1. L’esperienza percettivo-sensibile
Ciò che ordinariamente viene definito “esperienza” vale come l’insieme dei fenomeni che si collocano nello spazio rappresentato dalla relazione di soggetto e di oggetto. Il soggetto, infatti, si pone come tale in forza del suo riferirsi a qualcosa che immediatamente gli appare irriducibile a sé e che, per questa irriducibilità, può venire definito “oggetto”.
Se il soggetto costituisce il momento attivo del riferimento, l’oggetto, di contro, si pone come termine del riferimento del soggetto e, dunque, si connota per la sua passività: referente il soggetto, relato l’oggetto. Il riferimento, a sua volta, può venire inteso nel senso dello “instaurare un rapporto, una relazione”, giacché “riferire” è da referre, il cui participio passato è relatus. Da qui relazione.
Orbene, la relazione costituisce la struttura stessa dell’esperienza, la quale risulta pensabile solo come relazione di soggetto e oggetto; la forma, invece, è data dai modiin cui tale relazione si determina e si specifica. Poiché la relazione ha valore strutturale, i modi e le forme dell’esperienza sono comunque vincolati ad essa, dal momento che si inscrivono in essa. Per questa ragione Kant indica nello spazio e nel tempo le forme a priori della sensibilità, intendendo con ciò evidenziare che ogni dato d’esperienza si colloca nella relazione spaziale, che ha per estremi il “fuori” e il “dentro” (esterno e interno), e nella relazione temporale, che ha per estremi il “prima” e il “poi”.
E’ da rilevare, a questo proposito, che la relazione si configura, almeno nel suo senso ordinario (Stella, 1995), come nesso tra due termini, i quali valgono appunto come estremi. In essa coesistono e si confrontano due momenti, che risultano però antitetici: il momento della dualità e quello dell’unità. Il momento della dualità dice che i termini in relazione non possono non essere due; il momento dell’unità dice che essi, nonostante siano due, hanno qualcosa che li accomuna, che li rende omogenei (confrontabili, raffrontabili), così che per tale aspetto essi sono a rigore uno: ciò che accomuna i termini (la koinonia) neutralizza la loro differenza. La coesistenza dei due momenti, che tendono ad escludersi, garantisce la dialettica intrinseca del costrutto relazionale, il quale, ancorché rappresentato in forma di status, si caratterizza in effetti per una dynamis, una forza che ne esprime tutta la vitalità.
Anche la relazione tra soggetto e oggetto, ossia l’esperienza ordinaria, vive in virtù di questa forza intrinseca, di questa dialettica che sussiste tra unità e dualità. È innegabile, infatti, che la forma immediata dell’esperire si presenta come “esperienza dell’altro” o, detto altrimenti, come percezione di qualcosa che viene connotato come diverso dal soggetto percipiente. La percezione, che configura il livello sensibile dell’esperienza – ossia la forma iniziale del suo strutturarsi -, si qualifica per la valorizzazione del momento della dualità, della differenza tra i termini, a scapito del momento dell’unità, che pure continua a sussistere tra di essi. Si potrebbe dire anche così: nel sentire, senziente e sentito si pongono l’uno come esterno all’altro, l’uno come estraneo all’altro. Il sentito, che pure non è esterno (estraneo) al sentire – se lo fosse, come potrebbe “venire sentito”? -, è sentito proprio per questa sua estraneità. “Sentire”, dunque, è in ogni caso “sentire l’altro”, sentire qualcosa come altro.
Icasticamente: l’oggetto, che è sentito come esterno, è esterno proprio perché sentito. Si potrebbe aggiungere che anche l’oggetto cosiddetto “interno” è comunque sentito, cosicché, in quanto tale, non può non venire sentito come altro dal senziente, nonostante che questi lo riconosca come prossimo a sé, così prossimo da venire collocato in uno spazio “interno”. Anche lo spazio definito “interno”, insomma, mantiene la dualità di senziente e sentito, essenziale all’esperienza del sentire, in modo tale che, per quanto il sentito sia prossimo, esso è pur tuttavia sempre altro, incombente sul senziente.
Interno ed esterno, quindi, rappresentano i diversi gradi di un sentire che decreta la distanza (irriducibilità) di senziente e sentito, cosicché anche il soggetto, in quanto sentito, è oggetto di sé perché si distingue da se stesso. Il soggetto, cioè, sente se stesso soltanto perché si fa altro a se stesso, sdoppiandosi in sé fra un sé senziente e un sé sentito. Con questa conseguenza: in forza del sentire, il soggetto non perviene mai ad una effettiva identità con sé e continua ad esperire la distanza, la differenza, l’alterità. Il sentimento di identità, pertanto, costituisce l’identità di chi sente di non averla e non può evitare di ricercarla, all’infinito.
2. La paura del distacco
L’alterità di soggetto e oggetto costituisce, dunque, la radice di ogni sentimento. Si potrebbe anche dire che ogni tonalità affettiva è segnata dalla distanza che sussiste tra di essi nonché dal progetto, fungente e operante, di superare tale distanza onde pervenire a quell’unità che costituisce l’ideale della relazione – ciò in vista di cui essa si pone – e, pertanto, l’ideale del sentire, di ogni sentimento fattualmente configurato. Sentire è sentire la mancanza, dunque è sentire l’esigenza di riempirla: solo l’unità di senziente e sentito realizza l’effettivo superamento della mancanza.
Proprio per questa ragione, ritengo si possa affermare che la paura, intesa come horror vacui, costituisce il sottofondo di ogni sentimento. Il sentimento che origina dalla separatezza, infatti, è indubbiamente sofferenza – dolore, impotenza -, ma è, più radicalmente, orrore del vuoto, paura di ciò che può sopraggiungere in esso, timore dell’altro che nel vuoto incombe. Non per niente, l’espressione italiana “paura” può venire ricondotta all’espressione, propria del latino volgare, pavura, di significato identico a pavor. Pavura e pavor provengono da pavere, che è il verbo di stato corrispondente a pavire, il quale indica il “battere il terreno per livellarlo”, da cui “pavimento”. L’aver paura, dunque, è la conseguenza dell’essere battuto, dell’essere sottomesso, soggiacente, succube.
Ciò che dovrà venire progressivamente specificato è proprio il nesso che sussiste tra l’horror vacui e la sudditanza, la sottomissione o, più in generale, la dipendenza. Per agevolare la comprensione, faccio ricorso ad una esemplificazione fenomenologico-esistenziale, che non intende sostituire l’argomentazione logico-concettuale, ma semplicemente introdurla. Si consideri, allora, l’atto della nascita. Ebbene, lo si può assumere – anche se non tutti sono disposti a farlo, ma qui per noi esso riveste soltanto valore di exemplum – come la separazione originaria, la rottura dell’unità primigenia, il punto in cui si configura il due, che procede dall’uno. E’ proprio con la nascita che comincia a disporsi la relazione di soggetto e oggetto, la quale sorge appunto in forza della dualità nonché della spinta a ricostituire l’unità perduta. La paura e il dolore sono i primi sentimenti legati alla separatezza, solo parzialmente mitigati dall’inglobamento di quell’oggetto che, oltre al nutrimento, fornisce il sentimento di una avvenuta reintegrazione.
Lo stesso Platone, quando nel Simposio descrive la differenziazione dei sessi, fa riferimento al mito dell’androgino, dunque al mito dell’unità primigenia che viene spezzata: gli elementi che originano sono frutto di una sezione (da cui sexus) dell’unità e rivestono valore di simboli, perché si riferiscono all’unità da cui provengono e alla quale intendono ritornare mediante l’attrazione reciproca, ossia l’attrazione erotica.
La distanza di soggetto e oggetto costituisce dunque ciò che si potrebbe definire il luogo originario del sentimento, giacché è in tale distanza che il sentimento sorge e si sviluppa. In questo senso, la paura può venire considerata a ragione il sentimento fondamentale: se sentire è sentire l’altro, il sentimento prioritario è la paura per la minaccia che l’altro rappresenta, legata alla sua irriducibilità, alla sua diversità che incombe sull’identico. Anche il sentimento cosiddetto “piacevole”, pertanto, deve venire interpretato solo come un provvisorio e parziale superamento di quell’alterità che sussiste comunque tra senziente e sentito e che si esprime, appunto, come paura di perdere la fonte del piacere, giacché quest’ultima non è mai definitivamente controllabile né definitivamente assimilabile.
La situazione è veramente complessa. Da un certo punto di vista il soggetto si pone come soggetto solo per il suo relazionarsi all’oggetto o, detto con altre parole, l’identico si pone come identico solo perché si relaziona al diverso, l’io perché si relaziona al tu. Tuttavia, da un altro punto di vista, il soggetto intende contrapporsi all’oggetto, per differenziarsene, così come l’identico si contrappone al diverso e l’io al tu. Questa è appunto la dialettica intrinseca della relazione: i termini sono due perché mantengono una identità in qualche modo autonoma l’uno dall’altro, ma sono in relazione perché l’autonomia è solo relativa, ossia per la ragione che l’uno si pone in forza del riferimento all’altro.
Il momento della relativa indipendenza dei termini deve conciliarsi con il momento della loro relativa dipendenza. E se la dipendenza impone al soggetto di vincolarsi all’oggetto e, dunque, di dipendere da esso, la volontà di indipendenza è ciò che costituisce la sua soggettività, cioè il suo anelito alla piena libertà. Se, insomma, ci si identifica perché ci si differenzia, l’altro entra nella costituzione intrinseca dell’identico e l’io non potrà più evitare di relazionarsi al mondo, pur ingaggiando una lotta perpetua con esso.
Di fronte all’imprescindibile presenza del diverso, l’identico mette in atto una serie di reazioni volte a neutralizzarlo. In questo senso, la paura può venire connotata come “meccanismo di difesa”. Se non che, la paura dell’altro è tutt’uno con la volontà di nientificarlo, cioè con la volontà di eliminare l’ostacolo che costui rappresenta. Dicevo, in precedenza, che l’horror vacui indica lo smarrimento legato all’assenza di punti fermi, all’assenza di certezze, all’incombere del negativo, che è l’altro per eccellenza. Eliminare il negativo significa porre un punto fermo (positivo è da positum), una certezza che funga da fondamento dell’identità. Eppure, l’unico fondamento dell’identità permane la differenza, quella differenza che l’io intende neutralizzare, ma che non può mai neutralizzare effettivamente senza negare anche se stesso.
A me pare che la ragione profonda che ha spinto Freud a parlare di inconscio sia proprio questa: l’alterità non è solo ciò che sta davanti alla coscienza, ma, più radicalmente, ciò che pone in essere la coscienza dal suo interno. Poiché l’altro dalla coscienza costituisce strutturalmente la coscienza stessa, dire coscienza è dire sé e il suo altro, è dire coscienza e inconscio. Ed è ancora questa la ragione per la quale l’altro che veramente incombe sull’io è l’altro che l’io ha dentro di sé, quell’altro che è presente comunque, anche se non si presenta davanti all’io, anche se non si mostra nella sua forma ordinaria.
Rigorizzando, si potrebbe affermare che il concetto di alterità coincide con il concetto di limite e si risolve interamente in esso. Il limite, infatti, è ciò che consente all’identità di determinarsi, ma è anche ciò che impone all’identità di determinarsi riferendosi alla differenza. Ebbene, la paura è essenzialmente paura del limite. La paura è bensì paura dell’altro, ma, poiché l’altro ci costituisce, è paura del nostro fondamento insondabile, è paura del limite che ci costituisce e ci connota, del limite che ci pone in essere, ma decreta anche la nostra finitezza.
La paura, essenzialmente, è paura della morte e la paura dell’altro è indice della paura della fine, della paura del negativo nientificante, del nulla che ci nullifica. L’horror vacuiè il sentimento dell’essere in presenza di un vuoto ontologico che mette in evidenza la nostra intrinseca precarietà, la quale, lungi dal poter venire esorcizzata, può soltanto venire affrontata con coraggio. Non per niente la dialettica di signoria e servitù, comparente nella Fenomenologia dello spirito di Hegel (1807), inizia proprio dal confronto con la morte. Chi, di fronte alla morte, arretra per paura è destinato ad essere servo; chi, invece, non arretra è signore. La coscienza che si è confrontata con la morte «non è stata in ansia per questa o quella cosa e neppure durante questo o quell’istante, bensì per l’intiera sua essenza; essa ha infatti sentito paura della morte, signora assoluta. E’ stata, così, intimamente dissolta, ha tremato nel profondo di sé, e ciò che in essa v’era di fisso ha vacillato».
3. Il distacco dalla paura
La questione è allora la seguente: come recuperare un punto fermo di fronte al profondo sentimento di precarietà che accompagna l’identità dell’io?
Qui si impone una fondamentale distinzione: quella che sussiste tra la pretesa e l’intenzione. Il pre-tendere è la volontà di essere arrivati alla stabilità prima ancora di avere compiuto effettivamente il cammino, senza cioè accettare la precarietà e senza misurarsi veramente con essa. Configurano altrettante pretese le multiformi assolutizzazioni del relativo, ossia l’assunzione, quali punti fermi e inconcussi, di aspetti del reale che invece tali non sono affatto. Alla base di queste assolutizzazioni sta, comunque, l’assolutizzazione dell’io, il quale, pur avvertendo la propria insufficienza, pretende di oltrepassarla mediante insensati sogni di onnipotenza, di dominio sugli altri e sulle cose.
Questo progetto, che credo si possa definire “cannibalico” per la pretesa onni-inglobante che lo caratterizza, non può avere come esito il superamento dell’impotenza e della paura. La necessità dell’altro, infatti, tornerà comunque ad emergere come imprescindibile, perché costitutiva dell’essere stesso dell’io. Solo chi non ha paura di perdere ciò che ha e, dunque, di perdere se stesso potrà effettivamente aspirare a salvarsi (Mt 16, 25; Mc 8, 35; Lc 9, 24); chi, invece, si attacca ostinatamente a sé e alle proprie cose è irrimediabilmente destinato a vivere nella paura di perderle e di perdersi. E vivere nella paura configura l’effettiva perdizione.
Di contro alla pretesa sta l’intenzione. Quest’ultima è rivolta all’autentico fondamento e, dunque, è intenzione di verità, perché solo la verità può fungere da autentico punto fermo che possa sottrarre l’io al dubbio, all’incertezza, all’insicurezza, alla paura. Ma chi potrà essere certo di essere pervenuto alla verità? Ecco riproporsi la questione inerente al rapporto tra lo in-tendere e il pre-tendere. Chi ritiene di essere pervenuto alla verità riproduce l’assolutizzazione di sé e nega proprio quella verità che pure diceva di voler ricercare. Ridurre la verità a qualcosa che possa venire posseduto significa configurarla come un’appendice dell’io ed equivale all’assunzione dell’io come l’unica verità: l’io si erge a criterio di ciò che dovrebbe unilateralmente criteriarlo.
L’intenzione, proprio perché intenzione di verità, non può allora pretendere di trovare un qualche compimento fattuale, ma deve conservarsi come tensione volta al vero, come slancio verso di esso. Allorché si usa l’espressione “verità”, pertanto, ci si intende riferire al medesimo significato che ha l’espressione “uno”, poiché con tali semantemi si allude a ciò che funge da ideale compimento della ricerca, di ogni ricerca. L’ideale è il punto in cui soggetto e oggetto vengono meno poiché viene meno la loro identità; è il punto in cui viene meno l’alterità (la differenza); dunque in esso si realizza l’autentica pacificazione.
Dico “ideale” per la ragione che dell’uno (della verità) non si fa esperienza, giacché significherebbe ridurlo ad oggetto, il quale è tale solo perché rinvia a quel soggetto che gli è frontale e reciproco. Né l’uno, del resto, può venire inteso nel senso della sintesi, della unificazione, proprio perché in esso la valenza relazionale non può non venire meno, dovendo scomparire l’alterità (Stella, 2008). L’uno è ciò in vista di cui la relazione si pone, il fine ideale dell’esperienza come relazione soggetto-oggetto. E’ l’ablatio alteritatis che configura il trascendersi di ogni dualità, di ogni distanza, di ogni separatezza.
Il centro speculativo della questione è proprio questo. Il senso dell’esperienza è lo slancio verso l’unità che ricomponga soggetto e oggetto; un’unità che deve venire pensata non come restituzione di ciò che si ha ormai dietro le spalle, non come ritorno all’indistinto primigenio, ma come compimento di un processo, cioè quale emergenzadialettica del fondamento sui suoi fondati, dell’uno sui molti e oltre di essi. Il processo è tale perché configura il passaggio attraverso la differenziazione, cosicché deve venire inteso come il superamento stesso della distinzione e della mediazione: nel processo si realizzano sintesi sempre più avanzate, unificazioni sempre più profonde, nessuna delle quali, però, risolve in sé l’unità autentica, quell’uno che non si compone di parti, valendo come intero, e che, proprio per questa ragione, spinge ciascuna sintesi oltre se stessa, rendendo la ricerca inesauribile dal punto di vista empirico-fattuale (Ferrari e Stella, 1998).
Chi sogna un impossibile ritorno all’indistinto primordiale vive un languido struggimento, un bisogno pavido di protezione che non solo non lo affranca dalla dipendenza, ma altresì ingigantisce a dismisura la paura. Cercare l’unità guardando avanti, invece, significa innanzi tutto imparare a dialogare con l’altro, a confrontarsi con la fonte della minaccia, con il limite, la morte. A livello del sentire, tale unificazione può venire raggiunta solo con un atto d’amore, che impone di abbandonarsi all’altro, di affidarsi cedendosi ad esso. Solo questo è atto d’amore vero. Di contro, l’amore che vuole soltanto possedere l’altro, che vuole controllarlo inglobandolo, non è amore per l’altro, ma amore per sé; non è un amore che unifica, ma è amore che annienta: annienta chi viene posseduto, ma annienta anche chi pretende di possedere, perché l’uno è vincolato all’altro, l’uno non è senza l’altro.
Allorché l’amore si ispira ad un senso di autentica unità, esso trascende il semplice sentire. Quest’ultimo, lo si è visto, vive dell’alterità e non riesce ad andare oltre di essa. Per cercare di oltrepassare l’alterità non si può evitare di individuare un livello ulteriore, nel quale soggetto e oggetto cessino di contrapporsi e tendano a risolversi l’uno nell’altro. Se, in generale, l’attività è il luogo in cui il soggetto si rivolge all’oggetto non più come ad altro da sé, ma come al suo proprio “prodotto”, il lavoro costituisce la prima unione con l’oggetto decretata dall’attività. Ma la forma compiuta dell’unione è precisamente l’attività del pensare.
Pensando, la dualità di soggetto e oggetto viene progressivamente ricomposta nell’atto dell’intelligenza, che consente di risignificare l’oggetto, vissuto inizialmente come alieno, ostile, terrifico, nientificante. Il cum-prehendere (cum-capere, da cui “concetto”) indica lo sforzo del ricongiungere i separati, i contrapposti, elevandosi ad una unità superiore e configurando un livello di esperienza che, pur non annullando il livello del sentire, ne rappresenta l’ideale compimento.
Per questa ragione, solo il pensiero può affrancare l’io dalla paura della differenza, giacché gli consente di comprenderne il senso: comprendendo le ragioni dell’altro, l’io perviene alla piena comprensione di sé, del suo essere in relazione, del suo intendere di superare anche tale relazione, senza nientificare l’altro, ma ricongiungendosi con esso in un’unità che accolga entrambi, fornendo un’effettiva fondazione. Ciò significa che l’egocentrismo è l’ostacolo ad ogni slancio volto alla ricerca della verità, ad ogni pacificazione con sé e con il mondo. L’attaccamento a sé, che può venire detto anche narcisismo, è la fonte di ogni paura e, per converso, la paura è il mantenimento all’infinito di un attaccamento ossessivo a se stessi: per questa ragione è destinato a salvarsi solo chi non ha paura di perdersi. Ed è ancora per questa ragione che il distaccopuò essere visto come la disposizione spirituale più vicina all’atto del pensare. Solo chi impara a distaccarsi da se stesso cesserà di avere paura, perché non avrà più alcunché da conservare, neanche se stesso e, dunque, si disporrà a perdersi nella verità, che è la sua autentica salvezza.
Afferma Maestro Eckhart nel Trattato Del distacco, scritto intorno al 1320: «il puro distacco (Abgeschiedenheit) è al di sopra di tutte le cose. (…) Ma io lodo il distacco più di ogni amore. (…) Lodo il distacco anche più di qualsiasi misericordia, poiché la misericordia consiste esclusivamente nel fatto che l’uomo esce da sé per andare incontro alle miserie del suo prossimo e il suo cuore ne è turbato. Il distacco ne è immune e rimane in se stesso e non si lascia turbare da nessuna cosa: poiché tutte le volte che qualche cosa può turbare l’uomo, l’uomo non è come dovrebbe essere».
Pensare è l’atto della libertà suprema, l’effettivo distacco. Pensando, infatti, si mette in discussione l’ovvio, il fatto, ciò che si impone nell’esperienza ordinaria; pensando, ci si svincola dai presupposti, si problematizza l’assunto, si procede questionando lo stesso punto di partenza del procedimento. Ma, soprattutto, pensando si discute il presupposto fondamentale: l’io, che sembra la genesi di ogni pensiero, e in effetti rappresenta solo l’occasione della sua comparsa. Il pensiero configura la vittoria sulla paura per il suo valere come la forza che consente di staccarsi da tutto, di non avere più bisogno di alcunché e, dunque, di non dipendere, di non subire, di non sottomettersi, neanche a se stessi. Il pensiero, insomma, se è autentico – se cioè non si riduce ad un mero procedimento formale, ma vale come speculazione critica, come domanda radicale-, deve soprattutto svincolare l’io da se stesso, liberandolo dalla propria assolutizzazione, dal proprio sogno di onnipotenza, che è la genesi di ogni perdizione.
Chi intende realizzare pienamente se stesso, ribadisce ancora Eckhart in Istruzioni spirituali, «deve prima di tutto abbandonare se stesso (…) poiché soltanto chi abbandona la propria volontà e se stesso, ha abbandonato davvero tutte le cose».
L’abbandono non significa il rifiuto delle cose: il rifiuto è astratto perché astraente e lascia le cose come sono. Di contro, ciò che qui si intende è l’abbandono della pretesa che le cose siano la verità, che le cose siano assolute, che sia assoluto l’io che ne costituisce l’origine. Pensare, quindi, è avere coscienza del carattere relativo dell’esperienza ordinaria, del limite che intrinsecamente la costituisce. Tale consapevolezza è l’unico strumento per evitare di vivere con eccessiva serietà e drammaticità ciò che accade sulla scena del mondo (interno o esterno che sia), di venire risucchiati dalle cose, di venire travolti dalla paura. Solo pensando, infatti, è possibile riconoscere e, quindi, sottoporre a critica gli attaccamenti insensati, le assolutizzazioni ossessive, i timori e le preoccupazioni che sono espressione di un’intollerabile dipendenza servile e di una sostanziale rinuncia alla soggettività autentica, la quale coincide con l’atto del pensare proprio perché si identifica e si risolve nell’intentio veritatis.
Bibliografia
Eckhart M., Von Abegescheidenheit, in Deutsche Werke, Kohlhammer, Stutgart 1936; trad. it. di G. Faggin, Del distacco, in Trattati e prediche, Rusconi, Milano 1982, pp. 171-175.
Eckhart M., Die Rede der Underscheidunge, in Deutsche Werke; trad. it. di M. Vannini, Istruzioni spirituali, in Dell’uomo nobile, Adelphi, Milano 1999, pp. 60-61.
Ferrari A., Stella A. (1998), L’alba del pensiero, Borla, Roma.
Hegel G. W. F. (1807), Die Phänomenologie des Geistes, in Sämtliche Werke, hrsg. v. H. Glockner, Bd. 2, Frommann, Stuttgart-Bad Cannstat 1964 (quarta ediz.); trad. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1976 (sec. rist. della sec. ediz.), pp. 161-162.
Platone, Simposio 190-193; trad. it. di P. Pucci, Laterza, Bari 1976, pp. 174-177.
Stella A. (1995), La relazione e il valore, Guerini Scientifica, Milano.
Stella, A. (2008), Questioni di psicologia del pensiero, Guerini Scientifica, Milano.
Aldo Stella
aldostella(at)interfree.it
Docente di Psicologia del pensiero presso l’Università per Stranieri di Perugia, di Psicologia generale presso l’Università degli Studi di Perugia e del Dottorato di ricerca in Psicologia Cognitiva, Psicofisiologia e della Personalità della Facoltà di Psicologia dell’Università “La Sapienza” di Roma.