A cura di Giovanni Lancellotti
L’intervista a Manal Al Tamini è stata realizzata nell’occasione della sua partecipazione, il 27 novembre 2003 al “Corso di formazione per insegnanti sull’educazione alla pace e alla risoluzione non violenta dei conflitti”, organizzato dall’Associazione AISE all’interno del Progetto “Sogni di pace”.
Il Progetto, educativo e informativo, “Sogni di pace. Diritti negati e aspirazioni di pace di bambini e adolescenti in situazioni di conflitto” è stato promosso, organizzato ed ha avuto i contributi della Regione Toscana e delle associazioni di Pisa “Centro Nord Sud”, “Salaam, ragazzi dell’Olivo”, AISE (“Associazione Insegnanti Solidarietà Educativa”, “Poliedro”, “Arsenale, associazione di cultura cinematografica”, “Sezione pisana soci Coop”. L’attività è stata rivolta alle scuole di Pisa e Provincia, ad insegnanti ed alunni.
È stato attuato nel periodo novembre-dicembre 2003.
L’intervista è frutto di un contatto personale con Manal Al Tamini, di informazioni che ho avuto da Caterina Guarna, responsabile dell’Associazione “Salaam. Ragazzi dell’Olivo” di Pisa e di Pontedera e di una e-mail inviatami da Laura Bergomi, dell’Associazione “Assopace” di Bergamo.
Come ti vuoi presentare?
Mi chiamo Manal Al Tamini, ho 25 anni, sono una psicologa palestinese, vivo e lavoro a Nablus, nella Palestina dei Territori occupati dall”esercito israeliano.
Mi potrei definire una pacifista, una “nonviolent resister”, e questo passa attraverso “hard togh things”, cose dure.
Sono in Italia, per tessere contatti con associazioni italiane che lavorano per la pace e per portare una voce di prima linea sulla situazione palestinese nei territori occupati, una voce direttamente proveniente dalla società civile.
Sono diventata una “human supporter” all’età di 15 anni. Ho studiato psicologia e mi sono laureata all’Università di Nablus.
Attualmente sono coordinatrice di 20 associazioni, soprattutto gruppi di medici e gruppi per i diritti umanitari. Lavoro con diverse associazioni per l’aiuto dei bambini traumatizzati dall’occupazione israeliana e dalle violenze subite e viste.
Sono conosciuta e il mio nome noto alle autorità israeliane. Tutti i soldati mi conoscono. Temo che sia l’ultima volta che posso uscire dalla Palestina, cioè da Israele e che, in seguito, questo mi sia proibito.
Con un gruppo di paramedici lavoro ogni giorno nelle strade di Nablus per sostenere associazioni come il Medical Relief Team e lo Health Work Committees.
Puoi dare un esempio concreto della tua attività?
Quando i soldati israeliani entrano in azione a Nablus e occupano delle case, mi faccio aprire la porta dai soldati stessi per far uscire le famiglie e liberarle dalle violenze, per parlare con i soldati, per portare i feriti all’ospedale.
Ho studiato la storia del suo Paese e conosco la politica internazionale.
Cerco di trasformare le mie conoscenze in azione in favore della pace fra palestinesi e israeliani e per la tutela dei diritti umani.
Sono sposata con un attivista pacifista palestinese, che organizza meeting tra palestinesi e israeliani.
Penso che la sola strada per risolvere il conflitto sia il dialogo.
Assieme ad una pacifista israeliana, sua amica, ho tenuto una serie di conferenze nelle università francesi.
L’associazione a cui appartengo si chiama Ansar al Ensan (Human Supporters), con sede a Nablus. In Italia ha come corrispondente il Servizio Civile Internazionale.
La mia attività principale consiste nel procurare zone sicure ai bambini durante le incursioni israeliane. In queste occasioni esco nelle strade, assieme ad altri volontari, raccolgo i bambini che trovo e li porto in luoghi considerati sicuri, accogliendo le loro paure e contenendo le loro angosce per quello che succede.
Soprattutto nei campi profughi i bambini vivono la maggior parte del tempo sulla strada e all’improvviso si trovano le strade occupate dai soldati armati, dai mezzi blindati e dai carri armati.
Come aiuti i bambini che vivono sulla strada?
Lavorando con loro mi sono resa conto che sono tutti traumatizzati.
Sono quelli che lanciano le pietre contro i carri armati israeliani.
A volte li accompagno all’ospedale, feriti; quando vengono arrestati telefono ai comandi israeliani per chiederne il rilascio e contatto le loro famiglie.
Lavoro con i bambini attraverso il teatro, la pittura, il rilassamento, la recitazione, l’espressività. Alla fine sembra che tutto sia inutile, ma io non smetto: fare qualcosa è molto meglio di niente. Faccio quello che ho imparato a fare studiando psicologia.
Ho pensato che il primo passo sia di garantire ai bambini una zona sicura, un luogo da cui partire per lavorare sui traumi e rimuovere gli eventi che li causano, anche se l’occupazione non può certo essere rimossa così.
Spesso è sufficiente un’ora di scorribanda dei blindati israeliani, l’occupazione della casa di un bambino per distruggere mesi di lavoro.
L’intervento sui bambini va ripetuto più volte, perché i traumi sono rinnovati.
Non sono in grado di proteggerli in tutto e per tutto e di far loro promesse. Dico loro che un luogo sicuro lo possono creare dentro di sé.
Fino a due anni fa promettevo un futuro luminoso, anche se non nell’immediato, ma, da quando un bambino che seguivo è morto, non faccio più questa promessa. Ora sono più realista, cerco di fornire strumenti, di proporre modalità, di suggerire esercizi per gestire il trauma, aiuto ad esprimere emozioni e sentimenti.
Perché i bambini lanciano pietre contro i mezzi israeliani?
Lanciare pietre è un messaggio, come dire “qui non vogliamo l’occupazione, qui non siete i benvenuti”. Quando lanciano le pietre i bambini rischiano la vita e lo sanno, perché vedono comunque altri bambini uccisi, ma consegnano comunque un messaggio.
Un giorno ho pensato di fornire un’alternativa al lancio delle pietre, non perché questo gesto fosse violento – i bambini non sono violenti – ma perché è troppo pericoloso.
Ho detto ai bambini che scrivessero messaggi per i soldati israeliani, io li avrei consegnati e avrei portato le risposte. La maggior parte ha accettato. Hanno scritto, ad esempio “Vorrei informarvi che state occupando…” e hanno firmato in molti.
Quando sono andata per la prima volta sono andata alla base militare israeliana, presentandomi come psicologa e portatrice dei messaggi dei bambini di Nablus, non ero certa che avrei ricevuto una risposta, ma pensavo che, se i soldati li avessero letti, sarebbe già stata questa una risposta.
Fui arrestata e rimasi sequestrata per un giorno. Allora ho capito che l’arresto fa parte delle vicende di un attivista, non è certo un’esperienza divertente, ma forse non è fra quelle che più ti colpiscono.
La parte più difficile è stata quella di tornare e spiegare ai bambini che non c’era stata risposta, come potevo dire lo di smetterla col lancio delle pietre? Sono rimasti delusi, è questo è stato un nuovo piccolo trauma.
Continuo comunque a raccogliere messaggi e a darli ai soldati, perché anche un solo soldato capisca e, magari, diventi un disertore.
La non violenza è sempre vincitrice. Gli altri hanno la forza, noi il diritto. Io sono la vincitrice, loro stanno perdendo. È questa la provocazione.
Una volta ho fatto la proposta di colorare le pietre, così che possano sembrare fiori. Anche se i soldati sparano forse uno di loro sarà il prossimo refusnik (è il nome con cui si definiscono i soldati israeliani che si rifiutano di compiere operazioni militari nei Territori occupati, non di servire nell’esercito di Israele. N.d.r.), ce ne sono già più di un centinaio, non sono più un’eccezione.
Ad ogni aggressione c’è una risposta possibile: se i tank distruggono la rete elettrica faremo luce con le candele, faremo teatro, andremo con le maschere da clown davanti ai check point.
Puoi raccontare di un’esperienza realizzata di diversa risposta, rispetto alla violenza, all’occupazione israeliana?
Sì, ce n’è una in particolare, che abbiamo chiamato operazione picnic.
La campagna intorno a Nablus è molto bella ed è costellata dalle basi militari israeliane. Abbiamo pensato di avere il diritto di fare dei picnic, di portare con noi cibo, di fare musica. Ci siamo organizzati con i volontari palestinesi, con alcuni internazionali e con un pacifista israeliano (grazie a lui non è successo il peggio). Abbiamo portato uno striscione con scritto “zona smilitarizzata”.
Constatata la presenza di un cittadino israeliano i soldati hanno sparato in aria e non verso le persone, ma hanno reagito come se li avessimo provocati con armi, non con cibo e musica.
Dove trovi la forza per vivere tutto ciò?
Semplicemente cerco di praticare i miei e i nostri diritti. Non piango, non mi piace piangere. Credo nei diritti umani. Sorrido spesso, noi palestinesi abbiamo uno speciale senso dell’umorismo.
Assieme ad alcuni bambini palestinesi ho contribuito alla creazione di un sito web, all’interno del quale i bambini si presentano con una scritta in movimento che dice “Non siamo una statistica. Abbiamo facce, nomi, speranze, sogni. Siamo come voi”.
Lotto per affermarmi come persona che gode di diritti. I bambini e le bambine palestinesi devono provare ad essere persone, per farlo capire al mondo: questo è scioccante, loro sono persone e quello che succede in Palestina è responsabilità di tutti, è una vergogna per l’umanità.
Che cosa possono fare coloro che sono solidali con la vostra presa di posizione, con l’aspirazione della società civile palestinese a godere del diritto fondamentale, quello della libertà?
C’è una sola differenza fra me e voi: io sono nata là e ci trascorro la mia vita.
Ogni secondo migliaia di persone vengono umiliate: ai check point, nelle case, nelle università, nelle scuole, per le strade. È una questione di dignità. Viviamo in un’occupazione che non rispetta i diritti umani, che è contro il diritto al picnic, alla piscina, al campo da giochi, ad una vita normale, è contro i diritti legali in caso di arresto.
Da troppo tempo l’occupazione è la vita quotidiana.
Eppure noi manteniamo i nostri sogni: liberare la Palestina, vivere nella giustizia, come il sogno di Martin Luther King.
E avremo la nostra libertà, perché ne abbiamo diritto.
Gli uomini e le donne di pace di tutto il mondo hanno il compito di incoraggiarci nella nostra resistenza.
A cura di Giovanni Lancellotti