Sarah Di Nella
Pubblicata in “Carta” settimanale, n. 42, 21/27 Novembre 2005.
Ringraziamo la redazione della rivista per l’autorizzazione alla pubblicazione dell’intervista.
Sulle banlieues in fiamme Miguel Benasayag ha molto da dire. Innanzi tutto perché il fistoloso e psicoanalista argentino, autore, tra l’altro di “Resistere è creare” (Mc editore) e di “Contro il niente” (appena uscito per Feltrinelli), nelle periferie ci lavora da vent’anni: con le associazioni, nelle università popolari o occupandosi di disagio mentale.
“La situazione – dice – è molto complessa, anche se prevedibile, perché è vero che i giovani sono assillati dalla polizia, è vero che da quando la destra è tornata agli affari tutti i finanziamenti per le associazioni sono stati tagliati, ed è vero che in Francia esistono ghetti e frontiere invisibili, dietro alle quali abitano popolazioni immigrate che non passano mai dall’altra parte. Le cités sono una realtà urbanistica, psicologica e sociologica molto concreta, che non è identificabile solo con le banlieues. Lì, il determinismo sociale è tale che si può sapere in anticipo quanti saranno i disoccupati, quanti andranno in prigione…Questa situazione non può non provocare ciclicamente dei disordini”.
Questa volta è stato Nicolas Sarkozy la goccia che ha fatto traboccare il vaso?
C’è stata una vera provocazione. Un po’ come Sharon che va a visitare la spianata delle moschee. La risposta poliziesca, la repressione, la corruzione e l’amplificazione dello scandalo fanno comodo a Sarkozy e a questa destra dura che cerca di chiamare a sé l’elettorato di Jean Marie Le Pen. La loro politica securitaria aveva bisogno di insicurezza: Poi, l’emulazione ha fatto il resto.
Questa è una rivolta triste, perché è una rivolta nella quale gli esclusi e i poveri si picchiano tra loro, e che, nel centro di Parigi, si conosce dai giornali.
Nel “Manifesto della rete di resistenza alternativa” o in “Resistere è creare” lei parla di rivolta creatrice: Perché questa rivolta non vive questa dimensione?
Come accade a ogni rivolta, il governo si preoccupa e quindi decide di fare piccoli gesti, ad esempio il finanziamento delle associazioni. Ma questo non diluisce il senso di misure come il coprifuoco o il divieto di riunioni che sono degne di uno stato di assedio (e che sono state prorogate per tre mesi, ndr). Così la popolazione si abitua ai controlli permanenti, alle pattuglie della polizia e dell’esercito.
Il regno della disciplina pervade la società e fa sì che qualunque contestazione venga radicalizzata e diventi immediatamente illegale, terrorista. A questa rivolta triste, credo, seguirà un ulteriore passo avanti nel controllo e nella disperazione. E se pure usciremo dalla violenza urbana, la violenza istituzionale è invece destinata a durare. Stiamo entrando in modo sempre più netto in una società di controllo, di repressione e di violenza permanente.
La questione dell’identità sembra fondamentale. Esiste secondo lei una controcultura che definisca questi giovani “diversamente francesi”?
La rivolta di queste settimane conferma il fatto che nei pesi del nord esistono delle fortezze e delle “terre di nessuno”, dove si bruciano le automobili. Sono luoghi di non diritto, in cui l’autorità non dà tregua alla popolazione: ma non importa. Invece, qualunque cosa succeda nella fortezza, ovvero nei quartieri bianchi, francesi, è molto grave.
Le “no man’s land”, come i paesi del sud, sono laboratori a misura reale della geopolitica attuale. Questo tipo di rivolta sta affermando e cristallizzando l’esistenza di questi due ambiti, e di una doppia cittadinanza in Europa, con cittadini a pieno titolo e cittadini di seconda classe.
L’unico elemento di controcultura che emerge oggi – ve lo diranno tutti gli insegnanti – è che molti giovani iniziano a contestare elementi della cultura francese laica in nome di un islam più o meno immaginario. Più che di controcultura – persino il rap, nella grande maggioranza, è partecipe del sistema – parlerei di elementi di contestazione culturale. Il primo che in una riunione di giovani beurs (francesi di origine magrebina, ndt.) dice “io mi sento francese”, o sta scherzando o viene preso per scemo. Quando lavoravo con Florence Aubenas (la giornalista di Libération sequestrata in Iraq e poi liberata, ndr.) nell’università popolare della Cité des 4000 alla Courneuve, vicino Parigi, i giovani ci avevano proposto di fare un’indagine per vedere come vivevano i francesi. Noi abbiamo risposto: “Ma voi siete nati in Francia, siete francesi”. Per loro però non era affatto così. Allora ci hanno raccontato quello che immaginavano, ed era molto fantasioso.
Se qualcuno dei ragazzi nelle banlieues sventola la propria carta d’identità o la tessera elettorale – la stretta minoranza che la prende – è per affermare la propria cittadinanza, ma come avrebbe potuto farlo una volta un nero del sud degli Stati Uniti. Il significato non è altro che: “Vedete bene che non sono considerato come un cittadino di questo paese?”. Ed è vero, l’apartheid esiste. Per qualunque giovani di una cité – anche se guadagna soldi – affittare un appartamento altrove è molto difficile.
Vivono un’ingiustizia terribile, perché da una parte c’è il discorso sulla “république”, dall’altra c’è la realtà di tutti i giorni. E la realtà di tutti i giorni è che sono privati dei diritti garantiti dalla repubblica.
Quali sono le loro aspirazioni?
Chiedono, ad esempio, le dimissioni di Sarkozy, ma lo fanno solo perché ci sono le telecamere. C’è un aspetto quasi ludico – ammetto che sia difficile da capire – e non c’è da stupirsi se all’origine dei disordini ci siano spesso dei ragazzi giovanissimi. I più grandi non vedono di buon occhio questa rivolta. Poi, in questi luoghi di non diritto sono soprattutto gli spacciatori o le piccole mafie locali a fare la legge, e a loro non giova il disordine.
Da parte di ciò che in “Contropotere” lei chiama la “nuova radicalità”, gli “alternalistes”, c’è una difficoltà evidente a reagire. Perché?
Ci sono due livelli. Da una parte c’è la pavidità di alcuni leader dell’alternativa, per non parlare della sinistra, che si accontenta di dire “La repubblica, la repubblica”. C’è una gran paura di essere catalogati come favorevoli alla violenza. La questione della violenza è diventata poco a poco un tabù totale, in Francia. E credo sia ancora peggio in Italia.
D’altra parte gli altermondisti hanno difficoltà a immaginare che in questa rivolta ci sia qualcosa di nuovo, si sentono piuttosto sopraffatti da eventi tanto intricati nella rappresentazione mediatica. Io parlo dei “no vox”, dei gruppi a cui sono più vicino, come il Dal (Droit au logement, movimento dei senza casa, ndr.) o come il collettivo dei “sans papiers”, ma anche di Africa, l’associazione con la quale lavoravamo alla Courneuve. Osservano e cercano di fermare l’avanzata secutitaria di “Sarko”. Dall’Argentina mi arrivano delle mail nelle quali si parla di rivolta dei “Senza”. Non è così. La gente che si ribella fa di fatto parte dei “senza”, ma non è una rivolta in difesa delle occupazioni o dei sans papiers, la sua dimensione è piuttosto psicosociale.
Sarah Di Nella