Negli ultimi due anni ho avuto la possibilità di lavorare con donne che presentavano una sintomatologia da attacchi di panico.
La relazione terapeutica mi ha dato la possibilità di ipotizzare che, pur potendo rintracciare caratteristiche di personalità comuni tra loro, il dato che più le rendeva simili era l’utilizzo dell’attacco di panico come risorsa per avviare un cambiamento sostanziale nella loro vita. Questo è stato simbolizzato da tutte loro con “sorpresa e timore” e anche con compiacimento ,lì dove il processo terapeutico ha raggiunto un notevole progresso.

Nei primi anni di professione, mi è capitato di incontrare un solo cliente che, mentre era già in psicoterapia, ha avuto un attacco di panico. Quello che mi colpì in quell’occasione fu il terrore provato dalla persona, il desiderio di mettere immediatamente in campo pesanti manovre di evitamento, la impossibilità di controllarsi e il chiedere con urgenza (cosa che non aveva mai fatto prima e che non ha mai fatto dopo) un appuntamento al di fuori di quello previsto dalle sedute. Si trattava proprio, come dicono i manuali, di sensazioni fisiche incontrollabili, della paura di qualcosa a cui non si può reagire nel momento in cui avviene, del terrore che accadesse di nuovo, del timore di essere pazzo. Mi ricordai di quello che aveva detto la dott.ssa Valeria Vaccari quando ci aveva presentato il D.A.P.(1) durante il quadriennio della scuola rogersiana: “è una delle esperienze peggiori che possano capitare ad una persona”.
Non mi spaventai, rimandai al cliente la comprensione di quello che provava, gli detti delle indicazioni sull’opportunità di rivolgersi al suo medico per un’eventuale conferma della diagnosi e per possibili ulteriori accertamenti.
La cosa che, credo, risultò più utile fu dare un nome a quello che era successo. No, non era pazzia, era un attacco di panico. Lavorammo per alcune sedute su come stava vivendo l’esperienza lavorativa durante la quale si era verificato l’attacco, su quanto era significativo per lui quel nuovo lavoro e quanto, allo stesso tempo, lo temesse.
L’episodio fu prezioso per rafforzare l’alleanza terapeutica con il cliente.
Per anni non mi è più capitato di incontrare persone che chiedevano aiuto a causa di attacchi di panico.
Da settembre 1998 ad oggi, invece, il numero si è intensificato. Donne dai 20 ai 40 anni, a volte con una o due esperienze di A.P. (2), altre con attacchi di panico che si sono ripetuti a distanza di tempo, una con un D.A.P. trascinato per due anni, con attacchi costanti e corrispondenti agli esami universitari, una con un esordio violento e attacchi di panico continui per una settimana.
C’è un dato che mi colpisce e che avvicina queste clienti al primo caso di attacco di panico che ho trattato, ed è l’incredibile sollievo che provano queste persone quando, nei colloqui di psicoterapia, non vengono incoraggiate a “farsi forza”. La loro reazione istintiva e quella dei familiari è, invece, proprio quella di spronarsi e spronare a riprendere il controllo di sé. Se si considera che l’attacco di panico si presenta in persone con un’organizzazione di personalità fobica e/o ossessiva (per quello che si intende con “organizzazione fobica” e per “organizzazione ossessiva”, faccio riferimento a Sistemi cognitivi complessi e psicoterapia di M. Reda, ed.NIS, pagg.93-107 e pagg.135-143), persone che tendono al controllo delle emozioni ed al controllo dei propri comportamenti e di quelli degli altri nelle relazioni interpersonali, è evidente la paura che provano in una situazione che sfugge completamente al loro controllo. La sensazione di non riuscire a controllarsi durante un attacco di panico, e la richiesta di essere tanto forti da riuscirci, creano un ulteriore conflitto tra “dovrei essere tanto forte da” a “non ci riesco”. Dare credito a quello che provano e che hanno provato, dare spazio alle loro paure ed al senso di incapacità, alla loro incredulità per quello che è accaduto proprio a loro, credo che sia il primo indispensabile passo.
Mi sembra di avere imparato alcune cose rispetto alle persone con esperienza di A. P. ed è di questo che voglio parlare attraverso la presentazione di un caso e, soprattutto, attraverso le parole della cliente stessa.

Rossella

Rossella arriva in terapia nell’aprile del 1999. Ha quaranta anni, è sposata da quando ne aveva diciotto ed ha due figli maschi di diciannove e dodici anni.
Si è presenta con un’aria di grande sicurezza, affermando di essere una persona che ama affrontare i problemi che le si presentano. Vuole risolvere il suo problema e non vuole lasciare niente di intentato.
Ha avuto il primo attacco di panico il 2 ottobre del 1998 e lo sgomento si è impossessato di lei. Ha avuto paura di non potere più fare fronte alle richieste familiari, di non potere accudire i figli, di non potere fare fronte agli impegni di cui è sempre sovraccarica. Si descrive come “l’eroina per non disturbare”. Dopo il primo attacco di panico ne sono arrivati altri, di continuo, per una settimana. Il giorno dopo il primo attacco ha richiesto una visita domiciliare. Il medico ha valutato l’aspetto depressivo, non ha detto nulla rispetto al DAP ed ha prescritto un antidepressivo. Per quattro – cinque giorni, Rossella è rimasta in casa, a letto. Il marito molto allarmato per questo comportamento del tutto insolito per Rossella, piangendo e manifestando i suoi timori, l’ha spinta ad alzarsi. Per quindici giorni non è uscita di casa, lei che usciva tutti i giorni e che andava fare la spesa più volte durante la settimana. Il suo pensiero costante era di “non essere più buona a fare nulla”. Appena si è decisa a ricominciare ad uscire di casa, ha chiesto informazioni su una possibile visita da un neurologo. Nello stesso mese di ottobre aveva già fatto la prima visita. Il neurologo aveva fatto la diagnosi di DAP e le aveva modificato la terapia farmacologica. Dal momento in cui ha saputo dare un nome a quello che le era accaduto, ha incominciato a leggere qualcosa sull’argomento.
Dubbiosa rispetto ai possibili risultati della terapia, spaventata da una “piccola ricaduta”, avuta nel mese di marzo, che le aveva fatto pensare “Allora può risuccedere. Mi ha allarmato più di quello della prima volta”, desiderosa di andare a fondo, alla radice dei problemi, come piace a lei, alla visita di controllo dallo specialista ha chiesto un parere sull’opportunità di rivolgersi ad uno psicologo perché aveva letto in una rivista che poteva risultare utile in un caso come il suo. Con una certa dose di scetticismo, che Rossella ha rilevato, le è stato detto che, se proprio voleva, poteva farlo e il medico stesso le ha dato il mio nominativo che gli era arrivato da un collega.
Quando è arrivata nel mio studio, dopo sei mesi dal primo attacco, Rossella attribuiva lo scompenso che stava vivendo al fatto che, per alcuni anni, aveva praticato cartomanzia. Questo l’aveva molto affaticata sul piano emotivo perchè non riusciva a non farsi invadere sia dalle richieste che dai problemi che le venivano portati dalle persone che incontrava. Il dolore degli altri rimaneva dentro di lei appesantendola. Aveva dovuto, con rammarico, interrompere questa pratica che l’appassionava e a cui si era dedicata, nello stile che la contraddistingue, con impegno.
La cliente ha affrontato il racconto della storia di vita con piglio deciso e con evidente sofferenza. Dai fatti emergeva che era cresciuta in un clima di violenza. Il padre non li picchiava ma “urlava e minacciava” arrivando ad inseguire la moglie ed i figli brandendo un coltello; la madre aveva lavorato per tutti e aveva chiesto, a questa figlia in particolare modo, di non ribellarsi, di capire, di “essere grande” per amor suo. Questa madre vittima aveva, allo stesso tempo, modalità aggressive. Rossella ricorda che le liti iniziavano spesso perché lei “lo aizzava”.
L’aggressività della madre sconfinava nel sadismo. La cliente ha raccontato con grande sofferenza un episodio in cui, prendendo a pretesto il fatto che aveva visto la figlia maggiore parlare con un ragazzo, aveva preteso che il marito “le facesse la visita”, verificasse, cioè, se era sempre illibata. Era toccata la stessa cosa a Rossella che era quasi adolescente.
All’inizio della terapia di sé diceva: “Se mi viene da piangere mi dà noia. E’ sinonimo di debolezza e io odio essere compatita. Dò l’impressione di essere quella che non mi sento. Mi sento male, è come se perdessi un po’ della mia identità. (Piangere) con la logica è una cosa normalissima… In me ci sono due Rosselle, una razionale che valuta tutto e un’altra, quella che preferisco, che è estrosa, che si può divertire con tutto, che dice quello che pensa, che diventa aggressiva se mi faccio imbrogliare”. Anche nel momento in cui affiorava la consapevolezza di essere sofferente, sfaccettata e non tutta di un pezzo, Rossella non simbolizzava l’esistenza della parte fragile come una parte di sé.
Nel contesto familiare in cui aveva vissuto fino al matrimonio, Rossella aveva imparato a dire a se stessa che se soffriva e voleva piangere doveva farlo di nascosto e che era indispensabile, per non subire, imparare ad essere forte.
“Non perchè da piccina non piangessi, lo facevo da sola. Mia sorella, di cinque anni maggiore, tentò il suicidio, mia sorella si espresse così. lo non l’ho mai fatto. Quando soffrivo andavo in bagno e piangevo, pregavo, mi sfogavo. Ho avuto il pensiero “La faccio finita” ma solo un pensiero, il suicida è un vigliacco che ha paura di vivere …
Ora non sopporto alcuna imposizione. Non permetterò più a nessuno di dirmi cosa devo fare, di prevaricarmi. Mai a nessuno”.

A 18 anni, quando Rossella si sposa, segue il marito, allontanandosi dalla famiglia di origine. Il matrimonio risulta deludente, le sue aspettative sono alte, ha fame di affetto, di comprensione e, soprattutto, di dialogo. Dice: “Credevo di essere sortita da una prigione e sono entrata in un’altra”. Riversa speranze e affettività sui due figli.
Racconta episodi in cui ha sofferto di claustrofobia e che risalgono a quindici anni prima: uno era avvenuto quando, per farle uno scherzo, l’avevano chiusa in uno sgabuzzino e un altro quando aveva avuto un incidente ed aveva avuto “paura di soffocare”.
Mentre racconta la sua storia di vita, la cliente non perde mai di vista il suo obiettivo, guarire dagli attacchi di panico, e chiede sempre se guarirà.
Emerge anche un’altra paura: Rossella legge molto, è curiosa e rimpiange molto di non avere potuto studiare; è anche intuitiva e anche se non è mai stata fatta una diagnosi, sa che suo padre è una persona malata; descrive la sorella che ha tentato il suicidio come una persona isterica, poco capace di controllare i suoi impulsi. Lei è molto spaventata all’idea di essere portatrice di una tara ereditaria che l’ha segnata. Per lei l’attacco di panico è stato un coperchio che è volato via lasciando scoperte le sue peggiori paure.
Alla decima seduta, parlando della madre e dei rapporti tra sua madre e suo padre, dice: “Mi trovo ad affrontare la parte emotiva di bene, rabbia, paura che si mescolano insieme. Prima mi sento ferita e poi bloccata. Rimango fregata sulle emozioni.”.
In terapia piange molto e spesso: questo la disturba e la fa sentire sollevata: “Lei mi ha fatto capire che io pensavo che il piangere era un segno di debolezza. E’ un sentimento, un’emozione, fa parte della nostra vita. Si può. Mi sta insegnando che devo esprimere le mie emozioni…”.
Seppure in termini di devo, comincia ad affiorare la possibilità che si è sempre negata di esprimere le sue emozioni con qualcuno. In questo periodo comunica al marito su cosa sta lavorando in terapia, sente il bisogno di dire che, anche se piange, vuole essere accettata: “Voglio essere amata per quello che sono, con le mie debolezze”.
Al momento della pausa estiva, il progetto terapeutico per Rossella prevede un indispensabile lavoro sulle emozioni di fragilità, debolezza, senso di inadeguatezza; ritengo che per raggiungere questo obiettivo sia importante non solo usare il contenitore della terapia come spazio sicuro in cui sperimentare le emozioni che prova, ma che sia importante aiutarla ad esplorare quali rischi sente che correrebbe se fosse diversa e se non si sforzasse sempre sia sul piano del fare che del sentire. Rossella ha bisogno di esplorare come può soddisfare il bisogno di essere amata per conciliare il sogno infranto con la sua realtà; un altro punto riguarda il rapporto con i figli perché non sembra esserci consapevolezza riguardo al ruolo che hanno, sia nella comunicazione familiare che nel soddisfacimento dei suoi bisogni più profondi di ricevere stima e fiducia e di avere relazioni significative, basate sullo scambio e sulla intimità.
Al rientro dalle vacanze, che Rossella ha evitato di trascorrere con la sua famiglia di origine, cercando invece di riposarsi (approfittando anche dell’assenza del figlio maggiore), si tuffa in un vortice di impegni pratici ed affettivi. Il 19 settembre ha un nuovo attacco di panico. Arriva alla seduta caricata: “Sono satolla, in un mese sono piena. E lei come sta? Mi deve insegnare a non sentire, mi deve insegnare a dire di no.”. Quando è particolarmente spaventata si carica per non sentire. Parla del figlio e racconta i suoi timori e la sensazione di perdita di controllo che sta vivendo in questa relazione. Parla di sua madre: “Dire alla mia mamma che sto benino vuol dire dirle che può ricominciare”, parla del marito che ha avuto una proposta di lavoro che prevede un’ipoteca sulla loro casa: “Quella casa per me è tutto. Lui lo desidera (accettare la proposta di lavoro ), vuole il mio appoggio, come faccio a negarglielo?”. Lei racconta i fatti ed io le rimando le emozioni che comunica perché credo che per lei sia importante cominciare a dare nome a quello che prova per aiutarla a colmare l’incongruenza che c’è tra il tono sicuro, spesso perentorio, che usa e le paure che ci sono dietro. Con Rossella mi accorgo che, spesso, parlo in modo particolarmente lento. Lei ha fretta di trovare la soluzione, parla con enfasi e cerca di dire più cose possibili nello spazio della seduta; rallentando il mio modo di parlare cerco di aiutarla a fermarsi su quello che dice e su quello che sente. E’ abituata a valutare in termini di quantità e tempi rapidi, credo che sia importante per lei vedere che ci sono altre possibilità.
Nel mese successivo riporta spesso la sensazione di essere al limite, ha imparato ad ascoltare anche i suoi sintomi fisici, riesce a differenziare l’ansia da stress dall’arrivo di un attacco di panico.
Durante la terapia emergono le sue modalità relazionali, il suo bisogno di controllo che non è solo relativo alle sue emozioni ma che riguarda anche le persone a cui tiene, il paragonarsi ad un Sé ideale che non lascia spazio alla stanchezza e ai suoi bisogni, ma che privilegia sempre i bisogni degli altri per paura di danneggiare l’immagine di sé che ha costruito nelle relazioni. Esplora anche a più riprese la rabbia che prova quando cerca, in relazioni strutturate secondo vecchi schemi, di farsi accettare così come vorrebbe essere ora, e si sente non capita e non accettata; ha paura di dovere essere sempre e solo forte e disponibile. Non ha più avuto attacchi di panico, ma si accorge che quando è nella situazione di “avere esagerato, avere voluto dare più di quello che potevo dare” ha delle manifestazioni che ha imparato a riconoscere come segni allarmanti: “all’improvviso il ghiacciolino”.
Alla ventitreesima seduta, parlando della paura degli attacchi di panico dice:
” …Prima non mi ero mai fermata, non avevo la voglia. Vedere come spettatrice la mia sofferenza e capire che c’erano fatti non affrontati. Vedermi crollare a quella maniera dopo tantissimi anni di essere stata forte.
Forse sono arrivata a un punto di bisogno di tirare fuori, voglia inconscia di tirare fuori”.
Ecco, è questo il momento in cui Rossella prende coscienza che il sintomo forse era la risposta ad un bisogno.
Quando parlo di sintomo intendo riferirmi alla definizione di Kelly – un sintomo è la manifestazione espressa attraverso l’atto di essere il suo sé attuale, e non una malignità che si attacca all’uomo (…) i sintomi sono delle domande pressanti espresse tramite il comportamento, che hanno in qualche modo perso i fili che conducono a risposte o a domande migliori- e ancora: -Come nota Tschudi (1977, p. 338), se il mondo del cliente è incerto e induce ansia, il sintomo può diventare “il modo di fornire strutture ad ogni costo”.
Kelly (1955, p. 366) manifesta un’opinione simile quando suggerisce che “i sintomi psicologici possono essere spesso interpretati come il razionale per mezzo del quale le esperienze caotiche di una persona sono state fornite di un significato e di una dimensione strutturale” come si legge in Le Teorie Cognitive dei Disturbi Emotivi di F. Mancini e A. Semerari, ed. NIS, pag. 126. e pag. 128.
Esistono molte ricerche nel campo dello studio della psicologia psicosomatica ed è indubitabile l’effetto della psiche sul soma e viceversa. Nessuno oggi può negare che un malessere fisico incide sullo stato psicologico di una persona e che situazioni psicologiche stressanti incidano sullo stato di benessere fisico di un individuo. Anche i non addetti ai lavori lo sanno ma questo non significa che riescano ad esserne consapevoli in relazione a se stessi. Le caratteristiche di una TCC (3) sono tali da favorire l’apertura del Cliente al terapeuta ed a se stesso.
Attraverso una relazione in cui il cliente non si sente giudicato, non si sente forzato a diventare consapevole di significati che per lui sono ancora poco chiari, in una relazione in cui l’empatia, da quella dei rimandi a specchio a quella situazionale, a quella profonda, è utilizzata nell’interesse del cliente, perchè egli possa acquisire maggiore contatto con il suo vero Sé, il cliente può guardare a se stesso senza doversi preoccupare del parere dell’altro, del giudizio dell’altro, può dare spazio a se stesso e in quello spazio trovarsi. Riuscire a simbolizzare quello che il suo corpo e la sua psiche hanno già comunicato, in modo bizzarro, confuso e doloroso, significa trovarsi.
Quello che intendo evidenziare è come in una psicoterapia “Centrata sul Cliente”, la persona arrivi a simbolizzare tutto ciò, ad acquisire consapevolezza di come il proprio corpo ha utilizzato il sintomo per trovare una strada per dichiarare il malessere dell’organismo e cercare soddisfazione ai propri bisogni non letti e non considerati.

Rossella si è costruita un Sé ideale che non prevedeva che anche lei potesse avere bisogni, soprattutto bisogno degli altri; ha fatto una grande fatica ad accettare i suoi limiti.
Nel proseguire delle sedute riuscirà a simbolizzare: “lo dovevo essere perfetta, forte. Non mi riusciva dire di no.”; da “ho paura sempre delle cose che non capisco” si muoverà verso “arriverò ad avere meno paura di avere paura?”. Diventerà sempre più consapevole di avere usato la forza per proteggersi: “l’ho dovuto fare sennò succedeva qualcosa”, e per darsi valore: “Rossella è indispensabile, di conseguenza non si può rifiutare”.
L’accettazione incondizionata è, come sappiamo, una delle condizioni “necessarie e sufficienti”, secondo Carl Rogers, il fondatore della TCC e nel caso di Rossella è la base su cui lei può appoggìare ed esplorare il desiderio di rifiutarsi di essere sempre buona, sempre disponibile, sempre pronta a salvare qualcuno. A circa un anno di distanza dall’inizio della terapia può dire:” Chi sono io per credere di potere risolvere tutte le ingiustizie del mondo?”.
In una seduta dell’Aprile scorso ha detto: “Ho avuto un po’ di panichino , a fine settimana… Non voglio cercare alibi però avevo i sintomi: l’insofferenza, la ripetitività, il senso di obbligo”. Il senso di costrizione non arrivava soltanto dagli impegni con il marito e i figli ma era legato al pensiero che si avvicinavano le vacanze di Pasqua e lei avrebbe voluto/non avrebbe voluto andare a trovare i suoi genitori ed incontrare sua sorella e suo fratello: “mia madre voglio capirla. L’individuo ha bisogno dell’affetto dei suoi genitori. Non è facile, lei non semplifica le cose … L’etichetta che ho sempre avuto… la più bellina, quella di cuore, la più gentile, quella che mette a tavola 15 persone e mette all’aria la casa, quella che ha sempre capito di più, accomodante, che riesce a mettere la pace… Si rende conto che tipo di gravosità, di peso, che ho sulle spalle?”.
A proposito del ruolo che ha avuto nella sua famiglia di origine ha detto:” Me ne sto accorgendo più ora di quando c’ero. Me ne sono iniziata ad accorgere quando ho avuto il crollo.”. Per Rossella parlare dei sentimenti che ha provato da bambina e da ragazza non è un modo di indietreggiare nel processo terapeutico, passare dal passato al presente (e viceversa) è la modalità che ha scelto per leggere quello che non aveva mai portato a livello di consapevolezza e che è legato al suo modo di essere oggi, alla sua tendenza alla iperattività, al fare :”Mio padre cominciava ad urlare e io cominciavo a spazzare, d’istinto. “.
Alla quarantasettesima seduta, la simbolizzazione di Rossella è andata sulla accettazione dei limiti, dei suoi limiti: “Sono arrivata ad una consapevolezza grossissima, che lei (la madre) non cambierà mai. Sto io cercando e ci proverò a guardare anche il suo punto di vista anche se ci sono cose che non ho accettato e non accetterò mai. “. Rispetto al marito: “Covavo rancore. Ora: perchè mi devo negare questo diritto? Me lo vivevo come se il colpevole fosse lui…”. Con i figli: “Sono intransigente, con i figlioli. Un po’ di rigidità fa parte delle regole. Non voglio essere perfetta. Ho provato cosa vuoi dire essere perfetti. “.
Al ritorno dalle vacanze estive di quest’anno, Rossella ha detto della sua vita: “Era un andare contro mano, volere il cambiamento e non riuscire ad attuarlo. Come se si fosse ribellato qualcosa, ma non riuscendo ad attuarlo, diventava un attacco di panico”.

Conclusione

Sono molti i tipi di psicoterapia che non si focalizzano sul sintomo e sono in molti, rogersiani e no, a pensare che, senza volere escludere una componente organica e/o ereditaria, il Disturbo da Attacchi di Panico è una risposta non funzionale che un organismo adotta per trovare una risposta a bisogni non consapevoli. Nel mio lavoro ho avuto modo di osservare che la Terapia Centrata sul Cliente risulta utile non solo nell’affrontare le problematiche connesse agli attacchi di panico ma facilita l’acquisizione di consapevolezza della persona a leggere il sintomo come un segnale dell’organismo che richiede un cambiamento. Le caratteristiche imprescindibili della T CC, che propongono il Terapeuta in un ruolo di persona che accompagna il Cliente e non pretende di fargli da guida, l’utilizzo dell’accettazione incondizionata e dell’assenza, quindi, di qualsiasi giudizio, il rispetto dei tempi dell’altro e, soprattutto, la fiducia nella tendenza attualizzante, insieme all’utilizzo costante dell’empatia e all’attenzione alla congruenza del terapeuta, sono i fattori che promuovono la consapevolezza. .
E’ il tipo di terapia che, permettendo alla persona di conoscersi di più, di esplorare le proprie emozioni, i pensieri ed i comportamenti in un clima che non sollecita l’innalzarsi delle difese ma, al contrario, ne facilita l’abbassarsi spontaneo, promuove uno spostamento dal sintomo alla ricerca del proprio significato personale dello stesso, per non incorrere più né in quel sintomo né in altri alla ricerca del benessere personale perduto.

(1) DAP: Disturbo da attacchi di panico.
(2) AP: Attacco di panico.
(3) TCC: Terapia Centrata sul Cliente.

Mariangela Bucci Bosco

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