Alcuni mesi fa rimasi colpita da un articolo di Carla Corradi, “La violenza psichica è un delitto perfetto”, pubblicato sul numero 20 di Babilonia..
Il titolo esprimeva con chiarezza il concetto del male che si può fare con la violenza psichica, considerata giustamente un delitto, e l’assenza della pena per chi ordisce “il delitto perfetto”.
Per chi fa il lavoro di psicologo e psicoterapeuta l’incontro con questo genere di delitti è quotidiano, conosciamo bene la sofferenza della bambina, molestata da persona o persone del suo stesso ambito familiare, che si è confusamente chiesta per anni dove aveva sbagliato per “meritare” quelle attenzioni subdole che l’avevano spaventata, inorridita, ma che erano stati così difficili da raccontare perché episodi privi di quella chiarezza che è nella violenza più esplicita; spesso a questo sentimento confuso di colpa che non distingue più tra l’aggressore e l’aggredito si aggiunge il non essere creduti o, addirittura, il sentire ignorato il proprio tentativo di riportare questi fatti impalpabili e carichi di sofferenza.
Ho ascoltato anche di bambine costrette a continuare a vedere la persona che le aveva ferite per non turbare l’equilibrio di altri rapporti familiari, come se gli unici veri bisogni fossero quelli degli adulti e non dei piccoli che a quegli stessi adulti sono affidati.
Dopo moltissimi anni queste esperienze di vita sono lì, trasformate in astio nei confronti del genitore che ha coperto l’aggressore, trasformati in sfiducia nella propria capacità di leggere gli eventi e di valutare le persone. Quella disconferma di quello che si era intuito, ma non si era mai potuto chiaramente spiegare e tanto meno provare, è stato uno degli episodi, forse tra i più gravi, in cui il bambino non ha vissuto l’adulto di riferimento, l’adulto che avrebbe dovuto rappresentare la sua base sicura, come una persona in cui potersi riflettere per riconoscere il proprio vissuto.
Nella mia esperienza professionale sono piuttosto numerosi i casi di queste violenze sotterranee addirittura mascherate da etichette totalmente fuorvianti che si chiamano “cura e preoccupazione per l’altro”, “affetto”, “amore”, “necessità di proteggere e guidare”.
Penso a madri infelici e insoddisfatte, spesso a loro volta prive di esperienze di amore materno, che investono aspettative grandiose nella figlia a cui poi comunicano la loro delusione perché quella figlia non è diventata la persona che la mamma sognava, senza mai essersi chieste cosa la bambina desiderava per sé; penso all’invasività con cui alcune madri impediscono alle figlie di fare le loro esperienze sostituendosi a loro “per amore”, di fatto squalificandole continuamente e creando in quelle figlie, prima bambine e poi donne , la convinzione che senza la mamma non ce la faranno mai. Di solito queste figlie quando arrivano in terapia hanno sentimenti confusi rispetto alle loro madri, riferiscono di ottimi rapporti e di inspiegabili risentimenti che le animano. A volte la sofferenza è completamente negata, troppo minacciosa per essere anche solo intravista, c’è solo questa inspiegabile, totale sfiducia nelle proprie capacità di essere, di fare, spesso anche di percepire.
Penso alle mogli o compagne di uomini che le hanno tenute in pugno strumentalizzando la loro fragilità, facendone uno strumento di potere attraverso cui risultare scomode vittime mentre, in realtà, si giocava il ruolo del crudele aggressore. Questi uomini attraverso l’imposizione costante della propria volontà, giustificata “dalla debolezza dell’altro”, creano e nutrono relazioni in cui l’altro diventa totalmente dipendente, percepisce se stesso come impossibilitato ad esistere senza la presenza del compagno negandosi valore a tutti i livelli.
Questi giochi relazionali vengono a volte sostenuti da intere famiglie che passano il componente fragile, molto spesso una donna, a qualcuno che “si possa occupare di lei” condannando l’ignara vittima alla svalutazione costante di sé, alla impossibilità di accedere alla propria “tendenza attualizzante”.
Come dice Carl Rogers la tendenza attualizzante è presente in ogni individuo e altro non aspetta che di potere essere utilizzata ma ha bisogno di un clima facilitante per potere agire nella persona e permetterle di crescere perché gli esseri umani sono come piante che tendono naturalmente a crescere ma che saranno forti e robuste se il terreno in cui verranno coltivate sarà quello adatto e se riceveranno il giusto nutrimento e la giusta luce. Il “ clima facilitante” può essere fornito anche da una sola persona che abbia fiducia nell’essere umano che gli sta davanti, che incoraggi, che ascolti, che aiuti quella piantina a credere nelle proprie possibilità .
Spesso, come psicoterapeuti, siamo chiamati ad essere quell’adulto che crea quel clima e che permette alla persona sofferente e sfiduciata nelle proprie possibilità di guardare a se stessa come a una persona che, in quanto tale, ha valore e che, quindi, può, attraverso un processo di autoconsapevolezza, arrivare ad autodeterminarsi.
Spesso capita che persone con esperienze continue di disconferma di sé o del proprio vissuto arrivino in terapia con sensazioni molto confuse rispetto alla drammaticità di tali esperienze. C’è la sofferenza ma c’è anche il senso di colpa nei confronti dell’aggressore che, per tanto tempo, ha “sopportato” la loro fragilità. Succede che arrivino in terapia per ragioni che, apparentemente, poco o nulla hanno a che fare con questi episodi e si assiste al loro dolore di scoprire quanto la loro fragilità e delicatezza li abbia esposti a una violenza continua di cui è difficile accettare la portata perché riconoscerla significa accettare anche la possibilità di rinunciare all’altro, all’aggressore che le ha vittimizzate così a lungo e che difficilmente è disposto a riconoscere le proprie responsabilità e ad accettare che l’altro cambi e non voglia più essere lo strumento di tanta crudeltà.
A volte nei nostri studi di psicoterapia o di consulenza arrivano anche gli aggressori, molto spesso poco consapevoli di quello che hanno fatto o stanno facendo a un essere umano.
Non siamo lì per giudicare né tantomeno per condannare. Anche in questo caso il processo da facilitare è innanzitutto l’acquisizione di consapevolezza come condizione fondamentale per cambiare i propri comportamenti. Anche in questo caso l’accettazione della persona, che nulla ha a che fare con l’accettazione dei comportamenti di quella persona, l’ascolto empatico del vissuto dell’altro e la congruenza del terapeuta sono le condizioni indispensabili del setting terapeutico.
Un’ultima riflessione mi porta a dire che una maggiore attenzione all’educazione emotiva si impone a chi ha compiti educativi nella società. L’inconsapevolezza di chi aggredisce , e quella non minore di chi queste aggressioni subisce, ha molto a che fare con la poca capacità che molti hanno di dare un nome alle proprie sensazioni, alle proprie emozioni sia per povertà di vocabolario sia per mancanza di abitudine a dare spazio e significato al proprio vissuto emotivo. Credo che una buona educazione in questo senso ci troverebbe tutti più capaci di comprendere quello che facciamo agli altri e quello che gli altri fanno a noi, in un’ottica di “bonifica” delle relazioni interpersonali.