a cura di Giovanni Lancellotti

Lo sguardo interiore nei passaggi dell’adolescenza.

“Solo i giovani hanno di questi momenti. Non parlo dei giovanissimi. No, i giovanissimi, per essere esatti, non hanno momenti. E’ privilegio della prima gioventù di vivere in anticipo sui propri giorni, in tutta una bella continuità di speranze che non conosce pause né introspezioni.

Uno chiude dietro di sé il piccolo cancello della mera fanciullezza ed entra in un giardino incantato. Là perfino le ombre splendono di promesse. Ogni svolta del sentiero ha una sua seduzione. E non perché sia una terra ignota. Si sa bene che tutta l’umanità ha percorso quella strada. Ma si è attratti dall’incanto dell’esperienza universale da cui ci si attende di trovare una sensazione singolare o personale: un po’ di se stessi.

Si va avanti, allegri e frementi, riconoscendo le orme di chi ci ha preceduto, accogliendo il bene e il male insieme – le rose e le spine, come si dice – la variopinta sorte comune che offre tante possibilità a chi le merita o, forse, a chi ha fortuna. Sì, uno va avanti. E il tempo pure va avanti, finché ci si scorge di fronte una linea d’ombra che ci avverte di dover lasciare alle spalle anche la regione della prima gioventù.

JOSEPH CONRAD La linea d’ombra. Einaudi 1988. Traduzione di Maria Jesi. Pag. 5.


Le ossessioni-compulsioni.

“Briony era una di quelle bambine possedute dal desiderio che al mondo fosse tutto assolutamente perfetto. Mentre la camera della sorella maggiore era una baraonda di libri mai chiusi, vestiti mai ripiegati, un letto mal rifatto e posacenere mai svuotati, quella di Briony era il santuario del demone che la animava: nel modellino della fattoria figuravano gli animali consueti, ma tutti rivolti in un’unica direzione – quella della loro proprietaria – quasi che fossero sul punto di levare un canto; perfino le galline erano sistemate rigorosamente in cerchio. In effetti quella di Briony era la sola camera ordinata al piano di sopra della casa. Le sue bambole, sedute erette nelle loro ville a più stanze, parevano obbedire al preciso ordine di non sfiorare mai le pareti; le file composte e spaziate delle varie figure alte un dito sulla sua toletta – cowboy, sommozzatori, topi umanoidi – davano l’impressione di un piccolo esercito sull’attenti.

IAN McEWAN Espiazione. Einaudi 2001. Pagg. 8,9. Traduzione di Susanna Basso.


La dissociazione.

“La bocca si era fatta rigida e asciutta, ed il cuore gli batteva all’impazzata: ma non aveva la forza di alzarsi. Il cuore gli batteva furiosamente. Dov’era? In caserma? A casa? Sentiva dei colpi. A fatica si guardò intorno: alberi, e per terra un variopinto strame di lucenti macchioline rossastre. Non sapeva se era lui o un altro: gli sembrava d’essere preda di un’allucinazione. I colpi continuavano. Cercò di rientrare in sé, ma invano. Cercò ancora. E a poco a poco riuscì a prendere coscienza di ciò che lo circondava. Ricordò: e uno spasimo gli attanagliò il cuore. Sentiva picchiare. Vedeva le grandi frange oscure di un piano sopra la sua testa. Poi tutto si fece buio: eppure non gli pareva di avere chiuso gli occhi. No: affatto. Poco alla volta tornò a vedere. E sempre picchiavano. Improvvisamente vide il volto sfigurato e sanguinante del Capitano: quel volto che odiava. Il terrore lo attanagliò . Eppure – nel profondo di sé lo sapeva – il Capitano era morto. Ma ormai era in preda al delirio. E continuavano a dar colpi. Egli giaceva perfettamente immobile, irrigidito dal terrore. Poi perdette i sensi. (…)

Ritornò in sé con un malessere anche peggiore, completamente esausto.

Mal di testa, una nausea terribile, e quest’incapacità di muoversi. Non era mai stato ammalato in vita sua. Non sapeva né dov’era, né chi era. Forse aveva preso un colpo di sole? O cos’altro, se no? Aveva fatto tacere il suo padrone per sempre, qualche tempo fa…oh, molto tempo fa. Il volto del Capitano si era imbrattato di sangue, gli occhi gli si erano girati all’insù. In certo modo ea andata bene. Era la pace. Ma ora aveva perduto se stesso. Non era mai stato lì prima d’ora. Era o non era vita? Tutto solo: separato da tutti. Tutti a loro agio nella luce, nello spazio. Lui, fuori. Città, campagna, sole e luce senza limiti: e lui qui fuori, relegato nell’oscurità, al confine di tutto. Ma a un bel momento avrebbero dovuto uscire fuori anche gli altri. Li aveva dietro ed erano tanto piccoli! E dire che anche lui aveva avuto i suoi genitori, la sua ragazza: e adesso…Nessuno contava più. Questo era un paese aperto.

Si mise seduto. (…)

Riuscì con pena ad alzarsi, e si allontanò vacillando. Camminò a lungo in cerca di qualcosa…voleva bere. Sentiva il cervello in fiamme per il bisogno d’acqua. Avanzò inciampando. Poi perse conoscenza. Perse conoscenza camminando. Pure continuava ad avanzare, barcollando, con la bocca aperta.

Quando, muto e stralunato, riaprì gli occhi sul mondo non tentò più di raccapezzarsi. Un violento bagliore faceva da sfondo a un definito luccichio verde e oro: poi alti fusti grigio-viola; infine il buoi, sempre più fitto, lo circondò. Aveva l’impressione di essere arrivato. Si trovava nella realtà: alla sua base cupa e vera. Ma c’era quella sete che gli bruciava il cervello. Non si sentiva più così pesante: no era anzi più leggero. Gli pareva di essere tutto nuovo.

Nell’aria brontolavano i tuoni. Aveva l’impressione di andare con una velocità sorprendente…di andare velocemente verso il sollievo…forse verso l’acqua?…

Un improvviso terrore lo paralizzò. Vide una tremenda fiamma d’oro: da quella fiamma lo separavano solo pochi tronchi scuri. Era la distesa del grano novello che, verde e liscia, ardeva con un bagliore accecante. Una forma scura si muoveva su quel grano verde di fuoco: era una donna con un panno nero in testa a mo’ di sciarpa, e con una larga gonna. Adesso entrava nella vampa del sole. C’era anche una fattoria, azzurra nell’ombra , con le travature nere; eppoi la cima di un campanile , come fusa nell’oro. La donna si allontanava. Non avrebbe saputo come parlarle. Essa era l’irrealtà concreta e luminosa: avrebbe udito solo un suono di parole che l’avrebbe confuso ancor di più, e gli occhi di lei, pur guardandolo, non l’avrebbero visto. (…)

Poi le tenebre calarono come una saracinesca e fu notte piena. (…)

E in lui continuava il delirio della febbre e del male. Il cervello, come la notte, gli si apriva e richiudeva: Ora, da un albero, grandi occhi spalancati su di lui lo agghiacciavano: ora era l’interminabile agonia della marcia sotto il sole che gli scomponeva il sangue: ora l’impeto dell’odio per il Capitano, seguito da un altro impero di tenerezza e di sollievo. Ma ogni cosa era distorta, creata dal dolore e dal dolore conclusa.

La mattina si svegliò completamente. Il cervello gli ardeva dell’unico orrore della sua sete. Aveva il sole in faccia. La rugiada che aveva bagnato i suoi vestiti si levava in fumo. Si alzò come invasato. Di fronte a lui le montagne azzurre e fredde e tenere, si allineavano sul chiaro orizzonte del cielo mattutino. Le voleva, voleva soltanto loro: separarsi dal suo io per identificarsi con loro: Non si muovevano, erano quiete, soffici, graziosamente striate di neve. Ristette immobile, dolorante fino allo spasimo, con le mani chiuse in una stretta convulsa. Poi in una crisi di parossismo prese a contorcersi sull’erba.

Immobile giacque di nuovo, perduto nell’incubo. Gli sembrava che la sete fosse separata da lui: una cosa a sé. E anche il dolore che lo tormentava pareva scindersi dalla sua persona e diventare un altro individuo. E c’era la massa del suo corpo: anche quella una cosa a sé. Si sentiva suddiviso in varie specie di individui. Vi era un tormentoso nesso che li univa, è vero: ma si allontanavano sempre più l’uno dall’altro , e certo avrebbero finito per staccarsi. Quello stesso sole che lo trafiggeva, trafiggeva anche quel nesso. Allora sarebbero caduti tutti, caduti nell’eterno vuoto dello spazio. Tornò cosciente, allora sollevandosi su un gomito fissò le montagne risplendenti. Si stendevano davanti a lui, nella loro misteriosa immobilità, fra la terra e il cielo.

Le fissò finché tutto fu tenebra, e le montagne maestosamente belle, così nitide e fredde, parvero ricevere ciò che in lui era perduto. Quando i soldati lo trovarono, tre ore dopo, era coricato col volto sul braccio, i neri capelli fumanti di sudore sotto il sole. Era ancora vivo. Ma quella bocca nera, aperta, li riempì di un tale orrore che lo lasciarono ricadere. Morì la stessa notte all’ospedale, senza aver riacquistato la vista. (…)

D. H. LAWRENCE L’ufficiale prussiano. Feltrinelli 1965. Traduzione di Camilla Salvago Raggi. Pagg. 25-29.

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