delle strade viste dall’alto, da molto lontano, i colori della bandiera argentina che si notano per qualche secondo sulle ali dell’aereo che getterà i corpi dei sequestrati nelle acque del Rio de la Plata, ma sono dettagli che pochi sanno riconoscere come identificativi di una realtà storica. Bechis ha voluto descrivere una vicenda connaturata nella realtà e, nello stesso tempo, fuori della storia, ma giacente al suo lato e sempre pronta a rientrarvi, autoriprodotta da un grembo sempre brechtianamente fecondo dei mostri della violenza fascista.

C’è una brevissima sequenza di Garage Olimpo che prefigura una questione dolorosa, ancora aperta, portatrice di nuovo dolore, ma anche di qualche residua speranza.
In uno stanzone di Garage Olimpo si vede un carceriere che intrattiene un gruppo di bambini di diverse età, ma comunque piccoli. Il secondino, rivolto ad un collega che apre la porta della stanza all’improvviso, dice “Che palle…dammi il cambio”; senza stacco la macchina da presa si sposta su un corridoio percorso dalla luce ammalata che caratterizza la linea d’ombra del mondo carcerario sotterraneo e segue, ripreso di spalle, un altro carceriere che cammina tenendo per mano un bambino che piange. Rivolto non si sa a chi il carceriere dice “Se continua a piangere così lo restituiamo”. Sono brevi accenni alla vicenda tragica dei bambini nati in prigionia dalle madri che erano incinte al momento della cattura. Dopo il parto le madri sono state uccise e i bambini sono stati presi in adozione o da carcerieri o da altre persone comunque in contatto con i torturatori.
Su questo argomento Bechis girerà un altro commovente film intitolato “Figli-Hijos” (2001), attualmente in programmazione nelle sale cinematografiche.


NOTE:

[1] Da un punto di vista iconografico mi hanno ricordato le scene di tortura dei militari francesi nei confronti dei combattenti algerini, riprese nei titoli iniziali di “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo, anche se queste ultime sono in bianco e nero ed hanno carattere più di documentario. Ma la comunicazione di passione, sofferenza e privazione assomiglia molto all’espressione di Bechis, comunicata durante la tortura di Maria.

[2] “Tutti gli uomini hanno paura. Tutti. Chi non ha paura non è normale, ciò non ha niente a che vedere con il coraggio”. Jean-Paul Sartre Il rinvio. Mondadori, 1958, pag. 63.

[3] Nel 1978 i campionati mondiali di calcio si svolsero in Argentina e videro la nazionale del paese ospitante conquistare la coppa del mondo. La televisione argentina seguì la propria nazionale non con telecronache, cioè con commenti professionali delle partite che si svolgevano, ma come un vero supporter mediatico della squadra.
Nel 1983, nel settore documentario della Mostra del Cinema di Venezia, alcuni cineasti italiani presentarono un lavoro collettivo, consistente nella proiezione della finale del campionato mondiale di calcio, voce di commento compresa, che assomigliava a quella di un nazionalistico venditore di un asta televisiva, mentre sullo schermo scorrevano i primi nomi recuperati delle migliaia di desaparecidos.
Si trattò di un uso militante e demistificatorio del mezzo televisivo, nato da un’idea molto semplice, sovrapporre, come in una lastra tombale, i “nomi” della realtà argentina alla finzione falsificatrice della sbornia calcistica (il dominio di Lete e dell’Oblio).
Qualche anno dopo il Living Theater, nello spettacolo contro la pena di morte intitolato “Not in my name” usò un mezzo espressivo analogo, mentre un attore leggeva gli articoli della Costituzione degli Stati Uniti d’America, un altro leggeva i nomi di tutti coloro che erano stati condannati a morte negli ultimi anni.

[4] Mentre sulla falsariga della sindrome di Stoccolma sembrano essere, almeno in alcune parti il film Il portiere di notte di Liliana Cavani (1974) e La morte e la fanciulla di Roman Polanski (1994).

[5] Sono pochissimi i casi di torturatori “pentiti”, perché sono andati incontro alle rappresaglie degli ex compagni, al perseguimento della giustizia e alla pressione dei familiari dei sopravvissuti.

Nota finale: lo scopo principale delle azioni clandestine degli squadroni della morte argentini era quello di eliminare fisicamente e di cancellare anche dalla memoria l’esistenza degli oppositori al regime, dove oppositore significava soltanto diverso, perché bisognava essere uguali o indifferenti o silenziosi e passivi complici.
Lo scopo della libertà concessa ai pochi sopravvissuti era quello di seminare terrore, perché avrebbero raccontato quello che era successo, materia di notizie al limite dell’incredibilità, come realtà destinata a provocare quella che Guy de Maupassant nei Racconti della beccaccia ha descritto come una “sensazione atroce, una decomposizione dell’anima, uno spasmo terribile del pensiero e del cuore, il cui solo ricordo produce brividi d’angoscia”.
I sopravvissuti alla tortura non sono meno segnati di coloro che sono scomparsi, hanno conservato il bene prezioso della vita, ma a costi altissimi. Nel corso dei tormenti la maggior parte di loro ha messo in opera una sorta di desensibilizzazione del corpo, un allontanarsi da sé, come se la realtà che accadeva riguardasse un estraneo. Questo processo, se da un lato ha permesso la sopravvivenza (o tale è la coscienza dei sopravvissuti), dall’altro è come se avesse congelato le emozioni delle persone che hanno attraversato queste tenebre. Immenso, e a volte destinato all’insuccesso, il lavoro terapeutico di psichiatri e psicologi per la rieducazione alle emozioni che cauterizzi il ricordo sensibile dei dolori fisici delle torture. Il meccanismo di iperdifesa, nella carne e nella psiche delle vittime, si è come fossilizzato e impedisce alle emozioni di entrare nella sfera di esperienza dell’individuo. Fin dalla fine degli anni 70 a Copenaghen esiste una clinica psichiatrica specializzata nel recupero delle persone la cui psiche è stata offesa dalla tortura per fini politici. A questo proposito molto utile è la lettura del libro a cura di Eduard Klain Psicologia e psichiatria di una guerra, Edizioni Universitarie Romane, 1992, anche se riguarda la realtà delle guerre degli anni 90 nella ex Yugoslavija e non l’America Latina.

Per chi fosse poi interessato a seguire il filone cinematografico di rappresentazione dei periodi della dittatura argentina degli anni 1976-1982, si riporta di seguito l’elenco dei film distribuiti in Italia e reperibili anche in videocassetta:

La storia ufficiale di Luis Puenzo (1985)
La notte delle matite spezzate di Hector Olivera (1988)
Figli-Hijos di Marco Bechis (2001)

Missing di Costa Gavras (1982)
Nowhere di Luis Sepulveda (2001)

Gli ultimi due film si riferiscono alla dittatura di Pinochet in Cile.
Figli-Hijos e Nowhere non sono ancora disponibili in videocassetta, ma sono attualmente in proiezione nelle sale cinematografiche.


GLI OCCHI STANCHI

Regia: Corso Salani.
Sceneggiatura: Corso Salani e Monica Rametta.
Fotografia: Riccardo Gambasciani.
Montaggio: Alessandro Piva.
Suono: Marco Chiarotti.
Interpreti principali: : Agnieszka Czekanska (Eva). Corso Salani (Alberto). Alessandro Piva e Marco Chiarotti nella parte di loro stessi.
Girato in video.
Produzione: Balaton Film.
Distribuzione: Vitagraph.
Origine: Italia, 1995.
Durata: 95′.

Una ragazza polacca di 28 anni, Eva, torna a casa dopo otto anni trascorsi nell’Europa occidentale facendo la prostituta. È accompagnata da una piccola troupe cinematografica che fa del viaggio l’occasione per filmare un lungo racconto, da parte di Eva, della vicenda orribile degli anni passati nei night, negli alberghi e sulla strada, a prostituirsi: una risentita confessione che fa emergere gli aspetti più squallidi e violenti dell’esilio e della schiavitù.
La troupe ed Eva partono in pulmino da Roma ed arrivano fin sul Mar Baltico, dove avviene la separazione, Eva rimane in Polonia.

Non è un film a soggetto vero e proprio, non è un documentario, perché ha parti scopertamente di finzione.
Parlando alla maniera di Zavattini si potrebbe dire che è un pedinamento cinematografico, non spontaneo, ma premeditato [1].
La narrazione inizia con la cinepresa, in posizione frontale, che riprende da un pulmino intento a fare per due volte lo stesso giro intorno a Piazza Esedra, a Roma, il sonoro sospende i rumori ambientali, una voce femminile, in una lingua che sapremo poi essere polacco, comincia a raccontare l’infanzia, la nascita dei fratelli, le scuole elementari, i riti educativi di un mondo così detto socialista degli inizi degli anni 70. I sottotitoli traducono in italiano i passi essenziali di questo inizio di racconto.
In corrispondenza di uno dei porticati di Piazza Esedra, quello dalla parte della Stazione Termini, il pulmino si ferma, la macchina da presa inquadra una ragazza che aspetta, in piedi, con le braccia conserte, sembra abbia freddo, ai suoi piedi c’è una borsa da viaggio. Le porte del pulmino si aprono, viene inquadrata, da dietro, la pattuglia dei cineasti (Alberto, il regista del film, Corso Salani, il produttore e il tecnico del suono, che regge un microfono). Vengono fatte le presentazioni. La ragazza è Eva, la protagonista di questo piccolo roadmovie, Alberto le si rivolge in italiano, Eva non capisce, si passa ad un inglese “turistico”, semplicissimo, che non verrà mai tradotto e che servirà da lingua di comunicazione durante il viaggio verso la Polonia. Il polacco, con la traduzione sottotitolata, servirà per riempire di narrazione lo svelamento dello spazio stradale, privo di qualsiasi interesse, che intercorrerà fra Roma e il mar Baltico, e che riguarderà le vicende “occidentali” della ragazza.

Eva comincia a raccontare come la miseria della sua vita, per nulla piena di dignità, l’abbia spinta a passare, da cameriera in un albergo internazionale di Varsavia (per mantenersi agli studi universitari), a ballerina-prostituta, nello stesso albergo, e poi a prostituta senza più nessun abbellimento, a Cipro, in Germania e poi in Italia, prima in Versilia, a Viareggio, e poi a Fiumicino. In tutto passeranno otto anni ed Eva compirà gli anni da venti a ventotto. Durante l’ultima permanenza in Italia fuggirà da una vita di schiavitù. Il viaggio con la troupe cinematografica è il suo “ritorno a casa”.

Gli occhi di Eva sono stanchi, spesso sono ripresi in sguardi vuoti e duri, rivolti al nulla del paesaggio circostante, racchiudono una tristezza che, già a prima vista, sembra priva di qualsiasi consolazione. L’atteggiamento affettuoso e scherzoso del gruppo di ripresa non apre quasi mai spazi di comunicazione: il suo racconto è come senza interlocutore, come una confessione davanti ad un giudice, fatta per liberare una coscienza, non certo per speranza o amore o per il ripristino della giustizia. Lei lo sa, la pietas è assente dalle sue parole.
Da un punto di vista cinematografico la “gravità” della materia è resa da brevi intermezzi (le soste sull’autostrada, le colazioni nei motel dove alloggiano i compagni di viaggio, le interruzioni momentanee delle riprese per piccoli guasti alle attrezzature) durante i quali il dialogo diviene come parentetico, silenzioso, sospeso. Sono momenti in cui, con soluzioni iconiche semplicissime (un sorriso timido di Alberto, un sigaretta accesa distrattamente da Eva, la ripresa di un atteggiamento pensoso e carico di non detto), il racconto si trasfigura e accede a momenti emotivi ricostruiti con brandelli di quello che era il progetto di vita di Eva e con pesanti substrati di ciò che è stata la sua storia. Alberto è lì, non consola, non fa battute fuori luogo, non accentua il suo ruolo di attore, sa di essere testimone di una catastrofe esistenziale, ascoltata con quella vera comunione d’anima che soltanto in casi rari della vita possiamo scoprire in persone che ci stanno accanto [2].

Nello scorrere del racconto di vita di Eva si alternano momenti di spiazzamento percettivo (come se parlasse di un’altra persona) a stazioni temporali di autointerpretazione di quanto avvenuto (l’abiezione del lavoro, la schiavitù della vita, l’assenza di identità che non fosse quella di una macchina corporea per far soldi destinati ad altri, la paura onnipresente all’interno di una prigionia dalla quale non era possibile fuggire e di una condizione reclusa che non era possibile in alcun modo riscattare). La commozione e le emozioni sono il connotato fondamentale di queste agnizioni mentali [3].

Ciò che attrae (ma è un giudizio completamente soggettivo) nel film è la capacità del regista, sia come attore che come organizzatore dell’intera materia dell’opera, di avvicinare un argomento doloroso, pieno di malvagità e di quell’orrore sommerso che sembra accompagnare la nostra attualità, con un tocco lieve, di quella leggerezza che, nella definizione calviniana, è un fine raggiunto attraverso un processo quasi “michelangiolesco” di sottrazione di pesantezza alla realtà, tutto il contrario, concettualmente, di un’ingenuità primitiva di carattere romantico.
Alberto è il contenuto clown chapliniano che conosce il valore del sorriso col fiore in bocca perché ha conosciuto la devastazione bellica dei giardini e che, all’impossibilità della riconciliazione, sostituisce la dura disciplina dell’accettazione, con la piena coscienza che però la vita non sarà più quella di prima [4].

Anche l’arrivo a casa di Eva non avrà di per sé i connotati di un finale felice. La sua telefonata alla famiglia, che è ignara del ritorno della figlia, termina con una domanda “posso tornare di nuovo a casa?”. Non si ode nessuna voce all’altro capo del telefono, ma Eva riporta un debole sì alla sua domanda. A quel punto le immagini non vanno all’incontro con la famiglia, ma terminano in un addio senza parole su una spiaggia color nocciola del Mar Baltico.
“Vi voglio tanto bene” sono le parole, le uniche in italiano e le ultime, che Eva lascia ai suoi compagni di viaggio, per poi allontanarsi, sulla spiaggia, verso un altrove altrettanto ignoto come era la sua meta all’inizio della sua venuta in Occidente.
Ancora una volta il regista Corso Salani si rivela come autore di un “cinema della timidezza o della sublime delusione” [5].

Gli occhi stanchi rimane nella mente come un gentile tentativo di risalire a fatica il cammino di un romanzo di formazione fallimentare, accompagnato dall’amara consapevolezza che la cura e non la guarigione è la grande prova a cui vengono chiamate le anime più coscienti, se un senso può nascere dalla conoscenza demistificata dei nostri tempi.


NOTE:

[1] Cesare Zavattini è stato un artista complesso, figura di primo piano del neorealismo cinematografico del secondo dopoguerra. Tra le sue molteplici invenzioni narrativo-cinematografiche spicca quella del pedinamento del personaggio, che doveva essere seguito, con macchina a spalla, per essere colto nei momenti di vero rapporto con la realtà ambientale.

[2] Più di una volta, nel corso della visione del film, sono caduto nella tentazione di paragonare il ruolo di Alberto a quello di uno psicoterapeuta. E la mente ha scelto per me due figure di riferimento fuori dei canoni psicologici in senso specifico, ma dentro a quel modo di essere che dovrebbe costituire, assieme alla diversa dottrina, il corredo di sapienza di chi ha scelto di svolgere una professione indicibile come quella dello psicoterapeuta: il dottor Karpinsky descritto da Guido Morselli nel romanzo Dissipatio H.G. (Adelphi 1977) e il Dottor Y rappresentato in poesia da Margherita Guidacci nella raccolta Neurosuite (Neri Pozza 1970): “…sui sentieri ingombri di macerie / tu cammini umilmente / e raccogli ed attendi / senza imporre nessuna conclusione / dove altri userebbero solo la presunzione /…”.

[3] Sono cosciente che dovrei andare incontro a molti distinguo, ma sono intimamente convinto che la condizione di Eva abbia tratti di somiglianza stretta con quella di Maria in Garage Olimpo. L’universo claustrofobico della cella e quello altrettanto recluso della camera d’albergo, la presenza di carcerieri-padroni, l’altissimo rischio di eliminazione fisica, la violenza sul corpo come metodo di dominio. Differenza, certo notevole, la maggiore possibilità di fuga che la condizione di schiava-prostituta permette. Le cronache giornalistiche sono comunque ricche di notizie di prostitute assassinate perché volevano uscire dal giro.

[4] La memoria va al romanzo Biliardo alle nove e mezzo di Heinrich Boell (1959) e al film liberamente tratto da quest’opera narrativa, dal titolo Non riconciliati, ossia solo violenza aiuta dove violenza regna di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet (1965). Nelle due opere viene descritta la difficoltà di una famiglia borghese tedesca (in un periodo che va dagli anni 10 agli anni 50), ad integrarsi con la storia della Germania. Va da sé che qui ci troviamo nell’immenso campo di un’analisi politica all’interno della quale le vicende personali sono soltanto un emblema e non l’elemento costitutivo centrale. Penso però che, fino a quando non si farà diventare reale materia politica, e non mera vicenda sociale avvicinata timidamente alla politica, la sorte di milioni di uomini e di donne che hanno visto sconvolta lo loro vita da uno “spiazzamento” territoriale e sociale obbligato (dai dati di fatto, soprattutto economici, se non da una volontà politica vera e propria con responsabilità di gruppo o personali), non si riuscirà a cogliere l’imbarbarimento della vita europea occidentale, dove convivono, gomito a gomito, situazioni sociali che possiamo definire regolari, e veri e propri inferni (gli schiavi del lavoro cinesi, le prostitute private di qualsiasi libertà, i così detti extracomunitari costretti a subire condizioni di lavoro preindustriali).

[5] La definizione è di Tullio Masoni che recensisce in breve il film in Annuario del Cinema , stagione 1995-96. Edizioni di Cineforum.
 
Giovanni Lancellotti
Psicologo psicoterapeuta SCRIPT Centro Psicologia Umanistica

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