È misteriosamente ricomparso in libreria un classico al quale io attribuisco un enorme valore teorico e pratico, un libro decisamente cult per quanto mi riguarda. Questo straordinario libro, summa finale del pensiero di Karen Horney, era esaurito da tempo immemorabile, sicché nella mia biblioteca come in quella di molti altri colleghi era presente solo in forma di pacco di fotocopie sottolineate e sdrucite, una cosa indegna considerato il valore dell’opera. Il mistero della ricomparsa è rappresentato dal fatto che non si tratta di una ristampa, ma della stessa identica edizione del 1981, con su scritto “finito di stampare nel settembre 1981 nella Tipografia ecc. ecc.” Fatto sta, consiglio vivamente a chi fosse interessato di approfittarne e di procurarsene subito una copia, prima che scompaia di nuovo e definitivamente, da qui all’eternità.
Questo libro ha cinquantotto anni (esattamente la mia età), ma non li dimostra affatto. Chi lo legge per la prima volta vive immancabilmente un’esperienza di sorpresa e di paura, perché non può evitare la sensazione di trovarsi di fronte alla propria biografia. Mi sono chiesto spesso da cosa dipenda questo effetto così particolare (e sconvolgente), cioè la capacita dimostrata da questo testo di parlare ad ognuno di lui stesso. Penso che dipenda dalla capacità di collegare ogni singola manifestazione nevrotica alla visione d’insieme, cioè dal fatto di andare sempre al nocciolo dei problemi, all’essenziale. Definirei la prospettiva psicologica della Horney come quella di una psicoanalisi del sé, intrinsecamente relazionale. Mi spiego meglio. La Horney è profondamente convinta che la psiche si formi nel contesto di una matrice relazionale (questa espressione è stata coniata molto più recentemente da Stephen Mitchell, ma è ciò che meglio si adatta al senso di ciò che voglio esprimere). L’ambiente primario condiziona pesantemente le possibilità evolutive iniziali e la psiche, per necessità di adattamento e sopravvivenza, rinuncia allo sviluppo sano e intraprende la via dello sviluppo nevrotico, la creazione di un complesso e articolato falso sé: “Il processo nevrotico è un particolare aspetto dello sviluppo della personalità umana… Non solo differisce qualitativamente dallo sviluppo sano, ma molto più di quanto non ci si sia mai resi conto, gli è antitetico in vari modi… In seguito a conflitti interiori, l’essere umano può estraniarsi dal suo vero sé; in tal caso egli devierà la maggior parte delle sue energie nel tentativo di modellarsi, mediante un rigido sistema di dettami interiori, in un essere assolutamente perfetto (p. 11)”. Più avanti, la Horney afferma espressamente che il nevrotico è il pigmalione di se stesso.
L’impianto concettuale del libro è quello di una logica ferrea. Tre sono le possibilità nevrotiche fondamentali (cioè quelle fallimentari, dal punto di vista della realizzazione autentica di sé) di porsi in rapporto all’esperienza del conflitto interpersonale: cedere terreno, fino al punto di sottomettersi ai bisogni e ai desideri altrui; dilatare se stessi e imporsi arrogantemente; rifuggire quanto più è possibile dalle relazioni. L’adozione di una soluzione nevrotica conduce ad un circolo vizioso e all’autorafforzamento della soluzione adottata, attraverso la creazione di innumerevoli dettami interiori che condizionano l’esistenza. La nevrosi si costruisce poi attraverso la idealizzazione della propria soluzione nevrotica, per cui il remissivo si convince di essere non già “coatto” nelle sue scelte, ma incredibilmente capace di amare, l’aggressivo idealizza la propria forza, coraggio ecc. e il fuggitivo ritiene di essere un uomo libero e saggio. Questo orgoglio nevrotico ci sì che si guardi sempre più spesso ai propri limiti e ai propri bisogni umani normali senza alcuna capacità di accettazione, anzi con disprezzo, e produce odio verso se stessi e, infine, auto-alienazione.
Insomma, in questo libro si parla di dettami interiori, pretese nevrotiche, orgoglio nevrotico, disprezzo di se stessi, remissività, rabbia vendicativa, assertività patologica, distacco emotivo e auto alienazione. Usando una terminologia kohutiana, questo si chiama livello di teoria vicino all’esperienza, a differenza della terminologia psicoanalitica classica che ha creato ogni sorta di spiegazioni basate sulla metapsicologia e la teoria delle pulsioni, un livello distante dall’esperienza che Horney non fu in grado di accettare, motivo per cui dette le dimissioni e portò avanti una propria scuola. La vendetta dell’establishment psicoanalitico fu quella di mettere in circolazione la voce che Horney introducesse spiegazioni sociologiche nella psicoanalisi, cioè spiegazioni superficiali, a scapito della “profondità” delle spiegazioni psicoanalitiche “vere”. Una voce che ha ottenuto molto ascolto, tanto che il pensiero della Horney è stato completamente accantonato e dimenticato negli anni. A pensarci bene, questa della superficialità della Horney è la più grande panzana di tutta la storia del movimento psicoanalitico e la ragione del credito che ha ottenuto risiede probabilmente nel fatto che Horney era tremendamente avanti rispetto ai tempi e creava enorme imbarazzo nel lettore psicoanalitico (lo crea ancora oggi). Le analisi della Horney sono dettagliate, sottili, stringenti e vanno davvero molto in profondità, ma l’utilità principale che in esse ravviso è quella di orientarci subito, di darci una chiave di lettura preziosa del disturbo nevrotico. La tipologia psicopatologica che mette a nostra disposizione con questo libro testamento, scritto al termine ormai di una vita lunga e operosa, funziona magnificamente come riscontro oggettivo, per sapere chi abbiamo di fronte quanto lavoriamo con un paziente ed evitare di “giocare a mosca cieca” con lui, mantenendo l’indagine psicoanalitica centrata sull’essenziale, come ho detto nel mio scritto Oggettività del disturbo e soggettività della persona, pubblicato su questo stesso numero di script.
Per finire, un sentito ringraziamento al dottor Luigi Ruggiero, il maggiore esperto italiano della psicologia psicoanalitica del sé, senza il cui indirizzamento anch’io sarei rimasto vittima del luogo comune svalutativo che vergognosamente si mantiene a carico di questa grandissima studiosa della psicologia del profondo.
Alberto Lorenzini
Medico, psicoterapeuta, bolognese di nascita. Formatosi inizialmente alla psicologia analitica junghiana, si è successivamente interessato alle relazioni oggettuali e alla psicologia del Sé di Kohut. Attualmente si riconosce nel movimento della Psicoanalisi Relazionale. Ha pubblicato diversi articoli su riviste specializzate e due libri: La psicologia del cielo e Lo Zen e l’arte dell’interpretazione dei sogni, entrambi presso le Edizioni Mediterranee. E’ membro della SIPRe (Società Italiana Psicoanalisi Relazionale). Esercita a Pisa continuativamente, da trent’anni, la professione privata di psicoterapeuta.
E-mail: alberto.lorenzini@gmail.com