Estate, tempo di riletture. Rileggere l’Introduzione alla psicoanalisi di Freud con il senso della prospettiva storica fa una certa impressione. Si tratta di una sintesi brillante, di piacevole lettura e, al tempo stesso, di un monumento della cultura: il resoconto autografo dell’incredibile avventura intellettuale di un uomo che, da solo, ha cambiato definitivamente la conoscenza che l’essere umano ha di se stesso, al pari di Copernico e Darwin e forse ancora di più. Tuttavia, sono anche rimasto perplesso di fronte all’interpretazione dei significati intenzionali “veri”, nascosti dietro l’apparenza di alcuni comportamenti e sintomi nevrotici delle persone.
Dopo una cospicua parte dell’opera, dedicata allo studio degli atti mancati e dei sogni, nella sedicesima lezione, intitolata Psicoanalisi e psichiatria, Freud scende finalmente in campo clinico e presenta se stesso in azione: ci mostra cosa pensa e cosa dice nella sua prassi quotidiana con il paziente.
Il primo esempio clinico è quello del paziente che “chiamato dalla sala d’attesa… tralascia di chiudere la porta dietro di sé”. Freud non ha dubbi: chi si comporta così vuole dimostrargli disistima. Con quel comportamento, il paziente vuole dire: “Ah, ma qui non c’è nessuno e probabilmente non verrà nessuno per tutto il tempo che sono qui!” Il paziente vuole insinuare che Freud non ha tanti pazienti quanti in genere se ne trovano nella sala d’attesa di uno specialista e quindi, come medico, vale poco. Così conclude Freud: “se fin dall’inizio non si mettesse un freno alla sua arroganza con un rimbrotto, si comporterebbe sgarbatamente e irrispettosamente anche durante il colloquio.” [1]
La prima riflessione è quanto poco l’atteggiamento di Freud corrisponda alla mia forma mentis di psicoanalista di novanta anni dopo. La sua ipotesi può essere giusta, ma può anche non esserlo. Per quanto mi riguarda, la sospensione del giudizio sul significato di un comportamento è un caposaldo della psicoanalisi: dietro ad un particolare comportamento ci può essere tutto e il contrario di tutto, e sta a noi scoprire cosa effettivamente si cela, abbandonando qualsiasi pregiudizio in proposito. La seconda riflessione riguarda il contenuto dell’ipotesi freudiana. Secondo la mia esperienza, è quasi scontato che il paziente, soprattutto all’inizio, si senta in una posizione d’inferiorità, come chi ha bisogno, spera fortemente nell’aiuto altrui e quindi si trova in uno stato di soggezione. L’ipotesi che mi verrebbe più spontaneo fare, anche se, lo ripeto, cercherei di metterla tra parentesi, in attesa di conoscere meglio la realtà che mi si para davanti, è opposta a quella di Freud: secondo me, il paziente, aiutato dalle circostanze, sta facendo la fantasia che il medico possa dedicarsi soltanto a lui, che possa non esistere nessun altro paziente, dato che il bisogno di interessamento e di cura che prorompe dal suo intimo è grandissimo e insopportabile.
C’è poi il caso di una signora “piuttosto anziana” (53 anni) la quale, dopo avere ricevuto una lettera anonima poco credibile che la informava del tradimento del marito (la lettera era stata scritta da una cameriera gelosa), è entrata in uno stato d’ansia che Freud definisce “delirio di gelosia”. Ha perfettamente ragione Freud a sospettare che l’incapacità di calmarsi nasconda qualcosa da parte di questa signora. Egli scopre, infatti, che è inconsciamente innamorata del genero e che ha fatto delle fantasie su di lui. Secondo Freud, “la fantasia dell’infedeltà del marito era un impiastro refrigerante sulla bruciante ferita” [2] della propria pensata infedeltà e sul doloroso senso di colpa che ne derivava: la donna, in altri termini, si teneva ben stretto il proprio delirio, perché apparentemente ne soffriva, ma in realtà le serviva per stare meglio, punendosi e mitigando così il proprio senso di colpa. È questo il motivo, secondo Freud, per cui la paziente fuggì dalla terapia dopo sole due sedute: secondo lui non era curabile, perché non voleva essere curata, non voleva che le si togliesse il refrigerio del suo delirio. Freud non prende nemmeno in considerazione la possibilità che la paziente sia fuggita dalla terapia perché non si fidava di lui o non si sentiva compresa. Probabilmente è vero che aveva fatto delle fantasie sul genero, ma probabilmente aveva anche sviluppato alcune immediate conseguenze logiche a partire da tali fantasie: così come lei si era sentita attratta da un uomo più giovane, anche il marito avrebbe potuto sentirsi attratto, a sua volta, da donne più giovani. Questo doveva averla messa intimamente in allarme e quando è arrivata la lettera la sua aspettativa inconscia ha registrato un potente rinforzo, è diventata una convinzione che non ammette smentite. La donna, il cui equilibrio era evidentemente molto dipendente dal marito, a quel punto si è sentita persa.
Ma Freud ha trovato la chiave di ogni sofferenza psicologica nel desiderio sessuale represso e nel senso di colpa dovuto alle intense fantasie sessuali che sono conseguenza della repressione: non sospetta l’esistenza di problematiche diverse, per esempio d’insicurezza e di fragilità del senso di sé, nemmeno nelle patologie più gravi.
Un terzo esempio riguarda la spiegazione dell’ansia dei bambini piccoli: “Il bambino piccolo ha paura anzitutto delle persone estranee… però non ha paura perché attribuisca loro cattive intenzioni e perché confronti la propria debolezza alla loro forza… si spaventa davanti alla figura dell’estraneo perché è abituato soltanto alla vista della madre… e la sua libido diventa inutilizzabile… [la libido] non può essere tenuta in sospeso ma viene scaricata sotto forma di angoscia.” [3] “La solitudine, come pure il viso estraneo, risvegliano la nostalgia per la presenza familiare della madre; il bambino non può dominare questo eccitamento libidico, non può tenerlo in sospeso, e lo trasforma in angoscia.” [4]
Si vede molto bene da questi esempi che Freud era dominato da una concezione molto particolare del funzionamento della vita psichica e, di conseguenza, della natura del disturbo psichico. L’essere umano è solo apparentemente civilizzato. Colloca la propria identità in quell’essere civilizzato che ha bisogno di (fingere di) essere per motivi di sopravvivenza e di convivenza civili, ma così facendo deve fare i conti con una natura animalesca che preme dal suo interno e lo angoscia. Generalmente, si fa risalire a questa concezione antropologica il cosiddetto pessimismo di Freud, la convinzione che fra natura e cultura sussista un conflitto insanabile e che la distruttività sia un tratto ineliminabile della natura umana. In realtà, questa concezione contiene anche una notevole dose di ottimismo, perché presuppone che l’essere umano sia molto forte nel suo intimo, benché in conflitto con se stesso. L’orso bruno, mi ha spiegato una volta una guida del parco naturalistico dell’Abbruzzo, è un animale forte e solitario che effettivamente non ama la compagnia dei propri simili e preferisce vivere da solo nella propria tana, cacciare da solo ecc. Mi sembra che l’essere umano descritto da Freud somigli molto a quello che sarebbe un orso bruno costretto alle buone maniere in un regime di socialità. Ma l’essere umano è realmente fatto così?
L’essere umano non è un prodotto di natura. Il paradiso perduto di cui parlano i vari miti delle origini allude, forse, alla nostra origine animale, cioè ad una condizione nella quale non si poneva il compito di essere se stessi ed ognuno era semplicemente quell’animale che era, ed era perfetto così. Ma la nostra condizione attuale, al di là della sopravvivenza fisica, è quella di essere “gettati nell’esistenza”, divisi fra due bisogni psicologici basilari che spesso sono in contraddizione fra loro: quello di essere unicamente se stessi, cioè di esprimere un valore che si fondi sull’essere autenticamente se stessi, e quello di appartenere ad un contesto relazionale umano, nel quale soltanto i nostri significati hanno senso. Infatti, si dà il caso che soltanto in quel contesto relazionale al quale il singolo appartiene viene coniata e circola la moneta con la quale si riconosce e si paga ogni valore umano. Siamo combattuti, in definitiva, tra la fedeltà a noi stessi e la fedeltà alle persone cui siamo legati e di cui, oltre tutto, abbiamo bisogno perché la fedeltà a noi stessi possa avere un qualche significato. È questa la circolarità, o meglio la complessità che sta alla base della psicologia dell’individuo umano, a differenza dell’orso bruno, ed anche l’eventuale repressione sessuale con tutte le fantasie sessuali che ne derivano va collocata e spiegata in relazione a questo ineludibile contesto relazionale complesso.
Per arrivare a riconoscere ed analizzare questa problematica psicologica ed esistenziale di base, è stato necessario introdurre nella psicoanalisi gli strumenti concettuali adatti a ciò, in primis il concetto di soggettività umana che è stato rappresentato con il termine “Sé”. Jung fu tra i primi a sentire questa esigenza e a usare questo termine. La sua psicologia dei complessi sta a dimostrare la convinzione che la personalità non si può scomporre in meccanismi, ma sempre in sottopersonalità, personalità parziali: una gerarchia di soggetti in dialogo fra loro. La soggettività è per Jung una caratteristica ineliminabile del mondo interiore umano. Purtroppo Jung assunse un atteggiamento mistico verso la psicologia del profondo e questo rende ancora oggi poco utilizzabili in ambito scientifico le sue innumerevoli intuizioni precorritrici. [5] Una prima vera psicoanalisi del sé fu sviluppata negli Stati Uniti all’interno del movimento interpersonalista, in particolare da Karen Horney negli anni ‘40 e ‘50. La sua opera principale, Nevrosi e sviluppo della personalità, comincia con le testuali parole: “Il processo nevrotico è un particolare aspetto dello sviluppo della personalità umana e, a causa dello sciupio delle energie costruttive che esso determina, ne è un aspetto particolarmente spiacevole. Non solo differisce qualitativamente dal sano sviluppo dell’uomo, ma, molto più di quanto non ci si sia mai resi conto, gli è antitetico in vari modi.” Tutta la psicoanalisi della Horney è mirata a decodificare la falsificazione del vero Sé, inseguendola attraverso le infinite complicazioni di cui siamo capaci, le quali altro non sono, se non le diverse forme della sofferenza psicologica e della psicopatologia. Di lì a poco, Donald Winnicott, rappresentante di spicco della psicoanalisi britannica delle relazioni oggettuali, sviluppò la propria analisi della soggettività, introducendo a sua volta i termini di vero e falso sé. Negli anni ‘70 fu la volta di Heinz Kohut che, partendo dallo studio dei disturbi narcisistici della personalità, approdò a sua volta ad una psicoanalisi della soggettività umana, quella che è stata denominata per antonomasia la Psicologia del Sé. Negli anni ‘90 Stephen Mitchell ha raccolto l’eredità degli interpersonalisti, delle relazioni oggettuali e della psicologia del Sé, integrando gli elementi comuni e dando origine alla psicoanalisi relazionale.
Dal punto di vista della psicoanalisi relazionale, al centro della cura non è lo smascheramento asettico di una verità psicologica rimossa (Freud usava la metafora del bisturi e dell’atto chirurgo), ma la relazione. Anche lo smascheramento di una verità scabrosa può avvenire soltanto come momento particolare all’interno di una relazione: solo in presenza di attento sostegno della soggettività del paziente, contenimento della sua ansia e ottenimento di profonda fiducia [6] esso risulta, di fatto, possibile; altrimenti rimane un’acquisizione intellettuale esterna che non esplica nessun potere trasformativo. Ma, più precisamente, psicoanalisi relazionale significa fare oggetto di approfondimento e di studio scientifico la relazione terapeutica e comprendere tutto il processo analitico alla luce degli eventi relazionali che lo rendono possibile. È ovvio che, alla base di questa diversa impostazione di metodo, c’è una diversa concezione della psiche. Come dice Mitchell, “per Freud la mente è fondamentalmente monadica; al suo interno preme qualcosa di prestrutturato che le è inerente, intrecciato. La mente emerge sotto forma di pressioni endogene. Le teorie relazionali considerano la mente come fondamentalmente diadica e interattiva; soprattutto, la mente ricerca il contatto, il rapporto con altre menti. L’organizzazione psichica e le strutture psichiche sono costruite dai modelli che danno forma a tali interazioni.”
Prenderò come esempio la psicologia del Sé di Kohut. Al centro di essa c’è il concetto di oggettosé. Il termine di “oggetto” fu introdotto da Freud e sta a significare l’altro della relazione, che, in effetti, da Freud era visto come un oggetto e non come un soggetto: l’altro era un oggetto perché serviva alla libido per potersi scaricare, e questa era la relazione psicologica fra le persone secondo Freud. L’oggetto di Freud rappresenta comunque un qualcosa o un qualcuno che viene percepito come separato da sé, che può manifestare un proprio modo di essere e una propria volontà diversa dalla nostra ecc. L’oggettosé, concetto introdotto da Kohut, rappresenta invece quel particolare modo di percepire l’altro, tipico di chi non ha ancora acquisito la capacità di centrarsi su se stesso e di mantenere la separazione psicologica necessaria per concepire e vedere l’altro come diverso e separato da sé. L’altro è collocato in funzione di oggettosé quando viene percepito (e obbligato ad essere) come un’estensione di sé o come lo specchio di cui non possiamo fare a meno. Ebbene, tornando all’esempio dell’anziana signora di 53 anni muniti di questo strumento analitico relazionale, possiamo fare altre ipotesi, inquadrare diversamente il caso e anche intravedere una possibilità di cura. Nel delirio la realtà vacilla, ma in realtà quello che vacilla è il senso di sé, la lente attraverso cui guardiamo il mondo. L’ipotesi di perdere il marito produce nella donna questo genere di vacillamento. Non sappiamo esattamente se avesse bisogno di mantenere una sorta di identificazione con lui (come se l’uomo fosse un prolungamento vittorioso di se stessa) per sentire di esistere o di esistere nel mondo, oppure se quel marito fosse incaricato del compito pressante di mantenerla costantemente al centro della propria attenzione (funzione speculare) per rafforzare in questo modo in lei il senso di sé, ma certamente è lecito ipotizzare che il marito fosse collocato in una funzione di oggettosé indispensabile perché la donna fosse in grado di conservare di un senso di sé sufficientemente stabile e integrato. L’analista non può sperare di risolvere illuministicamente una problematica di questo genere. Prima di porgere una spiegazione relativa alle dinamiche in gioco, deve svolgere un lungo lavoro di altro genere: quello di sostituirsi al marito come oggettosé disponibile per i bisogni emotivi nucleari della paziente. A questo scopo deve fare un prolungato sforzo empatico, lo sforzo, cioè, di vedere le cose con gli occhi della paziente, abbandonando l’idea che ci sia una sola verità (quella oggettiva) dietro la complessità delle cose. Soltanto quando avrà pienamente conquistato la sua fiducia e sarà diventato a sua volta l’oggettosé della paziente (condividendo in un certo senso il suo delirio), potrà cominciare molto gradualmente a deluderla in maniera per lei accettabile. Ogni piccolo fallimento empatico da parte dell’analista, se accettato e superato (occorre ogni volta farne oggetto d’analisi), servirà alla paziente per imparare sempre di più a svolgere in proprio quelle funzioni psicologiche di base che aveva interamente delegato ad altri. Quando, alla fine, l’analista avrà la libertà di porsi come “oggetto” e non più “come oggettosé” nel rapporto con la paziente, il suo ruolo di ponte verso la normalità sarà terminato.
Non è un caso, se ho fatto l’esempio di come la psicoanalisi relazionale affronterebbe la terapia di un disturbo grave, un disturbo che era stato giudicato non analizzabile alla luce della psicoanalisi di Freud. La psicoanalisi, come tutte le scienze, si è evoluta per la necessità incalzante di superare gli ostacoli che ha progressivamente incontrato lungo il suo cammino. Ciò è avvenuto al prezzo di molto impegno, molto investimento intellettuale ed emotivo e, vorrei dire, anche molta sofferenza e molti dissidi all’interno della comunità psicoanalitica, perché la psicoanalisi è una scienza che più di tutte le altre coinvolge personalmente il ricercatore nella propria ricerca. Tuttavia, la possibilità di aiutare anche un solo essere umano ad uscire dalla confusione, dall’angoscia e dall’insensatezza di tutta la vita sarebbe stata sufficiente perché ne valesse la pena.


ALBERTO LORENZINI. 
Medico, psicoterapeuta, bolognese di nascita. Formatosi inizialmente alla psicologia analitica junghiana, si è successivamente interessato alle relazioni oggettuali e alla psicologia del Sé di Kohut. Attualmente si riconosce nel movimento della Psicoanalisi Relazionale. Ha pubblicato diversi articoli su riviste specializzate e due libri: La psicologia del cielo e Lo Zen e l’arte dell’interpretazione dei sogni, entrambi presso le Edizioni Mediterranee. E’ membro della SIPRe (Società Italiana Psicoanalisi Relazionale). Esercita a Pisa continuativamente, da trent’anni, la professione privata di psicoterapeuta.
E-mail: alberto.lorenzini(at)gmail.com

NOTE:

[1] Lezione sedicesima.

[2] idem.

[3] Lezione venticinquesima.

[4] Lezione trentaduesima.

[5] Personalmente, considero legittimo un atteggiamento mistico o emozionato di fronte alla complessità e alla meraviglia del reale. Non credo che ciò sia in contraddizione con la scienza: credo però che debba venire dopo che la scienza ci ha fatto vedere determinati aspetti della realtà, allargando l’ambito dei nostri sensi. L’errore sta nel confondere i due piani.

[6] Joseph Weiss in un importante lavoro intitolato Come funziona la terapia (Bollati Boringhieri 1999) sostiene che gran parte del lavoro analitico consiste, da parte dell’analista, nel passare i test cui continuamente l’inconscio del paziente lo sottopone. Soltanto così si arriva all’ottenimento della fiducia necessaria.

[7] S. A. Mitchell, Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi, Bollati Boringhieri 1993.

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