In questi anni il settore della medicina di base è cambiato molto ed il medico si è trovato per le ridotte risorse economiche statali a dover fare i conti con restrizioni che prima non aveva.
I medici di medicina generale sono “di base”, vale a dire hanno ambulatori di 1° livello, filtri affollati, a cui spesso i cittadini si rivolgono senza preavviso, quindi con poca “protezione ” per il medico. Hanno obblighi burocratici sempre in aumento. Hanno limiti di spesa consigliati dalle ASL e limiti di prescrizioni farmaceutica imposti dalla commissione ministeriale.
Spesso in queste condizioni avere uno stile relazionale accogliente, empatico e contrattuale è fondamentale per favorire l’alleanza col paziente e quindi la sua adesione alle cure, alle terapie, ai costi in modo che anche con le limitazioni, s’intraprenda un buon processo diagnostico e terapeutico che porti al conseguimento dell’obiettivo del paziente e del medico.
Il paziente, peraltro, si sente accolto, considerato, trattato alla pari senza paternalismi fuori moda e senza manipolazioni e può aderire da protagonista Adulto allo schema terapeutico proposto dal medico e negoziarlo se vuole.
L’atteggiamento contrattuale è una grossa risorsa che il medico può apprendere facilmente e che gli permette di vivere l’ Okness con il paziente, nonostante tante limitazioni oggettive di cui nè lui nè il paziente sono responsabili ma che devono subire entrambi.
A partire da queste considerazioni abbiamo intrapreso tre anni fa il primo gruppo di formazione rivolto a medici generici ed abbiamo fornito loro una conoscenza teorico esperienziale di temi di Analisi Transazionale, e l’allenamento alla supervisione dei casi clinici.
Il gruppo diventa risorsa per questa classe di medici abituata a lavorare da soli, si abbassa il livello di competitività che esiste tra loro, non hanno paura a dichiarare il loro operato e sentono la supervisione come necessaria per ridurre uno stressor, migliorarsi professionalmente e uscire dall’habitus della cenerentola del servizio sanitario.
UNA MELODIA PER ARPA E CONTRABBASSO AL POSTO DEL FILO SPINATO
Queste riflessioni hanno avuto origine nel mio (Silvia Grassi) pensiero da molti anni, da quando ho conosciuto l’Analisi Transazionale ed ho cominciato a vivere l’esperienza di medico di medicina generale accorgendomi dell’aiuto che ricevevo con l’uso quotidiano della contrattualità, dell’okness, dei riconoscimenti, dei permessi. Ho pensato subito di trasmettere ai miei colleghi tale approccio relazionale come fonte di benessere per loro e per i loro pazienti ma sono occorsi degli anni per trovare il canale per arrivare e proporre loro un gruppo. Una difficoltà nella costruzione di un possibile gruppo è stata per me l’essere io stessa medico di famiglia; infatti, temevo di essere un conduttore che si identificava troppo con i partecipanti dando il via a giochi psicologici con gli altri nel gruppo da formare, per avere soddisfazione alla mia frustrazione.
Come dice Berne parlando dell’atteggiamento del terapeuta professionista “il terapeuta vuole sapere quale correzione deve applicare ogni volta che legge la bussola” ho pensato che avere una compagna di viaggio al timone con me potesse aiutarmi a correggere le possibili deviazioni alla rotta prefissata, una garanzia.
La presenza di una collega psicoterapeuta non medico, mi ha aiutato in questo progetto ed insieme abbiamo navigato.
Con Barbara Siniscalco siamo partite riflettendo sulla storia della medicina e accorgendoci che per secoli, da Ippocrate in poi, il medico fu spinto ad agire, non a parlare. Iandolo (1983) dice “Nel nostro secolo si è verificato lo scoppio tecnologico che condusse a conseguenze opposte circa l’uso della parola da parte del medico. Gli stessi mezzi potentissimi di cui egli venne a disporre per la diagnosi e per la terapia lo resero lontano e freddo. Nuovi spettacolari mezzi diagnostici non invasivi possono fornire analisi incredibilmente dettagliate di varie anormalità anche senza richiedere al paziente di parlare ad un medico. Farmaci e tecnologia ci sembrano altamente efficaci, la parola no. Troppo spesso ci sentiamo a disagio con le parole, imbarazzati da esse o inefficaci con esse, e le consideriamo prive di valore. Stiamo esercitando spesso ancora nel 2000 un arte silente sebbene da tempo si sappia che stimolazioni psicologiche possono indurre modificazioni specifiche della biochimica cerebrale provocando differenti orientamenti comportamentali.”
Nella cura del malato, le parole usate dal medico hanno un effetto profondo e possono facilitare la strada verso la guarigione o rendere il malato ostile e spaventato e sminuire l’efficacia di qualsiasi terapia.
Abbiamo deciso di prediligere soprattutto le reazioni che il paziente suscita nel medico: eravamo certamente dalla parte del medico e volevamo prenderci cura di lui per dare inizio ad una cascata che si sarebbe riversata nella relazione e dunque sul benessere del paziente e sull’iter diagnostico e terapeutico.
Avevamo contro l’atavica abitudine del medico di medicina generale a lavorare da solo, a pensarsi un esperto autodidatta con formazione diretta sul campo ed è per questo che l’abbiamo immaginato come un Arpista solitario.
Ma che cosa fare con un suonatore solitario insoddisfatto?
“Voglio imparare dagli altri per sopperire all’isolamento”
“voglio entrare in sintonia con gli altri”
“voglio dire di no ed essere serena”
“voglio il mio benessere”.
Queste le motivazioni al 1° incontro di medici di 40-50 anni con 10 15 anni di lavoro alle spalle.
Cosa succede quando i due si incontrano?
Immaginiamo che il nostro paziente già dalla sera precedente si è preparato all’incontro con il medico: deve parlargli di un suo problema di salute.
Sa che ritaglierà uno spazio di tempo per questo incontro, ha delle aspettative verso il medico, è maggiormente concentrato sulle sue paure che sulla relazione anche se di quest’ultima serba una memoria data dagli incontri precedenti. Es: il paziente può avere del medico un ricordo di accoglienza ( “è uno che dà tempo, che lascia parlare…”) o un ricordo di una persona sbrigativa ed essenziale.
Il medico non sa chi sarà il prossimo a bussare alla porta dell’ambulatorio ed ha un tempo di riorganizzazione mentale più breve rispetto al cliente, deve fare il conto con le emozioni che sono rimaste dall’incontro con la persona che è appena uscita e con il vissuto emotivo rispetto al nostro paziente che entra.
Magari il paziente precedente l’ha preoccupato o la mattinata è stata particolarmente intensa di lavoro ed emozioni.
A questo punto possono scattare reazioni di tipo
“do troppo”
“come posso codificare la relazione con i soliti”
che riattivano aspetti del copione sotto forma di ricatti o giochi.
Quindi ognuno dei due si presenta all’altro con i suoi bisogni ed emozioni.
Il medico ha per ruolo, a questo punto, il dovere di accogliere ed ascoltare il paziente nel modo più funzionale all’iter diagnostico e terapeutico.
Spesso le cose non vanno lisce nel senso che i sentimenti del paziente continuano ad irritare il medico. C’è un ricatto?
Se il è paziente esprime la sua paura e la sua preoccupazione rispetto al suo problema ed il medico lo tratta frettolosamente svalutandolo: forse siamo in presenza di aspetti copionali?
Se il paziente o il medico comunicano con frasi fuori luogo od esagerate, c’è forse un “elastico” che si riattiva nel qui ed ora?
Peraltro se il paziente presenta un disturbo psichico (nevrosi, disturbi di personalità o altre forme di sofferenza psichiatrica), e sembra secondo un non recente ricerche tedesche (Psychiatrie-Psychosomatyk, Psychotherapie, Thieme, Stuttgart 1980) che il 30% dei pazienti in cura da un medico di base soffra di disturbi psichici, tutto questo è accentuato e il medico al momento di chiudere l’ambulatorio è irritato, piegato su se stesso, ed inizia a progettare di erigere barriere più alte per difendersi in preda a rabbia depressione e tristezza (Steiner). Si isola, non riesce ad innescare una reazione Adulta, rifiuta il paziente.
Abbiamo avuto conferma di questo durante il giro di aspettative nel 2° gruppo formato da dottoresse ancora con 15-20 anni di professione:
“sono carente nella relazione: a volte devo annullarmi, chi entra ha sempre ragione, è importante sapersi controllare” ;
“cerco di capirli ma non ce la faccio, me ne sto fregando dei pazienti”
“il paziente crede di aver diritto a qualunque cosa: metto il filo spinato e anche con la corrente elettrica per non essere calpestata”
“ascolto tanto ma chi mi ascolta?”
” voglio strumenti di tutela e d’equilibrio”
Abbiamo pensato che poteva essere utile introdurre un Contrabbasso cioè uno strumento che potesse suonare con l’arpa accompagnandola e sottolineandole il suono cosicché questa si potesse accorgere di una sua melodia nuova, della piacevolezza e della risorsa offerta da questo nuovo timbro così diverso unito al suo senza ulteriori fatiche.
Ci siamo messe alla ricerca del nostro contrabbasso da offrire ai medici.
Queste le nostre riflessioni per fare un progetto
Il medico si trova ad agire il ruolo che il paziente gli proietta: infatti, quest’ultimo, sotto stress e preoccupazione, valuta il medico come sostituto adeguato del proprio Genitore e gli attribuisce le limitazioni sofferte durante il protocollo di copione stabilendo una relazione simbiotica e quindi a volte fonte di frustrazione e a volte fonte di gratificazione. Così se il medico è di fronte ad un paziente depresso sperimenta a livello non consapevole sentimenti di colpa o inadeguatezza o se si trova con un paziente caratteriale prende una posizione dura.
Con queste riflessioni abbiamo iniziato la prima esperienza di conduzione di gruppo rispondendo forse noi stesse come conduttrici, con un processo parallelo, all’ansia dei partecipanti d’avere strumenti d’aiuto, e considerando il livello di coinvolgimento che il gruppo poteva tollerare abbiamo fornito loro strumenti cognitivi.
Questo primo gruppo era formato da 15 medici, maschi e femmine, d’età media di 45 anni, di una stessa ASL e il setting stabilito era la sede istituzionale dove loro erano soliti trovarsi per aggiornamenti obbligatori, cioè la sala conferenze dell’ospedale organizzata, peraltro per lezioni frontali.
Ci siamo incontrati a cadenza settimanale per quattro volte per un totale di 12 ore. Abbiamo proceduto secondo la modalità classica dei gruppi:
ascoltando la loro domanda, riformulandola e facendo un contratto. Viste le richieste del gruppo abbiamo fornito loro le basi dell’AT soffermandoci soprattutto sulle spinte e ingiunzioni.
Il gruppo si presentava poco disponibile a mettere in gioco se stesso e più attento ad acquisire strumenti metodologici. Su questa scia abbiamo fornito delle schede che riproponevano la teoria delle Porte della terapia di Ware e successivamente ci siamo accorte che venivano usate quasi per spiare l’espressione emotiva del paziente e bypassare quella del medico.
Però questa è un’analisi sofisticata dell’esperienza; in realtà ci sono stati feed-back che manifestavano l’arricchimento delle persone anche dal punto di vista emotivo. Noi conduttori ci eravamo sintonizzati su un livello di contenuto più tecnico e informativo e non ci eravamo concesse il permesso di condurli a valorizzare una loro risorsa ma abbiamo risposto alla loro richiesta implicita di ” filo spinato” ed avevamo dato un metodo, valido, ma un metodo.
A questo punto abbiamo pensato che potevamo risolvere questo impasse e utilizzare la risorsa più bella e importante del medico generalista cioè l’intuizione, sottolinearla e farla crescere per essere risorsa: solo l’allenamento all’intuizione può aiutare a leggere e ad usare le reazioni controtrasferali per dialogare in modo proficuo e superare i momenti difficili della relazione.
Forse questo è il nostro contrabbasso? Cioè permettere ai medici un’esperienza formativa sulle transazioni di controtransfert che, come dice Kemberg, sono uno strumento diagnostico e terapeutico fondamentale che dice al medico molto del mondo interno del paziente in modo che i medici abbiano a portata di mano senza sforzo un’energia da usare e non un metodo?
Per noi Analisti Transazionali il fenomeno equivalente a quello di controtransfert è il concetto di “elastico”.
Il processo controtrasferale consiste nell’attivazione di un elastico nel terapeuta in reazione ad uno stesso stimolo proveniente dal paziente.
Tale meccanismo riporta il terapeuta ad una scena di copione riattivando così le convinzioni, le fantasie e i sentimenti di ricatto collegati a tale scena.
Se il nostro paziente entra nell’ambulatorio in una posizione vittimistica e il medico si accorge di essere irritato con lui possiamo ipotizzare che sia entrato nel ruolo drammatico di “Persecutore” dal quale tende a rispondere al suo paziente.
Eppure al paziente precedente non aveva risposto così!
Con queste riflessioni abbiamo iniziato a lavorare col 2° gruppo di donne medico della stessa età del precedente che si è riunito a cadenza settimanale, allo studio di psicologia quindi un setting esterno alle normali attività di medicina dove noi psicoterapeute operiamo in campo clinico quindi un setting prettamente Analitico Transazionale.
La parte formativa si è basata soprattutto sull’ offrire loro la possibilità di fare esperienza sul Copione.
Ed abbiamo proposto loro di scrivere, nel 1°incontro, “la favola” metafora della relazione con i loro pazienti.
Questo ha dato il là per una lettura di gruppo delle loro reazioni controtrasferali.
E le abbiamo aiutate a porsi domande del tipo
“Come mi sento?”
“mi sento come lui?”
“mi sento di fare quello che lui si aspetta che io faccia?”
che le ha sorprese e interessate a tal punto che hanno richiesto una continuazione degli incontri sottoforma di supervisione permanente sulle loro situazioni stressanti ed abbiamo continuato con incontri mensili.
Il medico di medicina generale possiamo dire adesso che ci sembra abbia bisogno di gruppi che l’aiutino non a giudicare o interpretare o apprendere metodi comunicativi standardizzati che finiscono nel dimenticatoio.
Sommersi dal faticoso lavoro quotidiano possono sviluppare l’intuizione per scrutare quanto probabilmente sta avvenendo nell’altro.
Crediamo che questo sia un passo avanti per un concetto di medicina che consideri la persona e non solo la malattia. La persona non come qualcosa da aggirare per curare ma da intuire perché diventi assieme al medico partecipe della propria guarigione o dell’accettazione della propria patologia.
Una recente indagine pubblicata sul British Medical Journal riporta che in un indagine fatta su 35 pazienti all’uscita dall’ambulatorio del MMG solo quattro riescono ad esprimere le loro esigenze durante le visite e soprattutto inespresse rimangono le preoccupazioni per la diagnosi, le proprie idee sulla prescrizione e sugli effetti collaterali. Questo genera malintesi. I medici non riescono nel 54% dei casi a conoscere la vera ragione della richiesta di visita e non conoscono le preoccupazioni degli assistiti per il 45% e sono divisi in paternalisti, informativi e interattivi e comunque confidanti in strumenti e obiettivi piuttosto che nella relazione.
Presentato al Convegno di Analisi Transazionale EATA 2000 di Parigi.
Silvia Grassi e Barbara Siniscalco