Riferirò di una vicenda clinica intrigante, faticosa e drammatica, per accennare alla mia idea che la terapia dei casi gravi passi obbligatoriamente attraverso crisi che vengono sperimentate dalla coppia analitica come travolgenti psicodrammi, al limite della resistenza emotiva. Per “casi gravi” intendo casi che sarebbero stati definiti “non analizzabili” dal punto di vista della psicoanalisi classica e che non potrebbero essere analizzati, senza una particolare disponibilità da parte dell’analista a coinvolgersi emotivamente, abbandonando il presupposto classico della propria neutralità. Per il cui, il sottotitolo della mia relazione potrebbe anche essere “il coinvolgimento psicoanalitico, portato alle sue estreme conseguenze”. Parafrasando Freud, la crisi può diventare la via regia per l’inconscio: per l’inconscio dissociato e non rimosso, il livello psichico al quale si colloca la psicopatologia grave.
Il caso
Frank, un uomo di 25 anni, è entrato in terapia, riferendo intensi e ricorrenti stati depressivi, dopo che al padre è stato diagnosticato un tumore al cervello. Dalla storia emerge un rapporto conflittuale con un padre sempre svalutante nei confronti dell’unico figlio e risulta evidente un grave scollamento del paziente da se stesso, che si manifesta nella tendenza coatta a soddisfare le aspettative degli altri e ad essere esageratamente conforme all’ideale di sé, a scapito della spontaneità e del senso di essere se stesso nelle diverse situazioni di vita.
Con preoccupazione e sconcerto, assisto a un progressivo peggioramento delle condizioni del paziente: ogni nuova presa di coscienza aumenta la sua disperazione, per cui appare assai appropriato il concetto freudiano di “reazione terapeutica negativa”: l’analisi va bene e il paziente peggiora! Le sue difese crollano troppo rapidamente e ciò determina addirittura uno sconfinamento di tipo psicotico.
A questo punto, l’uomo rivela in pieno la drammatica estensione del fenomeno di alienazione di cui si sente vittima e il suo ritornello diventa: «Dottore, non sento! Non sento niente…». Mi dice che il suo ritiro emotivo da se stesso e dalla vita reale è tale che gli manca completamente la sensazione di esistere, non ha nessun contatto con le proprie emozioni e vive se stesso come una macchina umana, un robot al quale comandare comportamenti e simulazioni. Ora si rende lucidamente conto delle proprie strategie. Per esempio, ha imparato a “guardare gli altri” e ad adeguarsi alle diverse situazioni, imitandoli: se le persone ridono, ride anche lui, se sono tristi, finge la tristezza, ecc.
Dopo aver messo a fuoco così impietosamente il proprio totale vuoto interiore, cominciò con la serie dei tentati suicidi. Il primo fu tramite l’assunzione di un’ingente dose di psicofarmaci. Viveva da solo e dovetti intervenire io a salvarlo. Il seguito fu caratterizzato da una serie di ricoveri e nuovi tentativi: con il tubo di scappamento, con l’accetta, strangolandosi, tagliandosi le vene… Dopo ogni nuovo ricovero in Psichiatria, la sua condizione psicologica appariva peggiore di quella precedente e la madre – che, a partire dal primo tentativo, si era trasferita nella casa del figlio – prese la coraggiosa decisione di non ricoverarlo più. Durante le sedute, alle quali veniva regolarmente, Frank era per lo più taciturno e sottilmente ostile. Si lamentava costantemente del fatto di “non sentire” e mi spiegò che soltanto quando progettava un suicidio e faceva i preparativi per togliersi la vita riusciva a emozionarsi un poco e a sentirsi quasi vivo. Aveva sviluppato una sorta di paradossale dipendenza emotiva dal suicidio: togliersi la vita era l’unico progetto plausibile e l’unico modo per dare un po’ di senso alla propria vita. Ricordo di essermi sentito piuttosto provato dalla situazione: ero costantemente in allarme e dormivo male, vicino al cellulare sempre acceso. Non c’erano segnali di miglioramento, nonostante la regolarità delle sedute, e non avevo idea di come le cose sarebbero andate a finire.
A questo punto, dopo lunga preparazione, avvenne l’episodio drammatico che dette una svolta alla terapia. Un bel giorno, Frank entrò puntualmente alla sua ora e si diresse meccanicamente verso la sua poltrona. Anch’io mi stavo dirigendo verso il mio solito posto quando, alle spalle dell’uomo, sbucò improvvisamente la madre, che si era introdotta nello studio come la sua ombra. Non mi ero affatto accorto di lei e la sua improvvisa apparizione mi fece l’effetto che la donna si fosse materializzata dal nulla. La madre si precipitò sul figlio, e, quasi gridando, ripeté più volte: «Fallo vedere, fallo vedere al dottore!». Così dicendo, gli afferrò un polso e sollevò con decisione la manica. È qui che mancano le parole per descrivere ciò che io vidi in quel momento.
Sapevo che, fra le altre pratiche autolesive, Frank usava coricarsi la sera provvisto di lametta, per tagliuzzarsi un po’ le vene prima di addormentarsi e cullarsi nell’idea consolatoria di morire dissanguato durante il sonno. Quindi, mi aspettavo di vedere qualche taglietto. Vidi invece qualcosa di molto diverso. L’avambraccio, totalmente martoriato, era stato tagliato così tante volte da essere diventato completamente nero e l’unico modo per descrivere l’aspetto che aveva raggiunto è dire che ormai era fatto di carne morta. Vidi quest’orrore in uno stato di sogno, mentre la scena tragica che avevo davanti irradiava una sorta di potenza mitologica: mi trovavo di fronte alla Pietà e Frank, fra le braccia della madre, era diventato il Cristo deposto dalla croce. So di non avere nascosto la mia emozione, forse ho anche gridato, anche se non ricordo le parole che pronunciai in quel momento.
Quel che è certo, in quell’attimo avvenne qualcosa di decisivo, tant’è che Frank, da allora in poi, non ha mai più tentato il suicidio.
Anzi, da quel momento riprese gradualmente a sentire. Prima la paura e l’angoscia di essere diverso dagli altri. Poi, nascostamente, l’euforia di un piccolo successo personale (la costruzione di un sito internet). Poi, faticosamente, l’intera gamma dei sentimenti, attraverso un tormentato percorso di alti e bassi, che ha richiesto molto sostegno da parte mia e che, inizialmente, è stato segnato da altre difficoltà e altre crisi (bastava che si sbilanciasse un poco nell’interagire con altri, per riattivare un senso di persecuzione sempre in agguato). Ma niente di paragonabile a quanto era avvenuto in precedenza. A distanza di 10 anni, il cambiamento di Frank risulta stabile e definitivo.
Tornando al punto cruciale della storia, che cosa è realmente avvenuto in quel momento particolarissimo che ha segnato la svolta in una terapia così difficile? Per esprimermi nel modo più semplice e immediato, in quel momento credo di aver “sentito” Frank per la prima volta; credo, cioè, di avere finalmente preso contatto in quel modo con l’emozione devastante del suo dolore, in tutta la sua realtà vera. Per certi versi, ero anch’io, insieme a lui, nella condizione del “non sentire”, ma in quel momento ho abbandonato io per primo le mie difese e ho finalmente sentito tutta la tragedia di quell’uomo. Frank si è “sentito sentito” e, da quel momento in poi, ha cominciato di nuovo a sentire se stesso e a rapportarsi agli altri attraverso la mediazione di un senso di sé.
Le riflessioni
Ci sono alcune riflessioni che sento il bisogno di aggiungere, come commento a questo stralcio di terapia, preso da uno dei casi più drammatici di tutta la mia carriera professionale. Esse riguardano: 1) cosa io intendo come psicoanalisi relazionale; 2) la natura della psiche e dell’inconscio nella mia ottica relazionale; 3) lo stato alterato di coscienza che ho sperimentato proprio nel culmine di quella crisi che ha avuto un ruolo così decisivo nello sblocco della terapia.
Per me la psicoanalisi relazionale costituisce l’aggiornamento metodologico della nostra disciplina, a 100 anni di distanza dall’inizio della rivoluzione relazionale nella scienza. Da quando Einstein stabilì l’equivalenza di materia ed energia, non possiamo più pensare che la realtà sia dualisticamente divisa fra “cose” e “forze” che le muovono, o corpi e spiriti che li abitano… La realtà è fatta di relazioni.
La narrazione continuamente narrata, nella quale consiste il nostro sé riflessivo, sostenuta dal dialogo fra un io e un tu (tanti tu), combina, organizza, disorganizza, ricombina e riorganizza gli elementi basilari della coscienza, le esperienze non verbaligià a loro volta organizzate a livello di coscienza primaria in un ricco repertorio di scene.
Intendo la coscienza primaria, sulla scorta di Edelman, come un processo ricorsivo, caratterizzato dall’irruzione di ricordi che si proiettano istantaneamente su determinate gestalt percettive, realizzando una sorta di riconoscimento allucinatorio dell’espe-rienza in corso, che giustifica il termine indovinatissimo di “presente ricordato” (Edelman, 1989). In un lampo memorabile di sintesi, così Edelman ci ha presentato il suo concetto di coscienza primaria, identificandosi in un’antilope: «Un certo movimento dell’aria sul fare della sera, unito a un particolare, leggerissimo scricchiolio fra le fronde, significa: sta arrivando un giaguaro!» (Edelman e Tononi, 2000). Ed è questo, né più, né meno, il cosiddetto inconscio dissociato con il quale abbiamo a che fare nella patologia grave.
Per quanto riguarda la struttura della psiche o del sé, in un’ottica relazionale dobbiamo rinunciare all’oggettivazione e al concretismo: il soggetto non è una cosa, ma una fitta rete di relazioni fra le cose. La posizione di neutralità dell’analista, che rappresenta l’adesione della psicoanalisi classica al metodo oggettivante di stampo illuministico, crea l’artefatto della mente isolata (per non dire della mente concreta) e, inoltre, rende non analizzabili i casi gravi come quello da me descritto.
Come tutti gli animali vertebrati, prima ancora che di riflessività e di parole, in siamo fatti di “danza relazionale” (Bateson, 1977), la danza che la preda esegue insieme al suo predatore, l’ape insieme al fiore e al sole, ecc. Attraverso le narrazioni fatte di parole, noi impariamo a evocare e a collegare le scene della coscienza primaria indipendentemente dallo stimolo della percezione immediata, creando combinazioni di combinazioni, articolandole con estrema libertà e dando continuamente origine a possibilità e significati nuovi e questo, e non altro, ci distingue da tutti gli altri animali che si sono avvicendati su questo pianeta prima di noi.
Che dire, alla luce di queste considerazioni, dello stato alterato di coscienza, il sogno da sveglio nel quale si è giocata la partita di una terapia così difficile (e la vita del paziente)?
Come faceva capire il sogno del gatto nero, la situazione interiore del paziente era costituita dal conflitto fra un sé umano di tipo “marionetta”, potremmo anche dire un sé verbale fatto solo di parole, e un sé animale, caratterizzato da impulsività e immediatezza, vero artefice, di lì a poco, dei ripetuti comportamenti autolesivi che contenevano la paradossale intenzione di rivitalizzare la parte umana di sé, totalmente esangue. L’impasse terapeutica nella quale ci eravamo venuti a trovare dipendeva, ovviamente, dall’impossibilità di accedere, attraverso le verbalizzazioni del paziente e le mie, alla sfera emotiva che era totalmente dissociata. Non posso non citare il titolo di una delle prime, famose autobiografie psicoanalitiche che, tanti anni fa, si trasformò in best-seller: Le parole per dirlo (di Marie Cardinal). Le parole non comunicavano con le emozioni di Frank e si potrebbe dire che mancava totalmente la possibilità di simbolizzare il suo dolore: si poteva parlare all’infinito della sua disgraziata condizione, ma solo senza sentirla. Non potendo essere simbolizzate nel discorso, le emozioni potevano solo irrompere “tal quali”, come altrettante scene di coscienza primaria: accette per macellare, cappi per impiccare, lame per tagliare i polsi, notti insonni, angoscia senza nome. In questo contesto, lo psicodramma della crisi si è inserito come una prima possibilità d’incontro fra i due sé dissociati: la coscienza “superiore” e la coscienza primaria.
Ma perché è stato necessario, da parte mia, sognare e non semplicemente vedere il dolore di Frank fatto carne, per congiungere l’emozione alla possibilità della sua rappresentazione? Perché lo strazio di Frank è diventato per me reale soltanto dopo averlo visto attraverso l’icona della Pietà?
Una mia ipotesi è che nel sogno la coscienza primaria, privata momentaneamente dello stimolo sensoriale, si organizzi ricorsivamente su se stessa, realizzando una forma di “riflessività primaria”, nella quale le rappresentazioni dei significati restano particolarmente concrete e vicine ai significati stessi: una sorta di linguaggio-base, o “linguaggio delle scene”, strettamente ancorato all’emozione dissociata, che si protende tuttavia verso la possibilità di una rappresentazione simbolica. Ciò concorda, del resto, con la teoria di Bion e in particolare con la versione fornitaci da Antonino Ferro, per cui il sogno, di notte come di giorno, costituirebbe il risultato della “funzione alfa”, attraverso la quale continuamente trasformiamo stimolazioni sensoriali, di per sé inassimilabili e pertanto potenzialmente distruttive, in immagini pronte per integrarsi nell’intreccio delle nostre trame narrative, arricchendole di nuove, infinite possibilità di rappresentazione.
Al di là di ogni gergo di scuola, la spiegazione che io propongo individua nel sogno la dimensione generativa di ogni nuova possibilità di rappresentazione dell’espe-rienza vissuta. Nella crisi le scene primarie che dominano la vita interiore del paziente grave si riversano nella sua vita “reale” e la invadono, presentandosi al limite come allucinazioni, oppure organizzandosi in forma delirante. Quando la crisi viene accolta nello spazio analitico, assume il valore di psicodramma e di qui al sogno il passo è breve. Nel sogno il dramma può finalmente sbloccarsi, evolvere e trovare soluzioni inaccessibili per la mente sveglia.
Per aiutare Frank a ritrovare la propria capacità di sentire, cioè quel contatto con se stesso che lo facesse sentire umano, ho dovuto prestargli la mia capacità di sentire, ma per poter raggiungere emotivamente la parte viva di lui ho dovuto creare “le parole per dire” il suo dolore, bypassando tutte le narrazioni tecnicamente appropriate ma anaffettive che già potevo condividere con lui sul piano riflessivo. Per creare le parole nuove, capaci di veicolare la sua vita affettiva, ho dovuto sognare il suo dolore. Per sognare il suo dolore, ho dovuto accettare di coinvolgermi in una serie di drammatici “psicodrammi”, espressione del suo inconscio dissociato, il più drammatico dei quali è quello che vi ho riferito. In questo modo vi ho presentato un esempio estremo di coinvolgimento psicoanalitico, un esperimento davvero faticoso che fortunatamente ha avuto buon esito, ma vorrei chiudere rassicurandovi che le cose non procedono sempre in maniera così drammatica.
Il coinvolgimento psicoanalitico, nei termini del padre fondatore dell’orientamento relazione, Stephen Mitchell, significa essenzialmente “accettare di cadere nelle trappole tese dalla nevrosi del paziente, allo scopo di venirne fuori insieme”.
Alberto Lorenzini (Script)
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