INTO THE WILD – NELLE TERRE SELVAGGE
Regia e sceneggiatura: Sean Penn.
Soggetto: dal libro “Nelle terre estreme” di Jon Krakauer.
Fotografia: Eric Gautier.
Montaggio: Jay Cassidy.
Musica: Michael Brook, Kaki King, Eddie Vedder.
Scenografia: Derek R. Hill.
Costumi: Mary Claire Hannan.
Interpreti:
Emile Irsch (Cristopher McCandless),
MarciaMarcia Gay Harden (Billie McCandledss),
William Hurt (Walt McCandless),
Jena Malone (Carine McCandless),
Brian Dierker (Rainey),
Catherine Keener (Jan Burres),
Vince Vaughn (Wayne Westerberg),
Kristen Stewart (Tracy),
Hal Holbrook (Ron Franz).
Produzione: Art Lisnon, Sean Penn, William Pohlad per Into the Wild/River Road Film/Art Linson Productions/Paramount Vantage.
Disribuzione: Bim.
Durata: 140’
Origine: USA 2007.
Chris McCandless adempie al suo dovere di buon figlio della upper class americana e, nel 1990, i laurea pieni voti. I genitori sono felici, la media è alta e Harvard lo attende, dopo un’estate passata meritatamente a girovagare per gli States. Chris non andrà ad Harvard e non smetterà di girovagare che nel 1992, due anni dopo, quando, vinto dalla fame, dalla fatica e dalla solitudine, morirà avvolto in un sacco a pelo blu, dentro ad un bus misteriosamente abbandonato nel bel mezzo di una radura in Alaska. Chris è un trampoliere (così lo definiscono Jan e Raines, due Hippies che incontra sulla strada), è uno che ha nelle proprie gambe la sola ed unica forza, nelle gambe e nella forza di volontà, nell’incosciente spirito di avventura, nel sistematico rifiuto di una società cui non riconosce nessun valore, nell’ossessiva ricerca di un contatto intimo ed esclusivo con la natura.
Chris cerca la verità, dice, e questa ricerca lo porta via da Washington, la città della sua famiglia, da Atlanta, la città dove studia, dai genitori che considera responsabili delle sue sofferenze ma anche dalla sorella Carine che lo adora. Lo porta via e basta. Così, abbandonata la vecchia auto, bruciati gli ultimi soldi rimasti in tasca, dati in beneficenza i risparmi del fondo per lo studio, Chris si avventura e si battezza: Alexander Supertramp è il suo nuovo nome. Alex, così si chiamerà per tutta la composita galleria di individui variegati che incontrerà da quel momento in poi, si muove tortuosamente per gli Stati Uniti fino ad arrivare in Messico per poi risalire in attesa del momento giusto per raggiungere l’Alaska. Muoversi e vedere, spostarsi e vivere, conoscere senza legarsi. Fare tutto con nulla più di ciò che sia strettamente indispensabile alla sopravvivenza e non fermarsi mai più del necessario, queste si impongono come le uniche priorità del “viaggiatore esteta” Chris-Alex: “Per non essere più avvelenato dalla civiltà lui fugge e cammina solo sulla terra per perdesi nella natura selvaggia”. (1)
Il film inizia con aspetti iconografici molto compositi (le scritte tratte dai libri letti dal protagonista, la colonna sonora che entra, a volte, prepotentemente in campo con le canzoni di Eddie Vedder, l’immagine della strada, con la linea di mezzeria che scorre, immagine culto di tutti i roadmovies americani). Da subito il cine-occhio dello spettatore è avvolto in medias res (il camionista che dà un passaggio a Chris e gli dice “Se sopravvivi fammi uno squillo”, l’impatto col magig bus, abitazione gioiosa e tomba inattesa, di fronte al quale la voce chiede “C’è nessuno, c‘è nessuno qui? Credo di no”, evento che apre la via ad una solitudine, a lungo, non essenza della attesa ricerca, anche se cercata contro ogni evidenza di incontro.
Into the Wild celebra l’epopea di un esploratore del nulla che, sebbene figlio degli esploratori della frontiera americana verso Ovest, continua un viaggio senza meta (l’Alaska non è mai geograficamente connotata se non come un indifferenziato Nord) alla ricerca forse di niente e che annulla la materia civile inutile (carta di credito, carta di identità, auto, tessera sanitaria) attraverso una spogliazione francescana che, se non attraverso immagini, per linee concettuali, ci rimanda al primo “Francesco” della Cavani, anche se il mondo di Chris/Alex è privo della nascosta speranza di un dio.
La natura in cui il protagonista si addentra è leopardianamente indifferente, come ci risulta dal “Dialogo della Natura e di un Islandese”, e dice la sua ultima parola sull’impresa di superamento del limite, attuata dal giovane camminatore senza aver considerato la riflessione sui baconiani “idola”, per capire la medesima natura che affronta, non allo scopo di conquista, da cui fugge, ma col fine della conoscenza romantica dell’Ente Natura in corrispondenza col proprio Sé.
Ma la morte giunge come elemento fallimentare su un Amleto puro e in concluso combattuto fra l’epos (l’avventura in solitudine) e liricità (gli spazi del diario intimo).
Il plot del film è costruito con un andamento a zig zag, quasi forma della sostanza del racconto, con frequenti flashback, rallenti, scrittura che si trasforma in didascalia asimmetrica con l’immagine, ampie carrellate su orizzonti aperti).
La cifra stilistica e l’uso di una simile sintassi, ad esempio sul tema famiglia, mette a confronto le immagini della crescita di Alex (le liti dei genitori, le loro menzogne nei confronti dei figli), a volte quasi allucinazioni del protagonista, con le lunghe sequenze dedicate agli incontri sulla strada, che costituiscono quasi una nuova famiglia, questa volta scelta, lontana dalla patologia del quotidiano, anche se non priva di questioni irrisolte e sospese che pesano come altrettanti satelliti al di fuori dell’orbita della sistemazione dell’Io (il figlio lontano della coppia hippie, il figlio mancato di Ron, l’amore non vissuto con Tracy,nella Comune di Slab City: rapporti molto intensi, ma con un attaccamento “evanescente”, che non può essere vissuto perché altra, inquietamente sentita, è la vita, portatrice di un altrove che dovrebbe volgere alla ricerca di un vero o di un altro Sé, nato soprattutto dai libri (Tolstoj, London, Thoreau) che annulli un Io sotto false influenze sociali.
La piena del fiume che sommerge l’auto dell’ormai Alexander Supertramp ha tutto il sapore di una battesimo areligioso che apre ad una nuova identità, molto difficile, perché non ha il supporto della frontiera verso Ovest e si caratterizza più dalle chiusure che dalle aperture.
Il percorso filmico, che tende alla solitudine, si costruisce sul paradosso che quanto più è raccontata la situazione di isolamento all’interno della natura, tanto più la suspence va verso l’epilogo: “la felicità è reale soltanto quando viene condivisa”.
Nella solitudine avviene l’annullamento della vita. L’avvelenamento ha il valore simbolico di un qualcosa non trovato che si trasforma nel contrario dell’attesa di una ricerca a lungo pensata e sentita.
I commenti al film sono stati i più disparati (2).
Alla visione della pellicola resta una profonda commozione che va al di là dei giudizi critici e ti lascia il gusto di una ricerca senza fine, purché rimanga la vita che la cerca.
A cura di Giovanni Lancellotti
giovannilance(at)alice.it
(1) La trama del film è tratta da CHIARA BORRONI “Carnet de voyage di un alieno americano” in “Cineforum” n. 472 marzo 2008.
(2) Se qualcuno avesse il desiderio di approfondire la conoscenza del film attraverso alcune letture, ne elenco gli esempi da me conosciuti:
a) il numero 472 della rivista “Cineforum” riporta uno speciale sul film (marzo 2008),
b) la rivista “Segnocinema” lo recensisce nel numero 150 (Marzo-Aprile 2008),
c) altra recensione su “Vivicinema”, n. 6 (Novembre-Dicembre 2007).
d) interessante articolo sul quotidiano “La Stampa” (2 luglio 2008), dal titolo “Gli Ulisse d’Alaska”, a firma Francesco Semprini, che scrive sul “pellegrinaggio” di molti giovani sul luogo degli ultimi giorni di Chris Candless.