Questo intervento è stato presentato in occasione del Convegno dell’Associazione Italiana Donne Medico, tenutosi a Salsomaggiore, il 21 Ottobre 2001.
 

Ad un giornalista, che mi faceva questa domanda “Cosa chiede una paziente ad una donna medico?” ho risposto che mi piace più riflettere su cosa una donna medico dà ad una donna paziente.
La professione comincia dopo la laurea: e, alla conoscenza approfondita della materia clinica, non fa eco un’altrettanta formazione che faccia rendere conto che, dietro un’asma, dietro un morbillo, c’è un altro o un’altra come noi.
Anzi, le pazienti sono spesso “non ok” (con un linguaggio che mutuo dalla mia formazione successiva in analisi transazionale), nei confronti della dottoressa “senz’altro ok”, ironicamente parlando, perché depositaria degli strumenti per aiutarle a stare meglio.
A me è capitato, anni fa, di lavorare come volontaria in un centro di recupero per tossicodipendenti e qui ho incontrato essenzialmente due tipi di persone: ragazze tossicodipendenti e medici diversi da quelli che avevo incontrato fino allora.
È stata la mia via di Damasco, una rivelazione.
Da una parte ero spettatrice stupita e affascinata dell’amore da parte dei medici per questi ragazzi, unito ad una professionalità di alto livello, e dall’altra vivevo direttamente lo scontro con queste ragazze tossicodipendenti e sieropositive, con storie che credevo così lontane dalla mia.
Il mio sapere medico non bastava, dovevo sintonizzarmi con la loro sofferenza e questo, capivo lentamente, voleva dire riconoscere la mia, farci i conti.
Il mio non poteva più essere un monologo, perché, tanto “io vado senz’altro bene tu no”, infatti, mi rendevo conto che dovevo ricercare un dialogo che cominciò realmente ad esistere quando presi in considerazione le risorse di queste ragazze, che esistevano anche se nascoste.
Potevamo essere ok entrambi.
Se svalutavo me o loro non riuscivo a curarle.
In concreto, in quel periodo, è iniziato per me il tempo di considerare che avevo anch’io il mio bagaglio fatto di scelte, pensieri, emozioni spesso non condivisibili o “strane” per gli altri, proprio come le loro.
Non ero solo “medicina” con loro, ma anche una storia.
Una frase di Eric Berne, il padre dell’analisi transazionale, un genio della psichiatria, mi ha sempre colpito “Non esistono due medicine, una organica e una psicologica, ma ne esiste una sola la medicina psicosomatica” e quindi ogni sintomo può essere spia di un malessere interno psicologico. Anni fa una mia paziente infermiera mi regalò un libro “Amore, medicina e miracoli” che io accettai pensando tra me “le solite baggianate new age”. Poi ho letto con le lacrime agli occhi le storie di persone guarite con la loro voglia di vivere, più che con l’aiuto dei medici od oltre all’aiuto di questi.
Spesso le donne si presentano in ambulatorio con l’aspettativa di essere prese in carico da me, del tutto.
Ed in verità è quello che faccio anch’io quando divento paziente e mi arrabbio molto se la dottoressa a cui mi rivolgo mi parla pensando che, siccome sono un medico, mi posso “dare una mossa” da sola.
Nella mia pratica uso sempre di più uno strumento di Analisi Transazionale che mi protegge da dinamiche di richiesta di eccessivo accudimento o eccessivo rifiuto, del tipo “farò tutto per te” o “non posso fare nulla per te”, mettendo in atto il così detto “atteggiamento contrattuale”.
“Noi insieme, qui, oggi, cosa possiamo fare, io ti do le mie conoscenze e tu cosa sei disposta a fare insieme con me perché tu possa stare meglio e forse guarire?”
Certo le mie modalità sono diverse secondo l’età della donna, ma sto riuscendo a fare contratti sia con le giovani sia con le anziane.
Cosa ottengo?
Chiarezza sull’obiettivo che voglio raggiungere io e su ciò che l’altra è disposta a fare, senza che alla visita successiva sia costretta a mentirmi perché non ha fatto quello che ho detto o che pensava di poter fare, non considerando, forse, che per lei quello che si stava prospettando non era effettivamente sopportabile.
Penso ad una signora con un tumore in fase avanzata che riusciva a comunicare a me ed ai suoi familiari la sua paura della chemioterapia, solo con litigi e confusioni tremende.
Lasciata a se stessa, per sfinimento e con molti rancori familiari, ha fatto quello che lei si sentiva di fare ed è riuscita, in effetti, a vivere al meglio.
Forse ci saremmo sentite sollevate ed in pace entrambe se le avessi dato l’opportunità di dirmi davvero cosa poteva sopportare ed avessi lasciato l’idea di protocolli terapeutici evidentemente troppo “stretti” per lei.
Certo, a volte, la giornata di lavoro di un medico è tale che la stanchezza fa perdere la lucidità e si può ricadere nel “faccio tutto io”, che sul momento sembra la via più semplice. Ma è nel gioco: sotto stress ritorniamo a comportamenti disfunzionali e, quando questi si ripetono “troppo”, è il momento di una piccola vacanza, se è possibile, o di un colloquio di supervisione con qualche collega che aiuta a “ricentrarsi” e a riprendere il controllo di noi stesse, per stare meglio con le persone che si affidano alle nostre cure.
Quello che ho detto fin ora è vero sia per il mio stare con donne o con uomini: l’essere donna mi coinvolge di più senza dubbio perché alcuni temi mi coinvolgono maggiormente.
Le ansie rispetto ai mutamenti e l’accettazione del corpo, per esempio.
Non posso fare a meno quando una donna mi parla della paura della menopausa o di un tumore al seno, per esempio, di pensare che anch’io ho timore delle stesse cose e la fatica è di capire il punto di vista dell’altra senza sovrapporre la mia esperienza personale.
Ad esempio, per le somatizzazioni che vengono da dinamiche affettive con i partner o dalle separazione dai loro cari, è facile sentire riaffiorare le questioni soggettivamente aperte rispetto a tali problematiche.
È difficile a volte separare quello che è il “nostro” dal “loro” e ascoltare senza giudizio, pregiudizio e senza ridefinire il problema secondo il proprio quadro di riferimento.
Infatti, accogliere le loro emozioni “negative” in situazioni di stress: tristezza, aggressività, confusione, vuoto, ecc…, che sono espresse in modo del tutto diverso dal nostro, è una sfida.
Magari siamo coetanee, magari con vite parallele con molti punti in comune, eppure così diverse come espressione emotiva.
Ma la relazione è costruita soprattutto dalle emozioni e quindi il riconoscerle e condividerle è una scommessa che, spero, diventi sempre più normalità.
Forse è la possibilità che vedo, ora, per il contatto con le pazienti affette da demenza senile: l’ultima novantenne pochi giorni fa alla mia domanda “Come va?” ha risposto recitandomi la “Pia de’ Tolomei”.
Quale metafora più opportuna per parlarmi del suo dolore?!
Penso anche alle donne emigrate a cui chiedo la data di nascita e che non mi rispondono: lo trovavo irritantissimo finché qualcuno non mi ha detto che c’era dietro un problema di malocchio.
Allora l’unica cosa è pensare quale timore e paura può suscitare una domanda che appare del tutto routinaria e banale.
Parlare di data di mestruazione, per certe donne extracomunitarie, a volte è come chiedere la luna.
Ancora paure diverse.
Penso che nei nostri ambulatori abbiamo la possibilità di esprimere emozioni autentiche ed in modo diretto per essere modelli di relazione.
Credo fermamente che acquisire competenza emotiva sia una delle speranze e la nostra arma vincente, per contribuire alla salute delle donne che si rivolgono a noi.
 
Silvia Grassi
Medico di medicina generale, psicoterapeuta e analista transazionale

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