Regia: Marco Tullio Giordana.
Sceneggiatura: Sandro Petraglia, Stefano Rulli.
Fotografia: Roberto Forza.
Montaggio: Roberto Missiroli.
Scenografia: Franco Ceraolo.
Costumi: Elisabetta Montaldo.
Interpreti e personaggi:
Luigi Lo Cascio (Nicola Carati), Alessio Boni (Matteo Carati), Adriana Asti (Adriana Carati), Sonia Bergamasco (Giulia Monfalco), Fabrizio Gifuni (Carlo Tommasi), Maya Sansa (Mirella), Valentina Carnelutti (Francesca), Jasmine Trinca (Giorgia Esposti), Camilla Filippi (Sara Carati), Claudio Gioè (Vitale Micali).
Produttore: Angelo Barbagallo e Donatella Botti per BiBiFilm/Rai Cinemafiction.
Distribuzione: 01.
Durata: 366′.
Origine: Italia, 2003.
Roma, estate 1966. I fratelli Nicola e Matteo Carati preparano gli esami universitari, il primo in medicina, il secondo in lettere, e si apprestano, con Carlo ed altri amici, a compiere un viaggio verso Capo Nord. Vivono con il padre Angelo, commerciante, la madre Adriana, insegnante, e la sorella minore Francesca. La sorella più grande, Giovanna, magistrato, vive nel Nord Italia.
Matteo conosce una psicolabile, Giorgia, internata in una clinica. Ad un esame universitario Matteo contesta il professore e rifiuta di continuare l’interrogazione, rapisce Giorgia dal reparto psichiatrico e, con Nicola, decide di restituire la ragazza alla famiglia. Ma il padre non la vuole. Nicola e Matteo vanno a Porto Marghera, dove la sorella Giovanna esercita la professione di magistrato. Giovanna suggerisce a Nicola di affidare Giorgia alle cure di Giorgio Basaglia. Ma Giorgia viene fermata dalla polizia e ritornerà in ospedale.
Matteo e Nicola sono sgomenti. Il primo torna a Roma e si arruola volontario nell’esercito. Il secondo va in Norvegia, dove apprende che a Firenze c’è stata un’alluvione. Torna in Italia. A Firenze ritrova Matteo, impegnato nei soccorsi con l’esercito e conosce Giulia, che in seguito diventerà la sua compagna.
Torino, febbraio 1968. Sono i giorni dell’occupazione dell’Università. Nicola vive in un appartamento con Carlo e Vitale, operaio Fiat, e frequenta Giulia.
Torino, primavera 1974. Nicola, neo-psichiatra, e Giulia, che attende un bambino, sono coinvolti negli scontri con la polizia. Matteo, che nel frattempo è passato dall’esercito alla polizia, viene segnalato per la brutalità della repressione e trasferito a Palermo.
Nasce Sara, figlia di Nicola e Giulia; per i nonni è l’occasione di venire a Torino. Si conclude con una condanna il processo contro un manicomio lager. Nicola assiste i ricoverati che testimoniano contro il primario.
Angelo, il padre di Nicola e Matteo, si ammala di tumore e morirà dopo qualche mese.
A Palermo Matteo conosce Mirella.
L’unione di Nicola e Giulia si incrina.
Nicola guida l’irruzione dei carabinieri in un manicomio lager, dove ritrova Giorgia.
Giulia entra nelle Brigate Rosse e si dà alla clandestinità.
Roma, primavera 1980. Carlo Tommasi sposa Francesca Carati.
Vitale viene licenziato, con altri 23 mila dipendenti Fiat.
Torino, estate 1982. Giulia, a Torino con una nuova identità, va a trovare Vitale, diventato manovale e gli chiede di combinare un appuntamento con Nicola, perché lei vuole vedere la figlia Sara. L’incontro a distanza avverrà durante la finale dei campionati del mondo di calcio Italia-Germania.
Roma, autunno 1983. Matteo si trasferisce a Roma, senza riprendere contatto con la famiglia. In una biblioteca rivede Mirella. Giulia viene a conoscenza che Carlo Tommasi, diventato funzionario della Banca d’Italia, è nel mirino della Brigate Rosse, ma promette a Francesca di tentare di salvarlo. Matteo, sotto falso nome, frequenta Mirella ma, nonostante la passione, non riesce ad impegnarsi in una relazione.
Nella notte di San Silvestro Mirella rintraccia Matteo, dopo aver scoperto la sua vera identità, ma Matteo la allontana bruscamente.
Poi, a sorpresa, si reca in casa della madre, dove trova riunita tutta la famiglia. Torna a casa sua all’improvviso, senza nemmeno aspettare il brindisi di mezzanotte. Dopo due telefonate a Mirella, andate a vuoto, si suicida, gettandosi dal balcone di casa.
Giulia vuole rivedere Sara e dà appuntamento a Nicola, al Colosseo.
Nicola ne parla con la sorella Giovanna, magistrato, e le chiede di far arrestare Giulia, prima che venga uccisa o si macchi lei stessa di delitti. Giulia viene arrestata.
Adriana, la madre di Matteo e Nicola, lascia l’insegnamento. Nicola rivede Giulia, in carcere, e le propone di sposarla, lei rifiuta, ma rivede la figlia Sara.
Carcere di Spoleto, primavera 1992. Giulia riceve da Nicola delle partiture per piano, ma le rispedisce al mittente (Giulia in gioventù aveva studiato pianoforte al Conservatorio).
Sara, ormai cresciuta, si trasferisce a Roma dalla zia Francesca.
Nicola, in un manifesto pubblicitario di una mostra fotografica, scopre una foto che raffigura Matteo, scattata da Mirella. Racconta l’episodio a Giorgia e la convince a lasciare l’ospedale psichiatrico per recarsi in una residenza che ospita altri ex internati.
Palermo, 25 maggio 1992. È il giorno dell’attentato al giudice Falcone.
Nicola va a Palermo, dove si era trasferita la sorella Giovanna per esercitarvi la professione di magistrato. Nicola rintraccia Mirella.
La donna gli racconta di essere madre di un bambino, Andrea, figlio di Matteo. Nicola e la madre Adriana raggiungono Stromboli, dove vivono Mirella e Andrea. La nonna decide di prolungare il suo soggiorno nell’isola.
Toscana, primavera 1995. Carlo, accompagnato da Nicola, affida a Vitale, diventato impresario edile, la ristrutturazione di un casolare. Da un giornale scoprono che Giulia ha lasciato il carcere. La donna a Roma vede la figlia, ma non si fa riconoscere.
A Torino Nicola apprende che sua madre è morta a Stromboli. Si reca nell’isola e racconta al nipote Andrea del viaggio mancato fino a Capo Nord.
Primavera 2000. In Toscana riunione di famiglia. Sara riceve una lettera di Giulia e va a Firenze ad incontrarla. Tra Nicola e Mirella, complice l’ombra di Matteo, nasce una storia d’amore.
Norvegia, estate 2002. Andrea, figlio di Mirella e Matteo e nipote di Nicola, assieme alla sua ragazza, raggiunge Capo Nord.
(Ho riportato la trama, con qualche leggere variazione, da “La storia siamo noi. Queste vite in cui ci riconosciamo. La meglio gioventù“, di Giorgio Rinaldi, in “Cineforum” n. 427, agosto-settembre 2003).
“Solo i giovani hanno di questi momenti: Non parlo dei giovanissimi. No. I giovanissimi, per essere esatti, non hanno momenti. È privilegio della prima gioventù di vivere in anticipo sui propri giorni, in tutta un bella continuità di speranze che non conosce pause né introspezioni.
Uno chiude dietro di sé il piccolo cancello della mera fanciullezza ed entra in un giardino incantato. Là perfino le ombre splendono di promesse. Ogni svolta del sentiero ha una sua deduzione. E non perché sia una terra ignota. Si sa bene che tutta l’umanità ha percorso quella strada. Ma si è attratti dall’incanto dell’esperienza universale da cui ci si attende di trovare una sensazione singolare o personale: un po’ di sé stessi.
Si va avanti, allegri e frementi, riconoscendo le orme di chi ci ha preceduto, accogliendo il bene e il male insieme – le rose e le spine, come si dice – la variopinta sorte comune che offre tante possibilità a chi le merita o, forse, a chi ha fortuna. Sì. Uno va avanti. È il tempo pure va avanti, finché ci si scorge di fronte una linea d’ombra che ci avverte di dover lasciare alle spalle anche la regione della prima gioventù”. (Joseph Conrad. La Linea d’ombra).
È un prodotto televisivo, della durata di sei ore, trasmesso in quattro puntate. Ha la struttura del romanzo storico, con la macrostoria come elemento essenziale, l’acqua dove nuotano tutti i protagonisti, anche se sono attenti alla loro esistenza, attori consapevoli, ma discreti, di un dramma che li sottende, ma che non li connota fino in fondo.
La forma iconica risente del mezzo che, mai come in questo caso diventa anche messaggio: molti primi e primissimi piani, molti interni, narrazione ad onda, con ritorni e cambiamenti, focus su membri di una famiglia (il titolo potrebbe essere, parafrasando Visconti, “Nicola e i suoi fratelli”). Questo lascia adito a qualche dubbio rispetto al valore estetico e culturale dell’operazione. Giordana è autore accorto, conosce gli aspetti della storia italiana degli ultimi cinquant’anni, la sa ricostruire con mano poetica, ha saputo dare una visione pregnante al racconto filmico di Rulli e Petraglia, ma è pur sempre televisione, è pur sempre romanzo popolare, corre sul filo di uno schema che deve tornare; “deve”, per esigenze narrative del mezzo televisivo, concentrare l’attenzione sui singoli e sulla famiglia, salvare alla fine la vita in sé e per sé, al cospetto di una storia che non è la matrice della felicità degli individui.
Detto questo per rilevazione del reale, il passaggio naturale va alla narrazione ampia, alla psicologia il più delle volte precisa, alla conoscenza del periodo, alla identificazione emozionale di chi lo ha vissuto ed ora lo vede come una parte della nostra storia. Di te spettatore si parla e tu lo potrai capire. “Chi non ha vissuto prima della rivoluzione, non sa che cosa voglia dire la dolcezza del vivere”, come diceva Tayllerand. E questo è il caso: nelle prime sequenze del film si racconta il 1966, la vigilia della così detta rivoluzione.
La nostalgia di quella dolcezza di vivere, l’amicizia, la gioventù, le prime sollecitazioni a capire che il mondo non era quello che ci aspettavamo, ci sono tutte, di scorcio, lievi, amate e rimpiante, ma comunque vive.
Da un punto di vista psicologico, la storia intera può essere tagliata sotto il duplice aspetto dell’identificazione e dell’individuazione.
Matteo e Nicola sono due fratelli diversi, ma necessari l’uno all’altro, indispensabili, lontani e vicini nello stesso tempo. Si riconoscono nelle loro diversità, senza integrarsi mai, anzi, soprattutto per quanto riguarda Matteo, con un fuga estrema verso la differenziazione del nulla, che porta ad operare palingenesi improbabili, in dimensioni senza padre e senza madre, già a suo tempo ben rappresentate da Pasolini come ribellioni sterili e inconcludenti (se non conoscessimo Matteo per i suoi precedenti, potremmo quasi identificare nel suo comportamento una sorta di fascismo senza ideologia, ma con tutte le componenti che tagliano qualsiasi mediazione con la realtà, in una sorta di rivoluzione dagli eroici furori).
Matteo vuole uccidere i conflitti interiori, si appiattisce sull’autorità (l’arruolamento volontario) e oppone una estrema resistenza all’amore (Mirella).
Mentre i fantasmi della psiche dominano Matteo, Nicola si sforza di dominarli. Matteo vive una vita piena di schermi che pone fra sé e la realtà (esemplare è l’uso del nome Nicola con cui si presenta a Mirella).
Nicola e Mirella, che sopravvivono alle bufere che attraversano, non si lasciano cogliere da una deriva cinica e indifferente, resistono, credono in una crescita civile, non pensano che i loro destini dipendano da scelte collettive (e possano morire con esse), si vedono in un susseguirsi di presenti che costituiscono realmente un futuro.
A Matteo manca il legame col presente, la sua morte rimane in gran parte insondabile, come rifiuto di un eventuale riflusso nel privato, che colse tanti giovani scontratisi con la difficoltà di legare la propria esistenza individuale ad eventi politici (portare il privato ad essere politico).
Il suo suicidio, che assomiglia vagamente al gesto di Pavese, è l’estremo linguaggio di chi è spaventato dalla consapevolezza di proprie emozioni violente, alle quali chiede un riconoscimento da altri che mai potrà venire. Nemmeno Giorgia, che si è rifugiata nella malattia, lo può aiutare, nemmeno Nicola, nella sua quasi trascendente idea della libertà altrui. Nel finale del film, in un momento di bilancio della sua vita ammette di aver lasciato libertà agli esseri più cari e di non essere riuscito a tenerli prigionieri del suo amore (si riferisce al fratello Matteo e alla compagna Giulia).
Matteo risulta perennemente schiavo del reale, che non riesce a trascendere, a simbolizzare, a rivestire di un significato alla sua portata. Si suicida per il troppo amore, che lo porta ad una irruenza provocata dalla perdita di sé. Forse più di altri riesce a vedere l’assurdità della realtà, ma gli è impossibile mediare fra quello che intuisce e quello che può operare, come similmente, ma sul lato dell’immobilità alienata, Giorgia.
Il passaggio costante all’atto di Matteo determina il suo accesso all’atto finale. La protettività delle istituzioni, come la polizia e l’esercito, si rivela estremamente fragile, dal momento che ignora le pieghe e i dettagli di ogni individuo, per costituire conformismi di comportamento.
Nicola è invece l’emblema della “lunga marcia all’interno delle istituzioni”, che è l’opposto della medaglia dell’estremismo e del suo possibile esito nella claustrofobia del terrorismo. Come psichiatra non può vivere senza l’altro, che è la ragione del suo essere, mentre Matteo vira su una normalità autoritaria che, anche se in qualche occasione riconosce l’altro, corre sempre il pericolo di distruggerlo, perché non è mai sufficiente a capire, perché da sola non è mai esaustiva per la vita.
Nel momento in cui sequestra Giorgia per restituirla alla famiglia rivela ancor di più a se stesso l’impossibilità di essere normale, dal momento che non è riuscito a corteggiare in Giorgia la sua anormalità, in un mondo che sempre più lui concepisce senza padri. Come Rimbaud (di cui Matteo legge le poesie) si è perso cercando la poesia ed è finito a fare il mercante di schiavi in Africa, così Matteo si è perso cercando un’aurora impossibile in cui la sua diversità poteva diventare dimensione universalmente condivisa; la sua indignazione è malata, come è malata la ferita di Giorgia.
Nicola è tutto concentrato sul capire, sul seguire, sul dare significato a quanto succede, sul costellare di segni la sua vita, nei suoi riguardi e rispetto agli altri, sa che a Giorgia arriva qualcosa di quanto si comunica, anche se i tempi di ricezione saranno lunghissimi.
Giorgia è l’amore impossibile, assoluto e poetico, innominabile, che porta entrambi i fratelli verso il loro diverso destino, è l’eterna adolescente che conserva sempre l’immagine di giovinezza, una musa sofferta, un’icona di mito benefico.
Ma anche Nicola ha il suo lato oscuro: pensa che ognuno debba vivere il suo destino e che gli altri non possano essere trattenuti (emblematiche le due uscite di casa di Matteo e Giulia, cui lui assiste senza opporre resistenza), ma sa anche che le persone vanno abbracciate e contenute in risposta alla loro richiesta di aiuto. In questo Giorgia è il suo riscatto, nella vicenda a tre che li accosta al Jules e Jim di Truffaut.
La vicenda, ne è testimone la trama, anche se soltanto accennata per situazioni epocali, è di estrema complessità ed intreccio e dà vita a figure ricche e contenute, se prendiamo come riferimento la recitazione.
Una citazione per tutte va ad Adriana Asti (Adriana, la madre dei fratelli), la più americana delle attrici italiane, forse l’unica che sa recitare con gli occhi, raggiungendo una intensità inaudita, calandosi, a la manière de Stanislavskij, nei panni della mater dolorosa.
Adriana è l’immagine della madre che raccoglie in sé tutto il dolore e la gioia per la presenza dei figli, che sa vivere il dolore soltanto con i suoi strumenti naturali, con le sue emozioni, la sua rabbia, la sua ammissione di non capire, la sua generosità alla vita fino all’ultimo. È “alma mater”, l’emblema della vita nel corpo dell’attrice e nel personaggio che interpreta.
Giorgia (l’attrice Jasmine Trinca) è misuratissima, in un personaggio difficile, come quello di una ragazza colpita da ferite familiari, che sono in sostanza la mancanza di amore, e che trova nell’alienazione il suo rifugio, per non morire del tutto. Come personaggio è il tratto di unione fra i due esiti di Matteo e Nicola. Soltanto Nicola però saprà interpretare il suo linguaggio, offrendole l’occasione di riaprirsi alla vita, ma anche traendo un grande insegnamento su che cosa vale e su che cosa non si deve perdere in un essere umano che sembra perso.
Giulia, la compagna di Nicola, che sceglie la lotta armata (interpretata dall’attrice Sonia Bergamasco) è anch’essa vittima della sua introversione, della sua stanchezza di discutere. “Un tempo avevi voglia di discutere, ora non più”, le dice Nicola.
Anche in questa mancanza di voglia di discutere è sottesa l’onnipotenza narcisistica che ha fatto dimenticare ai terroristi chi era l’altro (una divisa) e anche chi erano coloro per cui combattevano. La rinascita lenta di Giulia, dopo il carcere è il riconoscimento degli altri, da lontano, “per non dare fastidio”.
Abbiamo detto della vicenda, una sorta di romanzo storico popolare, l’illustrazione di un ambiente di cui fanno parte tutti i protagonisti, di cui non possono fare a meno, ma che non è quello che direttamente determina le vicende dei personaggi. La storia è motore, ma rimane ad una certa distanza, la maggiore vicinanza è quella della famiglia, delle dinamiche naturali di vita e di morte, di lavoro, di matrimoni, di amore, di tracce di memoria, di processi relazionali familiari che si caricano e si liberano della dipendenza.
Lo sfondo protagonista non è la politica, ma l’amore, l’amicizia, i figli, i genitori, l’identificazione e l’individuazione come percorso di vita.
Eppure quanto di desiderio collettivo c’è in queste vicende individuali! Quanta nostalgia di un mondo che vedeva con piena coscienza il passaggio conradiano della “linea d’ombra” della gioventù, oltre la quale Matteo precipita nel suicidio di fronte all’illuminazione oscura della vita perfetta, Nicola prende pazientemente in mano i destini degli ultimi, Giorgia si perderebbe se rimanesse sola, Giulia si perde per stanchezza di discussione, Carlo entra in quella zona terza della politica in cui abbiamo trovato, in questi trent’anni, tante persone “vere”.
È un film che merita una lenta decantazione, un far luogo all’archivio della memoria, tenuto privo di polvere, ma anche, con merito, trattenuto in un incunabolo custodito con cura.
Perché tutta l’operazione è anche un segno di punto finale, una sorta di meraviglioso lutto sull’epoca, un necessario sguardo all’indietro per andare avanti, nella consapevolezza stoica ed estremamente realistica che quelle vite non esistono più e non potrebbero vivere nell’attualità, se non evolvendosi darwinianamente, per non lasciare il posto a coloro che hanno voluto rimanere sempre al di qua della linea d’ombra, vantandosi, come i teppisti pasoliniani, di non aver fatto parte della “meglio gioventù” o, peggio, diventandone dei funerei rinnegati.
Psicologo psicoterapeuta SCRIPT Centro Psicologia Umanistica