Scene da un matrimonio
Soggetto, sceneggiatura, regia: Ingmar Bergman
Fotografia (Eastmancolor): Sven Nykvist.
Scenografia: Bjorn Thulin.
Costumi: Inger Pehrsson.
Musica: Owe Svenson.
Montaggio: Siv Lundgren.
Interpreti e personaggi principali:
Liv Ulmann (Marianne),
Erland Josephson (Johan),
Bibi Anderson (Patarina),
Jan Malmsjo (Peter).
Produzione: Cinamatograph.
Origine: Svezia, 1973.
Durata: 295′, versione integrale per la TV,
155′ versione cinematografica.
Il film è suddiviso in sei episodi.
Primo episodio: Innocenza e panico.
Marianne e Johan formano una coppia apparentemente felice e appagata, come risulta dalle risposte che danno alla giornalista durante un’intervista. Sono sposati da dieci anni, hanno due belle bambini di nome Karin ed Eva, sono soddisfatti e contenti: Lui ha 42 anni, è figlio di un medico, insegna in un istituto psicotecnico. Lei 35, è figlia di un avvocato, lavora in un importante studio legale come consulente familiare nei casi di divorzio. La loro sembra un’unione ideale. Ma qualche crepa c’è . Lui si dichiara egoista: “Bado agli affari miei e degli altri me ne infischio”. Lei invece ha a cuore i valori: “Credo nell’amore per il nostro prossimo. Se tutti gli esseri umani fin da piccoli imparassero a curarsi l’uno dell’altro, il mondo sarebbe diverso”. Vediamo poi i due coniugi a cena con un’altra coppia: Peter e Patarina. Questi sono palesemente infelici, ai ferri corti. Litigano e si insultano: Lui cita Strindberg: “Mi domando se esista qualcosa di più orribile di un marito e una moglie che si odiano”. I due, prima di lasciare i due amici, si scusano per lo spettacolo che hanno dato di sé. Più tardi vediamo Marianne e Johan a letto che compiangono la coppia infelice, rallegrandosi per il fatto di essere “l’eccezione che conferma la regola”.
Secondo episodio: L’arte di nascondere la spazzatura sotto il tappeto.
Marianne e Johan sono alle prese con uno dei soliti problemi quotidiani: andare o non andare dai genitori per il pranzo domenicale. Da un colloquio di Johan con una compagna di lavoro scopriamo che ha fatto leggere a lei, e non alla moglie, le sue poesie. Marianne intanto, nel suo studio, è alle prese con una cliente, la signora Jacobi, che vuole divorziare, perché nel suo matrimonio “non c’è amore”. Poi vediamo i due coniugi di malumore, dopo essere stati a teatro a vedere Casa di bambola di Ibsen. Ma è un malumore passeggero: spazzatura da nascondere sotto il tappeto.
Terzo episodio: Paula.
Scoppia la crisi. Johan dichiara di essersi innamorato di un’altra donna, una studentessa ventitreenne, di nome Paula, laureanda in lingue slave, bruttina. “non ho idea di cosa succederà – dice l’uomo -. Sono disorientato e felice”: Lei cerca di dissuaderlo, ma lui insiste. Partirà l’indomani. Lei lo prende con dolcezza, non riesce a rendersi conto della situazione, spera di riuscire a trattenerlo. “Sono ingiusto – ammette lui -. Stiamo bene insieme: Credo di amarti ancora. Credo di amarti di più da quando ho incontrato Paula. Non accuso te. Tutto è andato all’inferno, chissà perché”. Lei cerca ancora di convincerlo, lo invita “a fare all’amore in ricordo dei vecchi tempi”. La mattina dopo lei gli prepara le valigie, gli parla del più e del meno. “Promettimi che tornerai”, gli dice. Johan parte. Marianne telefona ad una coppia di amici per raccontare quello che è successo e si sente dire che la relazione di Johan era già nota da tempo. Erano in molti a saperlo, un sacco di persone: la ferita sanguina ancora di più. La disperazione si mescola alla rabbia.
Quarto episodio: Valle di lacrime.
Sono passati sei mesi. Johan e Marianne si incontrano nella loro casa. Lei lo accoglie gentilmente, gli offre da bere. Nasce un battibecco sulla disponibilità di lui nei confronti delle bambine. Lei lo invita a cena, lo bacia. Lui è stanco di Paula, si domanda dove ha sbagliato. Lei gli racconta di aver avuto rapporti con altri e gli confessa di provare tuttora per lui un sentimento di amore-odio. Lui cerca di abbracciarla, ma lei lo respinge. La invita a pranzo per il giorno dopo, ma lei non accetta. Lei gli legge alcune pagine del diario scritto su suggerimento dello psichiatra, ma lui si addormenta. Intanto vediamo le fotografie di Marianne a varie età. Marianne invita Johan a restare a dormire con lei. Lui accetta, ma in piena notte si sveglia. “Devo andare via – dice -. Mi viene l’angoscia”. Si veste e se ne va.
Quinto episodio: Gli analfabeti.
Marianne va a trovare Johan nel suo ufficio per controllare i documenti del divorzio. Johan è raffreddato. Le offre un cognac. Si siedono su un divano. Sentono rinascere l’attrazione fisica. Marianne si sdraia sul tappeto. Lui la costringe ad un amplesso, ma lei resta indifferente. Il rapporto tra loro non è facile. Dice Johan: “Non siamo che analfabeti dal punto di vista sentimentale. Ci hanno insegnato tutto ma non ci hanno insegnato una sola parola sulla nostra anima. L’ignoranza su noi stessi è praticamente totale”. Poi confessa il suo fallimento: “Quest’estate compirò 45 anni. Obiettivamente sono finito. Impiegherò gli ultimi anni ad andare in giro ad avvelenare l’esistenza degli altri”. I due si rinfacciano i rispettivi errori. Si insultano, esplode l’odio. Johan percuote la donna, impedendole di uscire. Alla fine della lite i due firmano i documenti del divorzio.
Sesto episodio: Nel cuore della notte in una casa buia da qualche parte del mondo.
Sono passati sette anni. Marianne si è risposata. Johan pure. Si incontrano per un fine settimana. Dicono di essere felici. Si raccontano i rispettivi problemi di vita quotidiana. Vanno nella loro casa di campagna: è rimasto tutto come allora. Lui propone di festeggiare il primo anniversario, dal momento che si sono incontrati di nuovo dopo il divorzio. Lei risponde che preferisce festeggiare il ventesimo anniversario del matrimonio. Ma in quella casa i ricordi sono troppi, i due decidono di andare in un altro posto: un cottage di campagna messo a disposizione da amici. Sono emozionati. Si scambiano confidenze, impressioni, esperienze come forse non era mai accaduto. Vanno a letto. Lei ha un incubo: “Dovevo attraversare un punto pericoloso. Non avevo le mani e sprofondavo nella sabbia”. Poi dice a Johan: “Credi che viviamo in una totale confusione? Credi che dentro di noi si abbia paura perché non sappiamo dove aggrapparci? Non si è perso qualcosa di importante? Credo che in fondo c’è il rimpianto di non aver amato nessuno e che nessuno mi abbia amato”. Infine i due si addormentano dopo un augurale “Buona notte, amore” [1].
Sarabanda
Soggetto, sceneggiatura, regia: Ingmar Bergman
Fotografia: Stefan Eriksson,
Raymond Wemmenlov, Sofi Stridh,
Per-Olof Lantto, Jesper Holmstrom.
Scenografia: Goran Wassberg.
Costumi: Inger Pehrsson.
Musica: brani di Anton Bruckner, Johann Sebastian Bach.
Montaggio: Sylvia Ingemarsson.
Interpreti e personaggi principali:
Erland Johsephon (Johan),
Liv Ullmann (Marianne),
Borje Ahlstedt (Henrik),
Julia Dufvenius (Karin),
Tunnel Fred (Martha).
Produzione:
Pia Ehrnvall per Svensk Television Fiktion/Svensk
Filmindutri/Zdf/Arte/Nrk/RaiTv/Yle.
Origine: Svezia, 2003.
Prima trasmissione italiana:
Rai Tre, 11 settembre 2004.
Marianne, una bella signora di sessant’anni che esercita ancora la professione di avvocato specialista in divorzi, racconta agli spettatori che ha deciso di intraprendere un viaggio in Dalecarlia per il desiderio di incontrare nuovamente Johan, suo marito quarant’anni prima. È ormai trascorso un lungo lasso di tempo dall’ultima volta che si sono visti: l’uomo, professore di psicologia in pensione, ha superato gli ottant’anni e, dopo aver ottenuto una cospicua eredità da una zia, celebre cantante d’opera, si è ritirato a vivere in isolamento nella sua casa di campagna, accudito da una governante. Nelle vicinanze abita il figlio che Johan ha avuto da un matrimonio precedente, Henrik, sessantenne, anch’egli in pensione. Professore di violoncello, non ha avuto una carriera particolarmente brillante ed è rimasto vedovo di Anna da due anni. Da allora si è legato in modo morboso alla figlia Karin, con la quale ha probabilmente rapporti incestuosi. Henrik segue con estrema attenzione l’educazione musicale della figlia, che possiede dati non comuni di violoncellista e suona ogni giorno con lei, all’interno della casa in cui abitano.
Durante la permanenza di Marianne nell’abitazione di Johan, scoppia una crisi violenta tra Henrik e Karin, che è combattuta tra l’amore viscerale e la tenerezza per il padre e l’ansia crescente di affrancarsi dal rapporto malsano con lui. Johan, che ha avuto una relazione segreta e intensa con la moglie del figlio, sta tentando di staccare Karin dall’influenza paterna e cerca di indurla a trasferirsi ad Uppsala, per lavorare e studiare con un rinomato musicista di sua conoscenza. Ma Karin teme che il padre, una volta rimasto senza di lei, possa arrivare al suicidio e rifiuta l’offerta di Johan.
Il vecchio riceve una visita del figlio che gli chiede un anticipo sull’eredità, per acquistare uno strumento più adeguato per le doti della figlia, ma Johan rifiuta e umilia spietatamente Henrik nel corso di un dialogo avvelenato da antichi, feroci rancori reciproci. Un giorno Karin trova una lettera della madre (indirizzata al padre) che rivela la piena consapevolezza della situazione esistente tra padre e figlia (il rischio di un rapporto incestuoso).
Dopo angosciose esitazioni, Karin decide di separarsi da Henrik per iniziare la sua vita altrove, ma senza ricorrere all’aiuto di nessuno. Il padre tenta di suicidarsi e fallisce. Marianne si congeda da Johan, con la promessa di rimanere in contatto, ma, nell’epilogo, la donna confessa di non avere mai più ricevuto nessuna lettera e nessuna risposta dall’ex marito. Un giorno visita in ospedale una delle figlie avute da Johan, Martha, affetta da gravi disturbi mentali. Quando la madre le sfiora il viso, la donna apre gli occhi, per rinchiuderli quasi subito. “Per la prima volta nelle nostre due vite, ho capito, ho sentito che toccavo mia figlia”. Dopo aver detto queste parole, Marianne, guardando la macchina da presa, inizia a piangere [2].
Due film a trent’anni di distanza (non distanza vuota, naturalmente). Lo spazio di una generazione, di figli che sono diventati adulti, di nipoti che entrano nei disperati nodi di legami familiari, di un matrimonio che è sprofondato nel silenzio dettato da un originale divorzio, ma soprattutto dalla mancanza dei suoni che può sussistere anche nella relazione spenta.
Bergman dirige due diversi film che, soltanto apparentemente e nella forma ingannevole dell’autobiografia fisica, hanno relazioni e legami fra loro.
Identici i protagonisti, identici gli attori, l’età dei personaggi e l’età degli interpreti hanno proceduto alla pari, le loro vicende di origine sono le stesse, la loro conclusione à la loro storia come figure protagoniste narranti (Johan e Marianne, rispettivamente Erald Johsephon e Liv Ullmann), sei lunghi episodi in “Scene da un matrimonio”, dieci brevi episodi, pi un prologo ed un epilogo in “Sarabanda”, due forme che si potrebbero definire teatrali e filmiche insieme, dove il parlato, soprattutto nel primo film, ha una gran parte e copre (se così si può dire) quasi l’intera immagine, eccetto i primi piani.
False immagini di sé, abbandoni, rigidezze difensive, falsità, solitudine a due, tenerezza mancata, sensualità elusa o esacerbata, accordi-disaccordi che si formano e si distruggono in una frazione di secondo, amori e odi che convivono per l’inferno dei vivi e per il ricordo, morto anch’esso dei morti, innocenza e colpevolezza che incestuosamente si uniscono, per dividersi nel crocevia di vita e di morte.
Un mondo concentrazionario dove non c’è spazio per la salvezza, se non in ricordi pieni di cenere di animi femminili, in agnizioni filiali tardive e forse in ribellioni che fanno terra bruciata di un vissuto filiale di pena e lutto.
Nulla si salva: Marianne e Johan, a distanza di trent’anni, hanno stabilito un silenzio siderale, interrotto (dice Marianne “Non so perché, sentivo che mi chiamavi”, dice Johan “Ma io non ti ho chiamato affatto”) soltanto da un atto in sé inspiegabile da parte di Marianne. Henrik (il primo figlio, avuto da un precedente matrimonio di Johan, ora ha più di sessant’anni) tiene prigioniera la figlia Karin, riversando su di lei tutto l’affetto per la moglie Anna, morta qualche anno prima di cancro. È il suo maestro di violoncello, le promette che la farà diventare una grande artista, ma tenta di suicidarsi quando la figlia decide di andarsene dalla casa paterna per iniziare una diversa vita, sia personale che artistica. Tra i due c’è un rapporto incestuoso che la madre Anna, prima della sua morte, con estrema lucidità, ha profetizzato, in sua assenza.
Johan, con tutta probabilità, ha avuto una lunga relazione clandestina con la nuora Anna.
Tutto è condotto sotto l’ombra della tragedia, in “Sarabanda”, tutto è costruito sotto l’ombra del doppio e del falso in “Scene da un matrimonio”. Bergman è spietato, la sua maieutica è costruita magistralmente nella parte destruens, l’operazione del costruens è assente, balugina qui e là: la tenerezza di Marianne, al cospetto dell’indifferenza depressa di Johan, ancora Marianne che, per la prima volta tocca con amore la figlia Martha (ricoverata in un ospedale psichiatrico e non più recuperabile), Johan che sente anche fisicamente l’angoscia e si rifugia nel letto di Marianne, Karin che vive la sua sofferenza nell’abbandonare l’amore fusionale e incestuoso del padre, pur temendo che Henrik si suiciderà se lei se ne andrà.
Ma quanto amore per i personaggi in questa desolazione!
In entrambi i film domina il primo piano, insistito, cercato nel particolare, nell’espressione del volto che muta, accompagnata dalle parole amare, disperate o dette in un ultimo tentativo di non affondare: ricerca iconica di interpretare l’inconscio come linguaggio del volto, costruzione di un’immagine piena di responsabilità morale (soprattutto nelle figure femminili) o spietatamente, nella gratuità dei crolli egoistici (personaggi maschili).
Non c’è terapia per la coppia, non c’è ricomposizione d’amore per la diade genitori-figli (soprattutto padri). Il mondo della relazione è disperato, o ironicamente misero (Ibsen e Strindberg), alla ricerca di una purezza assassina (il rapporto di Henrik con la figlia Karin), preda di passioni amorose leggere e superficiali, che a loro volta si trasformeranno nell’inferno precedentemente abbandonato (l’innamoramento “disperato e splendido” di Johan per Paula).
Le relazioni sono figlie di un disamore che nasce dall’impossibilità di amare come dato esistenziale e storico-sociale (dice Johan “Ci hanno insegnato tutto, ma non ci hanno detto nulla sui sentimenti”).
L’apertura agli altri avviene sul piano di un contrasto oggettuale fortissimo: l’altro è il nemico da sbranare, con cui costruire una falsità d’immagine e da abbandonare in mezzo ad una miseria di sentimenti che porta alla solitudine (come sostiene Johan “Ad una solitudine pacifica”). L’altro è il nemico che ci fa uscire come siamo con contraddizioni riportate su di noi o proiettate su altri soggetti che, nella forma mortuaria della coazione a ripetere, provocheranno altre inutili rovine, fino a provocare una scena solitaria e rabbiosa, falsamente pacificata (la vecchiaia di Johan nella casa solitaria in mezzo al bosco).
Ciò che non muore è l’odio, sia esso “congenito” o “acquisito” (di Johan per il figlio Henrik e viceversa), quasi che i figli siano stati un dovere sociale, una parvenza, una convenzione, un gesto di falsa libertà che li lasciava in solitudine o, addirittura, fautori di odio o di indifferenza nelle loro richieste d’amore, nelle loro debolezze, nelle contraddizioni della loro crescita e della loro vita.
Il frutto vivente di una falsa libertà, che racchiude nell’angusto spazio della famiglia, le contraddizioni, le lotte per la vita, la solitudine come risultato finale.
Soltanto l’infanzia (vedi “Fanny e Alexander”) o la giovinezza si “salvano”, pur nelle loro sofferenze, nell’esser costretti come spettatori del mondo adulto.
Questi due film, girati quasi interamente in interno, non hanno spazio per nessuna trascendenza. Non soltanto sono indifferenti alla morte di Dio, ma operano sul piano della sua totale assenza, Johan e Marianne sono soli, uno di fronte all’altro, il dio mancante è, in questo caso, il prossimo assente, e il prossimo ricopre i panni del marito, della moglie, dei figli, dei parenti acquisiti.
Due opere magistrali sull’autismo dei sentimenti, ma anche due canti appassionati (soprattutto “Sarabanda”) sul dolore per la mancanza d’amore, descritta con toni tanto disperati da suscitare l’effetto opposto, cioè un altrettanto disperato desiderio della sua ricerca (come del resto anche il giudizio di De Sanctis a proposito di Leopardi).
Al di là di facili ottimismi terapeutici o di altrettanto superficiali liquidazioni supponenti (quanto malsano ottimismo nei rotocalchi, con tanto di logo “psy”, che promettono la felicità a portata di mano, basta volerlo), Bergman si pone come una miniera di esempi, di situazioni costruite, di esiti, di sfumature psicologiche, di realtà, anche se trasfigurata nel mondo dell’arte (in questo compagno, anche se lontanissimo di Luis Buñuel).
I film di entrambi questi autori potrebbero benissimo essere inseriti come testi per una preparazione psicoterapeutica, eliminando come zavorra inutile tante opere dei così detti “caposcuola”.
Ancora una volta la supremazia tranquilla dell’arte può averla vinta sulla dimensione futile di certa psicologia che si inventa costruzioni risibili sul piano applicativo, nonché soltanto artificiali (le metafore obbligate di “scuola”) per giustificare un mondo iniziatico e costoso (in termini monetari) a favore dei “piccoli uomini” di turno.
Ci sia consentito terminare con la sequenza della fuga di Karin dalla casa paterna, della sua camminata nello stagno, del suo grido che supera tutti i sussurri, del suo sofferto abbandono della casa paterna e dell’amore soffocante.
La vecchiaia di Bergman probabilmente assomiglia a quella di Johan, ma la memoria che rimarrà della sua arte è forse il prezzo pagato al disordine della sua vita.[3].
Giovanni Lancellotti
Psicologo psicoterapeuta SCRIPT Centro Psicologia Umanistica
[1] La trama degli episodi è riportata da TRASATTI SERGIO. Ingmar Bergman. Il Castoro Cinema. 1993 (2).
[2] La narrazione delle vicende di Sarabanda è tratta, con qualche leggera precisazione, da CHIESI ROBERTO. I silenzi dell’odio e dei rimorsi. In tv il ritorno di Ingmar Bergman con Sarabanda, in “Cineforum”, n. 438, ottobre 2004.
[3] Per chi è interessato a conoscere i tratti salienti della vita di Bergman (artistica e personale) può leggere BERGMAN INGMAR Lanterna magica. Autobiografia. Garzanti, 1987 e BERGMAN INGMAR Immagini, Garzanti, 1992.