Il fondo di questo numero racchiude aspetti di diversità rispetto al contesto solito di SCRIPT riflessioni – i campi della soggettività.
Chi lo ha scritto (il professor Pieangiolo Berrettoni) si occupa di linguistica, ma è anche un intellettuale curioso, che spesso sconfina dal suo campo, per invadere fertilmente altri territori (tra i quali il terreno psicoanalitico).
In ogni caso comune è l’interesse verso l’aristotelico hupokeìmenon (“ciò che sta sotto, soggiace, il sostrato”), il soggetto a cui lo psicoterapeuta si trova di fronte quotidianamente, nel suo lavoro.
L’articolo è un interessante e puntuale stimolo ad una riflessione teorica che inviti ad uno statuto ancor più riconoscibile di una professione che non si allontani negli spazi siderali di una metapsicologia criptica e incomprensibile o di un bric a brac della felicità, consumista e disonesto.
Per altri versi, e con tutta probabilità lontano dalle intenzioni dell’autore del fondo, lo scritto ha rammentato, a chi scrive questa breve prefazione, l’essenzialità della ricerca sartriana in merito al valore dell’esistenza (“Noi siamo su un piano su cui esistono solamente gli uomini”. J.P. Sartre, Lettera sull’umanismo) e all’attestazione di libertà e responsabilità del soggetto, rispetto agli oggettivismi e determinismi successivi (vedi soprattutto Althusser).
Naturalmente questa contaminazione “del soggetto che legge” non intacca l’originalità di “Il soggetto, la legge e il discorso (malinconico)”.

“Il soggetto, la legge e il discorso (malinconico)”

Pierangiolo Berrettoni

La genealogia del soggetto occidentale ci porta, come inizio, nella Grecia del V e IV secolo, in particolare ad Aristotele che, in sede di fondazione della logica su base linguistica stipula e codifica il termine hupokeímenon, nelle prime pagine delle Categorie, come “ciò che sta sotto, soggiace, il sostrato”: quest’ultimo termine diverrà la traduzione più tipica del concetto logico aristotelico, in concorrenza con l’altra di “soggetto”, introdotta nelle lingue europee attraverso la mediazione del latino subiectum, traduzione letterale dell’originale greco.
A sua volta, però, Aristotele riceve il termine dalla tradizione filosofica precedente, nella quale hupokeímenon aveva ricevuto un impiego ontologico, designando il sostrato materiale soggiacente alle varie manifestazioni qualitative e quantitative della realtà fenomenica: Anassimene postulava un’unica “natura soggiacente” (mían hupokeiménen phúsin: 13 A 5 D-K: la fonte è Simplicio), da lui individuata nell’aria, le cui variazioni di densità avrebbero dato origine ai vari elementi. La formula mía hupokeiméne phúsis doveva essere di uso codificato e tecnico in questa accezione, perché la troviamo riportata anche a proposito di altri fisiologi come, ad esempio, Ippaso ed Eraclito (18, 7: la fonte è Aristotele), mentre per altri la formula attestata è piuttosto tò hupokeímenon come nel caso di Anassimandro (12 A 9, la fonte è nuovamente Simplicio), che verrà ripresa dagli atomisti, ad esempio Democrito (68 A 135, la fonte è Teofrasto). Proprio Democrito per primo estende l’uso del termine dal campo dell’ontologia a quello della teoria linguistica, utilizzandolo per indicare quello che oggi chiameremmo il referente, ovvero i singoli oggetti che soggiacciono ai suoni che ne sono simboli: secondo la sua teoria sull’origine del linguaggio, quando i primi uomini decisero di abbandonare lo stato ferino, per prima cosa cercarono di utilizzare la fonazione originariamente asemantica e priva di distinzioni (phonês asémou kaì sugkekhuménes) in un insieme di lékseis articolate; queste, secondo Democrito, fuono poste (tithéntas) come simboli di ognuno degli oggetti (della realtà) soggiacenti, in modo da renderne conoscibile l’interpretazione nello scambio linguistico reciproco. Democrito individua gli altri tratti caratteristici della culturalizzazione umana nella commensalità, la costruzione di dimore, la conservazione dei cibi e attività simili, che, però, sono successive a questo primo accordo fondativo che consiste nella nominazione e comunicazione attraverso il linguaggio, cfr. 68 B 5,1 da Diodoro I 7,1 ss.
Nel brano relativo a Democrito è contenuto un altro elemento rilevante per la storia del termine hupokeímenon, ovvero il suo rapporto con il verbo (hupo)tithénai, che nel linguaggio filosofico indica il “porre” un principio o un elemento come fondativo della realtà o di una tesi filosofica: ad esempio Aristotele (cael. IV 5, 3o3 b 10 ss.) si riferisce ai monisti come quelli che “pongono” (hupotíthentai) un solo principio materiale (acqua, aria, fuoco o altro) a base di tutta la realtà, concetto e termine ripresi da Simplicio nel suo commento a questo luogo aristotelico. Dato il rapporto suppletivo che esisteva tra tithénai e keîsthai, possibile passivo del primo, è chiaro che lo hupokeímenon non è solo e semplicemente “l’elemento, la materia soggiacente” del reale, o della sua rappresentazione simbolica attraverso il linguaggio, ma più precisamente l’elemento (posto, stipulato da un filosofo o una teoria come) soggiacente al reale. Questo rapporto e le conseguenze semantiche che ne derivano sono evidenti nel brano di Simplicio che ho ricordato (in ph. 149,5), in cui i due verbi appaiono contestualizzati insieme e quasi intercambiabili: secondo le parole di Simplicio, i fisiologi monisti “pongono” (hupotíthentai) un unico principio materiale variamente individuato in uno degli elementi (aria, fuoco e così via) o in una sorta di principio fisico intermedio che è quindi il “corpo (posto come) soggiacente”, sôma tò hupokeímenon, formula anch’essa di uso canonico e tecnico. Ma c’è un elemento ulteriore che richiederebbe un approfondimento maggiore; si tratta di quella “passività” intrinseca al concetto di soggetto che si svilupperà soprattutto nel passaggio alla modernità, quando “soggetto” diverrà un termine ambiguo: accanto al soggetto logico-grammaticale, una sorta di contenitore della predicabilità, si svilupperà la nozione di “soggetto” della conoscenza, a partire soprattutto da Cartesio, ma anche quella giuridica di “soggetto-suddito” e quella psicologica, che avrà particolare diffusione e fortuna con la psicoanalisi nelle sue varie tendenze e scuole, in cui la persona è in qualche modo il substrato, il soggetto, appunto, delle puslioni e degli influssi ambientali, soprattutto parentali.
È la direzione in cui si è mosso Foucault con l’elaborazione del concetto di un “soggetto assoggettato” ai meccanismi di controllo, ma anche di categorizzazione e individuazione, del potere.

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Credo non sia senza significato che Aristotele designi uno dei principali concetti della sua riforma logica a partire da un termine che la tradizione precedente aveva utilizzato in una prospettiva ontologica per indicare il costituente ultimo del reale al di là dell’intervento degli attributi dipendenti dal carattere mutevole e instabile del mondo materiale della sensazione.
L’unità di base della logica aristotelica, la predicazione, è definita un lógos apophantikós, un “discorso disvelativo” suscettibile di un’analisi verofunzionale oltre che semplicemente semantica; in quanto tale, è al contempo una prótasis, la premessa della catena sillogistica che Aristotele, negli Analitici Posteriori, stipula dovere essere generale, necessaria e vera perché l’inferenza sillogistica sia valida e derivata dalla sola forza della concatenazione delle premesse. Aristotele, però, vede il sillogismo e le sue regole come i punti di partenza indispensabili alla costituzione del discorso scientifico dell’ epistéme: in questa prospettiva deve essere vista la sua impresa di fondazione di un Organon, una trattatistica logica preliminare alla costituzione stessa di un sistema articolato nei singoli ambiti disciplinari, perché tutte le discipline settoriali devono fondarsi su una serie di principi epistemici saldi e ineccepibili. Di conseguenza, proprio la necessità della costituzione di un discorso scientifico è alla base della stessa definizione di un lógos apophantikós e della sua distinzione accurata dagli altrilógoi non verofunzionali e, come tali, non ascrivibili alla logica, ma alla retorica, quali la domanda, il comando, la preghiera e così via. È un gesto discriminativo, una scelta di campo destinata a condizionare la visione occidentale del linguaggio e della scienza per più di due millenni, nella direzione di una “apaticizzazione” della scienza (il concetto è di Sini), alla quale, da allora, si richiederà di essere neutra, oggettuale, fondata sulla semantica referenziale piuttosto che sulla pragmatica patica. Aristotele opera quando ormai la cultura scritta basata sulla pratica alfabetica ha già vinto definitivamente la battaglia contro la cultura orale, ancora difesa da Platone nel Fedro; il trattato ha ormai sostituito il dialogo socratico e la meditazione ‘tecnica’ sulla grammatica ha soppiantato le tendenze del pensiero magico a collegare immediatamente la parola e la cosa senza la mediazione del significante e a sognare rinvii ‘cratilei’ dal suono all’essenza della cosa.
Della proposizione-premessa si stipula che si componga di un hupokeímenon e di un predicato: “un termine viene predicato di un altro termine inteso come sostrato” (Categorie 3, 1 b 10). Tipicamente, dunque, il soggetto è costituito di un referente individuale, di cui si può predicare la specie (“Socrate è un uomo”) e conseguentemente e per inclusione di classe il genere (“Socrate [in quanto uomo] è un animale”): l’individuo, d’altro canto, è la sostanza, quell’ ousía che non solo costituisce il primo dei dieci predicabili possibili, le categorie, ma, tra i quattro significati possibili dell’essere individuati da Aristotele, è quello anteriore logicamente, dal quale dipendono gli altri. Aristotele, come già prima Platone nel Sofista, esemplifica la proposizione attraverso l’uso di verbi intransitivi (“cammina”, “corre”, “siede” e così via), proprio perché risulti meglio il carattere attributivo della proposizione, che la logica successiva chiamerà “giudizio”, e la centralità del soggetto che la frase transitiva in parte offuscherebbe per la presenza di un altro “sostantivo”.
La centralità del soggetto nella logica aristotelica e nella grammatica successiva dipende in parte dalla struttura stessa della lingua greca che, come le altre lingue indoeuropee, è strutturalmente orientata verso il soggetto rispetto ad altre famiglie linguistiche orientate piuttosto verso il cosiddetto topico del discorso o verso l’oggetto. Credo però che si possano individuare anche ragioni più squisitamente metalogiche nella scelta di orientare la logica e la grammatica intorno al soggetto, atteggiamento che condizionerà la riflessione grammaticale occidentale per due millenni.
Un ente può essere predicato secondo le dieci categorie: di Socrate posso dire che è pallido (qualità), alto (quantità), marito di Santippe (relazione), che discute con i sofisti (azione), che ha bevuto la cicuta (passività) e così via. Se, però, si procede a sottrarne tutti i predicamenti possibili, soprattutto quelli contingenti, che cosa rimane e permane se non, appunto, lo hupokeímenon, il sostrato-soggetto, quella sostanza, ousía, che permette il discorso definitorio dell’essenza, la quidditas, come la chiameranno i logici medioevali, che deriva dalla domanda socratica sul “che cosa (quid) è?”: “quid est ueritas?” chiederà socraticamente, e scetticamente, Pilato a Gesù.

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Proprio la necessità di combattere scetticismo e relativismo portano Aristotele a postulare uno hupokeímenon che “soggiaccia” ai predicabili, così come una materia costante e permanente, una mía hupokeiméne phúsis, soggiaceva al flusso delle mutazioni del mondo sensoriale nel pensiero dei presocratici.
Se così non fosse, se l’ousía fosse soltanto una delle dieci categorie, anziché quella anteriore logicamente (e ontologicamente) alle altre, cadrebbero, o rischierebbero di cadere, le distinzioni tra essenza e accidente, necessario e contingente, permanente e transeunte: in una parola avrebbero ragione i sofisti e i negatori del principio di non contraddizione e del terzo escluso; la “battaglia dei giganti” che si stava svolgendo per l’egemonia culturale si sarebbe conclusa con il trionfo di quell’animale inafferrabile e subdolo cui Platone aveva dato la caccia nel Sofista ricorrendo alle metafore della caccia e della pesca ed esercitando la ragione dialettica e la logica della divisione; la possibilità stessa di una scienza a-patica e non retorica ne sarebbe uscita compromessa.
Oppure avrebbero avuto ragione i “raffinatissimi” (così li chiama Platone nel Teeteto) eraclitei radicali che negavano la possibilità dell’essere e della sua dicibilità nel flusso continuo del divenire e del mutamento che si presenta alla nostra conoscenza sensoriale in un perenne apparire (dokeîn, phaínesthai) in cui non può sussistere la predicazione dell’essenza: i cirenaici, eraclitei estremi, negavano che si potesse dire, ad esempio, “questo è un muro”, ma volevano che si dicesse, tutt’al più, “ciò mureggia” perché di nulla si può affermare l’essere, ma solo il divenire e l’impermanenza. E Cratilo, il primo maestro di Platone, rinunziò alla predicazione e all’uso stesso del linguaggio limitandosi a indicare con il dito le singole (locali) manifestazioni del reale.

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Va al di là delle mie competenze attuali e dai limiti di questo articolo indagare sul passaggio intervenuto nell’evoluzione più che bimillenaria della cultura occidentale dalla nozione di “soggetto” puramente logica e grammaticale, nonché ontologica nell’origine, a quella più ampia e più comune che si è imposta nella modernità, in cui “soggetto” è divenuto praticamente sinonimo di “soggettività” e “individuo”: questa indagine presuppone la sua estensione alla nozione parallela di “oggetto”, dato che la concettualizzazione ‘moderna’ di soggetto/individuo implica una sua continua interazione dialettica (e spesso conflittuale) con l’oggetto, ovvero quell’Alterità che Platone ha individuato nel Sofista e trasmesso a una riflessione bimillenaria: il soggetto si individua e diventa, quindi, tale solo in seguito alla presa di coscienza di un mondo oggettuale distinto dal suo mondo inizialmente ‘autistico’ e caratterizzato da fusione e con-fusione: si pensi alle tante pagine illuminanti che la psicoanalisi ha dedicato alla nascita della consapevolezza di un mondo oggettuale a partire dal distacco dal corpo materno e dalla fusione con esso.
È certo, in ogni caso, che gli sviluppi più recenti e ricchi di implicazioni della teoria del soggetto hanno puntato tutti nella direzione di una sua fondamentale decostruzione e, sarei tentato di dire, demitizzazione antimetafisica, comunque si pensi di questi procedimenti culturali cosiddetti postmoderni.

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“Non esiste un soggetto prima della legge”.
Questa breve formulazione sintetizza una posizione teorica del massimo interesse, che si è diffusa nel campo delle scienze umane e sociali a partire soprattutto dalle riflessioni di Foucault, in particolare quelle esposte a proposito della sessualità nella Volonté de savoir, in contrapposizione alternativa a quella “metafisica della sostanza che struttura la nozione stessa di soggetto” (Butler 1990) in una tradizione bimillenaria praticamente ininterrotta. La Legge, dunque, non interverrebbe a regolamentare, in funzione per lo più repressiva, territorializzare, de-limitare soggetti, corpi, desideri, pratiche preesistenti e dotati di una loro essenza in qualche modo a – o pre-storica (la Donna, l’Uomo, il Bambino, l’Omosessuale e così via); piuttosto la Legge produrrebbe essa stessa, costruirebbe e inventerebbe (secondo due termini ormai comuni nella pratica del costruzionismo sociale) questi soggetti, veri e propri “oggetti wittgensteiniani” che traggono la loro esistenza solo nel momento in cui viene inventato per loro un nome o in cui essi vengono problematizzati, secondo la felice messa a punto di Foucault. Non dunque un soggetto (subiectumhupokeímenon) in qualche modo prediscorsivo, che permane, reificato, alla sottrazione dei singoli predicati che possiamo attribuirgli (e già Aristotele si chiedeva se “Socrate” e “Socrate bianco” siano o meno la stessa cosa), la cui esistenza, diversamente da quella dell’insieme del mondo esterno, viene assicurata contro il dubbio dalla consapevolezza del “cogito ergo sum“; piuttosto una serie di soggettività plurali e di corpi as-soggett-ati, posti in essere (ex-sistunt anziché sunt) dall’operazione discorsiva, definitoria, tassonomica del potere-sapere incarnato in una Legge che non si configura più come puramente giuridica, ma anche e soprattutto come produttiva.
In una pagina molto densa del suo saggio sul potere psichiatrico (p.65), Foucault espone in maniera particolarmente drastica questa nuovo visione. L’individuo non è ciò su cui si esercita il potere politico, ma è piuttosto l’effetto prodotto, il risultato di un’applicazione del potere politico alla singolarità somatica, ottenuta attraverso le tecniche di controllo e assoggettamento. Esso non preesiste alla funzione-soggetto, alla proiezione di una psiche, all’istanza normalizzatrice, ma, piuttosto, si è potuto costituire solo grazie al fatto che la sorveglianza ininterrotta, la scrittura continua, la punizione virtuale hanno inquadrato un corpo in tal modo assoggettato e ne hanno estratto una psiche. L’individuio è il risultato di qualcosa che gli è anteriore. Il corpo è stato “soggettivato”, si è fissata su lui la funzione-soggetto, è stato psicologizzato, normalizzato e da questo è nato un individuo).

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Il che, d’altro canto, non sorprende eccessivamente, se la Legge si è fin qui identificata nella Legge del Padre soggiacente al sistema patriarcale (o ai sistemi patriarcali) di dominazione, che non appare una caratteristica della sola cultura occidentale. La Legge del Padre, come si esprime Savater (1998), in tanto in quanto “sceglie e, pertanto, designa”, impone che “essere amato [sia] essere distinto, guadagnarsi un’identità… Definirsi è identificarsi in ciò che ci limita, accettare di essere riconoscibili per la nostra morte… Distinguere è privare; essere qualcuno è cessare di essere tutto” (ib. p. 113). Nel racconto del GenesiDio non si limita a creare, ma procede attraverso Adamo a dar nomi alle cose create perché esse siano distinte (le acque dalla terra, la notte dal giorno e così via) e non possano venire confuse: quanto alla dialettica dei sessi e dei generi, “furono creati maschio e femmina”, il che, da un lato, sembra precorrere la posizione neonominalista del discorsivismo postfoucaultiano e, dall’altro, introduce, reifica e naturalizza il binarismo esclusivo di due sessi e generi separati, esaurienti e soprattutto discreti. D’altro canto anche Platone sentirà la necessità di postulare un atto di creazione tanto per il mondo quanto per i nomi, un demiurgo e un nomoteta, e Aristotele pone alla base di ogni studio del mondo animale, compreso quello umano, la distinzione tra maschio e femmina (uomo e donna), che è il primo argomento posto all’inizio del trattato sulla generazione degli animali, come premessa fondativa di tutta la ricerca (I 1, 715 a 18 ss.); questa distinzione è vista non come una semplice differenza, ma come una contrarietà e contraddizione radicali, senza possibili mediazioni e zone fuzzy, individuata da una serie di coppie di tratti contrapposti.

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L’intero dibattito ruota intorno a una domanda difficile e inquietante.
Tutta la realtà che l’essere umano concettualizza è dunque solo cultura e discorso, mentre la natura costituirebbe solo un prologo non più tanto importante per il successo della rappresentazione, di modo che, ad esempio, nella dialettica interpersonale tra i generi, l’antica formula del sesso come destino (l’anatomia di cui parlava Freud) si limiterebbe a essere semplicemente sostituita dal genere come destino? Personalmente tendo a pensare che la visione discorsivista e costruttivista possa essere considerata plausibile in una variante ‘debole’, che veda la produttività della Legge come scelta culturale, ovvero convenzionale e arbitraria (“discorsiva”, appunto), solo all’interno di un numero limitato di varianti offerte dalla natura, includendo nel “naturale” anche il numero delle concettualizzazioni possibili del cervello e della mente. Gli antropologi hanno individuato che all’interno del numero di sistemi di filiazione teoricamente pensabili e strutturabili solo una parte ridotta è stata effettivamente realizzata nelle culture e nelle società. Nel campo della riflessione storica sulla sessualità fa riflettere il caso riferito da Weinrich 1992, 183) a proposito di una delle spedizioni di Margaret Mead, durante la quale il gruppo ricevette la visita di un amico caratterizzato dal “ruolo sociale” dell’omosessuale ovvio e visivo, con atteggiamenti femminili marcati: dopo poco tempo il berdache della tribù si avvicinò a questa persona cercando un contatto perché aveva intravisto in lui un’affinità che non aveva sentito con gli altri membri della spedizione. Spia di un’essenza che accomuna il berdache con l’omosessuale occidentale femmineo? Nel dibattito tra (cosiddetti) essenzialisti e costruttivisti sulla sessualità (sul quale informa l’utile antologia di Stein, 1992), alcuni studiosi propongono una posizione intermedia, come, appunto, quella di Weinrich, che tende a distinguere tra un comportamento omo- o eterosessuale, potenzialmente un tratto universale, e un’identità e consapevolezza di genere e propensione: quest’ultimo sarebbe un fenomeno esclusivamente moderno (aggiungerei: ‘occidentale’) e costruito culturalmente.
Potremmo ripensare la proposta di un (neo)nominalismo debole avanzata da Hacking, secondo la quale alcuni oggetti della realtà (i cavalli, ad esempio) sono almeno parzialmente indipendenti dalle categorizzazioni discorsive, in quanto dotati di una loro reità difficilmente scalfibile in termini culturali, mentre altri (quali i corpi celesti) sarebbero più passibili di una culturalizzazione e convenzionalizzazione: altri ancora, infine, sarebbero interamente oggetti wittgensteiniani creati discorsivamente. Per riprendere una felice formulazione sartriana, nel medioevo o nel rinascimento non sarebbe stato possibile non solo essere, ma neanche desiderare di essere un garçon de café parigino, perché scegliere al di fuori delle coordinate cognitive della propria cultura è un “nulla assoluto, impensabile, indecifrabile”.

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Nel momento dei suoi maggiori successi, la linguistica strutturale insisteva sulla funzione comunicativa del linguaggio e sul carattere di codice della lingua, ma molto presto si è dovuto fare i conti con la constatazione che la riuscita della comunicazione e il suo carattere “happy” sono piuttosto l’eccezione che non la regola, che parlare è “risquer un sens dans un bruit”, come si esprimeva Serres: le implicature conversazionali studiate da Grice sono altrettanto importanti del gioco sintagmatico e paradigmatico degli elementi del sistema. Perché sia così difficile comunicare e perché della comunicazione passi il più delle volte soltanto la punta dell’iceberg è tema troppo complesso perché sia possibile dargli una risposta unica: voglio limitarmi in questa sede a un solo aspetto, che si collega al tema della funzione produttiva della Legge.
In una prospettiva psicoanalitica (soprattutto lacaniana) il linguaggio è intrinsecamente impossibilitato a comunicare, quanto meno a comunicare in maniera happy, proprio perché la sua emergenza ontogenetica si colloca nell’economia dell’insoddisfazione, della mancanza e dell’assenza, conseguenti alla proibizione dell’incesto e alla sottrazione del corpo materno (il seno materno come primo oggetto di desiderio e di amore); questa economia fonda il soggetto-parlante (l’homo loquens), condannato a parlare una lingua che cerca di esprimere un desiderio inesprimibile perché forcluso e una jouissance impossibile perché definitivamente perduta e non più recuperabile: la parola può esprimere solo la dislocazione del desiderio sulle ripetute sostituzioni di quel piacere ormai trascorso. L’acquisizione del linguaggio avviene in un periodo dello sviluppo individuale caratterizzato da perdite e traumi: il trauma della nascita, la perdita del seno e del corpo materno, la perdita della libertà dell’espulsione delle feci e la loro trasformazione in segno-dono-scambio; necessariamente, allora, esso oscillerà sempre tra il polo del dare-dono e quello della rinunzia (come ho cercato di indicare in un articolo di prossima pubblicazione), ma anche e soprattutto sarà il luogo principe del desiderio solo parzialmente esprimibile, del lutto e, conseguentemente, della malinconia e della nostalgia.
L’acquisizione del linguaggio si lega così a quella di un genere e di una sessualità intellegibili, cioè legittimati e prodotti dalla Legge, discreti, ovvero organizzati binaristicamente secondo le due polarità maschile-femminile, eterosessuale-omosessuale: in quanto sono basate entrambe sulla rinunzia, la proibizione e la perdita, ne risulta attenuato il carattere jouissant, erotico della parola e il piacere del suo apprendimento avvolgendola nell’ombra della frustrazione e della malinconia nostalgica.
Lutto e malinconia nascono dal buco nero della perdita e dell’assenza, dalla penía, come già sapeva Platone, del desiderium come mancanza, che spinge il soggetto desiderante al póros, l’industriosità astuta e spesso truffaldina, seducente, che spinge a cercare il mezzo per raggiungere l’oggetto del desiderio; ma spesso perdita, assenza e mancanza derivano dalla condanna alla scelta, al dilemma tragico in cui Sartre ravvisava la fonte principale dell’angoscia dell’esistente. Scegliere equivale a perdere, rinunziare alla varietà quasi infinita delle alternative che si pongono alla scelta perché Ercole al bivio non può decidere di percorrere entrambe le strade, quella della virtù e quella del vizio, ma deve imboccarne una e solo una che dovrà poi percorrere fino in fondo trasformandola in una carriera esistenziale e copionale. Logici e psicolinguisti sanno che i due operatori più difficili e aperti alle fallacie sono quello dell’implicazione (se…allora) e quello della disgiunzione esclusiva (o…o) proprio perché implicano la strada dolorosa del terzo escluso e del principio di non contraddizione: il bambino cui si dica che può scegliere o il gelato o la sbarra di cioccolata tenderà a interpretare la disgiunzione come inclusiva (“il gelato o la sbarra o tutti e due”) anziché come esclusiva (“il gelato o la sbarra, ma non tutti e due”).

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Il meccanismo della parola si fonda su quello dello scambio: scambio tra un suono e un senso, scambio di ruoli alternati tra un emittente e un ricevente; ma lo scambio implica continuamente una scelta: nella scansione ordinata e regolata dalla Legge (della comunicazione) del turn taking non posso essere emittente se non rinunziando, anche se solo provvisoriamente, a essere ricevente. Il messaggio linguistico viene codificato associando sull’asse sintagmatico una serie di unità prelevate dal repertorio della lingua immagazzinato sull’asse paradigmatico. Se dico “Il gatto beve il latte”, faccio del gatto il tema del mio discorso, facendolo, inoltre, coincidere in questo caso con il soggetto e prelevo il lessema relativo tra tutti quelli che potrebbero comparire nella medesima posizione, nello stesso slot; d’altro canto, facendo così, rinunzio, senza esserne consapevole, a tematizzare tutto il resto e a non centrare la mia comunicazione su altri enti (il cane, il bambino, il mio amico e così via). Ancora una volta, Platone nel Sofista è stato il primo a rendersi conto consapevolmente che “all’intorno di ogni forma l’essere è molto, ma il non-essere è illimitato quantitativamente” (256 E).
Non molto diversa è la situazione che riguarda l’acquisizione-scelta di un sesso e di un genere e quella di un orientamento sessuale che sono diventati i principali parametri della formazione di un individuo-soggetto e della formazione della sua cosiddetta identità, a partire dalla grande operazione normalizzatrice di fine ottocento operata dal potere e soprattutto dal potere-sapere medico, psichiatrico e giuridico.
Di fronte all’indifferenziazione “naturale” dello strato più arcaico della psiche, quello che permarrà come preistoria inconscia del romanzo individuale, ogni persona è spinta dalla pressione dell’ambiente e della cultura a farsi, appunto, una persona (maschera), ovvero ad assumere un ruolo nel copione all’interno del quale dovrà “giocare” (per usare un termine transazionalista), ovvero recitare (play), una parte nella rappresentazione esistenziale e relazionale; ma, esattamente come non posso recitare Jago se recito Otello, così se la persona diviene-donna dovrà rinunziare a divenire-uomo e, prima ancora, avrà dovuto rinunziare a un’identità di genere fluida, che non sia intellegibile, prevista e discreta binaristicamente. In modo del tutto analogo, se la cultura la porterà a divenire-eterosessuale, dovrà rinunziare a divenire-omo(bi-, trans-sessuale), perché solo così potrà venire (ri)conosciuta e definita: ovvero potrà significare, anche se in un modo non approvato e stigmatizzato dalla norma, ma pur sempre fornito di “senso”, seppure di un senso aberrante. La confutazione aristotelica degli avversari del principio di non contraddizione parte da alcune premesse basilari antirelativiste e antisofistiche: “il non significare una sola cosaequivale a non significare alcunché” (Metafisica 1006 b 7), “non si può pensare nulla se non si pensa una singola cosa” (1006 b 10); queste premesse comportano il passaggio alla tesi principale che ogni parola abbia uno e un solo significato e che questo significato sia, per di più, definito (1006 a 20 ss.).
Tra le due strade entrambe dolorose dell’emarginazione e stigmatizzazione sociali, da un lato, e del mancato riconoscimento-individuazione dall’altro, la persona sceglie inevitabilmente la prima come male minore perché la logica del senso (che proprio in Aristotele trova il suo assertore più deciso nella cultura occidentale) prevede che si possa essere una-cosa-brutta, ma non che si possa essere una non-cosa, un aóristos, il buco nero del non definito, non individuato: il pitagorico che avesse rivelato i segreti della scuola diveniva invisibile e giudicato morto; gli veniva eretto un monumento funebre e trasformato in un non-ente trasparente, attraverso il quale si può vedere il resto del mondo come attraverso l’aria vuota.

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La Legge (del Padre) opera su soggetti, corpi e desideri in direzione prevalentemente “repressiva” (parola che, dopo Foucault, si può usare solo tra virgolette): il desiderio, naturalmente, non può essere eliminato, perché il ritorno del represso e del rimosso produrrebbe danni anche maggiori; può, però, essere regolamentato e soprattutto territorializzato, incanalato in un’economia libidica compatibile con le dinamiche e i significanti dei rapporti di potere, che crei spazi discreti, striati, definiti, intellegibili e, soprattutto, costruisca-inventi soggettività perverse dalle quali risulti ancora più chiara e definibile la norma. Le zone polimorfe originarie vengono relegate nell’indistinzione limacciosa dell’inconscio o nella marginalità sociale, con una linea netta di demarcazione tra corpi legittimi e corpi abietti, per usare l’espressione particolarmente felice della Butler. In particolare, il genere e la sessualità si configurano come “performativi” (uso ancora una formula della Butler) che trasformano il dato presunto naturale in un significante convenzionale; quest’ultimo, però, viene reificato e naturalizzato, ovvero presentato come motivato e “naturale”: essere-X (donna, uomo, etero/omosessuale, casto….) si viene a configurare come un’identità (fissa e senza ritorno) fondata sulla práksis, ovvero sul compimento di una serie di atti previsti dalle aspettative sociali e, come tutte le profezie, destinata anch’essa ad avverarsi. La costituzione di sottoculture identitarie ha spesso la funzione proprio di incanalare i soggetti (che ormai si possono definitivamente chiamare più propriamente “soggetti as-soggett-ati”) verso le prákseis attese e previste: in questo modo la práksis diviene poíesis, autoproduzione di un (presunto) soggetto interno a una soggettività collettiva. Il mito di Ercole al bivio, fondativo della performatività identitaria e copionale del maschio occidentale, non prevede saperi nomadici, ma solo una Scienza imperiale, il potere-sapere che crea strade unidirezionali (la via Aurelia può portare solo verso il sud della penisola): i saperi, per divenire scientifici, devono demarcarsi e lasciare un’intera massa di tematiche nella terra di nessuno dei problemi che la scienza normale non legittima a essere oggetto di puzzle-solving.

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Dopo Freud e Levi-Strauss ci siamo abituati a pensare l’interdizione dell’incesto come il primo capitolo dell’intervento territorializzante della Legge, l’evento fondativo del passaggio alla cultura e alla società: essa istituisce lo scambio, conseguente alla necessità dell’accoppiamento esogamico, il Simbolico attraverso la statuizione della donna come segno, la centralità significante del Fallo, la rinunzia attraverso il patto sociale tra i fratelli dopo la festa della libertà anarchica conseguente all’uccisione del padre.
Una serie di riflessioni teoriche condotte da studiose postfemministe quali, soprattutto, Rubin e Wittig ha proposto una nuova lettura dell’intervento interdizionale della Legge fertile di suggestioni oltre che altamente plausibile.
Secondo questa proposta, l’interdizione dell’omosessualità e la costituzione di un regime eteronormativo precederebbero la stessa interdizione dell’incesto come significanti del processo di ominizzazione e istituzione del passaggio dallo stato naturale a quello culturale. In particolare, Rubin (1975, 178 ss.) propone questa ipotesi con argomenti molto convincenti, riprendendo la conclusione del saggio di Lévi-Strauss sulla famiglia (1956), secondo il quale la divisione sessuale dei ruoli tra maschi e femmine è un fenomeno universale presente in tutte le culture, anche se realizzato in varianti diverse e spesso anche contrapposte. Però, osserva Lévi-Strauss, se le modalità variano da cultura a cultura, ma l’esistenza transculturale della divisione sessuale del lavoro è un universale, ciò può significare solo che l’oggetto culturalmente e strutturalmente pertinente è l’ esistenza di questa divisione, piuttosto che le forme da essa assunte nelle singole culture. La divisione sessuale del lavoro si configura come un tabu contro l’assimilazione di uomo e donna, che divide i sessi in due classi, esaspera le differenze biologiche trasformandole in differenze culturali e creando i due generi. Secondo l’analisi di Lévi-Strauss (275 ss.), dire che a uno dei due sessi spettano determinati compiti equivale a dire che sono proibiti all’altro e, di conseguenza, la divisione sessuale del lavoro si configura come un mezzo per istituire uno stato di dipendenza reciproca tra i sessi, obbligandoli a perpetuarsi e fondare una famiglia. Rubin allarga l’argomentazione di Lévi-Strauss rendendone esplicite le conseguenze implicite: il tabu della divisione sessuale del lavoro si configura anche come un tabu contro organizzazioni sessuali diverse da quella di (almeno) un uomo e una donna e quindi diverse dal matrimonio eterosessuale. La regola che proibisce determinate unioni sessuali e matrimoniali (l’incesto) presuppone logicamente un’altra regola che istituisce i matrimoni, i quali, a loro volta, presuppongono due persone disposte a sposarsi. I sistemi di parentela, il cui studio ha portato Lévi-Strauss alla teoria dell’interdizione dell’incesto, sono basati sul matrimonio e, così, trasformano il dato naturale, anatomico e cromosomico, del maschio e della femmina in quello culturale dell’uomo e della donna, visti come due metà incomplete e bisognose di integrazione reciproca. In definitiva le differenze tra maschio e femmina non sono in sé più radicali di quelle tra altre classi di oggetti del reale, però esse sono viste transculturalmente come contrapposte e come la differenza fondativa di tutte le altre. Secondo il ragionamento di Rubin, Lévi-Strauss si avvicina pericolosamente a dire che l’eterosessualità deriva da un processo di istituzionalizzazione, anziché essere un dato presunto naturale: il tabu dell’incesto presuppone un tabu dell’omosessualità, dato che la proibizione di alcune unioni eterosessuali può essere solo posteriore logicamente alla proibizione delle unioni non eterosessuali; il genere, allora, non si stabilisce solo attraverso l’identificazione con un sesso, ma anche attraverso l’implicazione che il desiderio sessuale sia rivolto verso l’altro sesso. Quello che in Lévi-Strauss è una sorta di origine metaantropologica dei generi e dell’eterosessualità, diviene con Freud la storia dell’inquadramento individuale in questo schema, il tracciato del divenire-eterosessuale attraverso la crisi edipica che, anch’essa, divide i sessi e istituisce i generi e la coscienza individuale dell’appartenenza a un genere, attraverso la quale l’individuo si in-genera.

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Questa proposta potrebbe spiegare, tra l’altro, quello che a mio avviso dovrebbe apparire come il vero problema legato alla distinzione tra omo- ed eterosessualità, ovvero la radicale rarità statistica non solo di un’opzione omosessuale, ma anche della semplice realizzazione occasionale di pratiche tra persone dello stesso sesso che non vadano al di là del confine rassicurante dell’amicizia o della camerateria-complicità delle istituzioni omosociali: contrariamente a quanto affermato per secoli dal discorso eteronormativo, l’elemento sorprendente è la scarsità anziché la presunta diffusione di un desiderio naturale in quanto semplice variante del comportamento affettivo e sessuale della specie: solo un’interiorizzazione plurisecolare dell’interdizione può spiegare la marginalità del fenomeno.
Altro problema sarebbe naturalmente quello di spiegare l’origine e la causa dell’interdizione dell’omosessualità, così come la stessa interdizione dell’incesto non sembra avere ancora ricevuto una spiegazione plausibile.
Questa linea di ricerca va al di là delle mie competenze, anche se ritengo possibile avanzare almeno un paio di ipotesi esplicative.
La prima riguarda la strutturazione dei tratti che nelle varie culture regolano l’economia delle interdizioni. In tutte le società esistono norme rigide che separano il puro dall’impuro e istituiscono una “gradazione sul cammino dell’orrore” (Héritier 2002, p. 88): proprio Héritier ha mostrato come questa gradazione sia al fondo riportabile a un’economia degli scambi di flussi, in particolare sangue e sperma, nell’ambito della sessualità e della riproduzione. Un divieto molto diffuso riguarda la mescolanza dei sangui e delle generazioni, in base al quale la riproduzione deve avvenire solo all’interno di una generazione: ad esempio nella cultura nyakusa quando una giovane diviene pubere i genitori interrompono i rapporti sessuali finché la figlia non abbia avuto rapporti con il marito e dopo li possono riprendere, ma solo evitando che la madre rimanga incinta prima della figlia; una madre e suo figlio oppure una donna e sua nuora non possono avere figli contemporaneamente e, se una madre rimane incinta dopo il matrimonio del figlio e contemporaneamente alla moglie del figlio, fa “marcire” la fertilità dei figli (p. 82).
L’altro divieto più diffuso riguarda la mescolanza dei generi, intesa nel modo più ampio di un limite posto tra ciò che è di competenza dell’umano e ciò che non lo è, limite che naturalmente viene costituito in maniera diversa nelle singole culture. In generale, l’ordine limitato delle cose ha un “al di quà”, il mondo dell’umano, e un “al di là”, il mondo della divinità, degli spiriti, dei morti, ma anche quello dell’animalità, in una parola i mondi dell’extraumano. Ogni contatto con i due esterni è portatore di sterilità perché viola la regola della riproduzione che si riconosce simile a sé stessa generazione dopo generazione (p. 88): il limite posto agli incroci tra i generi nel campo dell’al di quà è responsabile dell’interdizione dell’incesto, dell’omosessualità e dell’autoerotismo.
Il divieto alla mescolanza dei generi è collegato con un’altra forma di timore, relativo alla sovrapposizione dell’identico: il pensiero cosiddetto primitivo e magico, nonché lo strato arcaico del pensiero razionalista, opera con una visione olistica, in base alla quale la trasgressione in campo sociale, soprattutto quella relativa ai rapporti sessuali responsabili della continuità della specie, produce un danno non solo all’interno della comunità, ma più in generale nell’intera struttura cosmologica, provocando, di solito, il danno più temuto della sterilità, fondamentalmente della donna (la sterilità è raramente riportata all’uomo), e della siccità, del disseccamento della terra, ma anche (si noti) la nascita di malformazioni e mostruosità.
Il dualismo che oppone il maschio e la femmina fa parte di un sistema dualistico più ampio, che si costituisce sulla base di coppie primarie collegate con le qualità ultime della natura: caldo – freddo, secco – umido e così via. Naturalmente i tratti ‘vitali’, quali caldo e secco, sono generalmente riportati al maschio, gli altri (vicini al polo della corruzione, della putredine, della morte) alla femmina. Se si uniscono elementi caratterizzati dallo stesso tratto, si produce un eccesso dannoso: ad esempio, nella cultura dei Samo, la donna incinta, che è passata dallo stato normale di freddezza a uno temporaneo di calore accumulato per poter “cuocere” il figlio, non può avvicinarsi al luogo in cui gli uomini preparano il veleno per le frecce, luogo caldo, perché l’eccesso di calore la farebbe abortire (Héritier, p. 57). In questa cultura ogni elemento della natura e del mondo sociale è caratterizzato sulla base dell’opposizione caldo – freddo: il villaggio è freddo, la brousse calda, il sole caldo, la luna fredda, l’uomo caldo, la donna fredda, la terra calda, la pioggia fredda, l’atto sessuale caldo, il matrimonio freddo, guerra, malattia, epidemia sono calde, pace e salute fredde. Anche i quattro elementi si dispongono secondo questi tratti: terra e fuoco sono caldi, aria e acqua fredde.
L’equilibrio del mondo è garantito dalla giusta mescolanza di quantità equivalenti di caldo e di freddo, ma questo equilibrio riguarda l’insieme delle corrispondenze tra la sfera sociale, quella biologica e quella climatologica, per cui ogni rottura dell’equilibrio in una sfera produce un danno nelle altre. I contrari si attraggono: il caldo attira il freddo e l’umido, il freddo attira il caldo e il secco. L’atto sessuale (caldo) compiuto all’interno del matrimonio (freddo) fra coniugi dei quali uno (l’uomo) è caldo, l’altro (la donna) freddo deve avvenire secondo una mescolanza normale dei flussi riproduttivi (sostanzialmente sangue e sperma) e un’armonia fecondativa. Ogni violazione delle regole e dell’equilibrio dei contrari produce un danno che si riflette nell’insieme delle sfere del mondo naturale e umano; se si produce un’anomalia nella riproduzione (compresa, si noti, la malformazione e la mostruosità) questa può e deve essere spiegata e riportata a una causa dagli indovini: i navaho pensano che la masturbazione delle donne dei tempi primordiali abbia dato origine a mostri, mentre gli ojibwa riportano la nascita di bambini idrocefali partoriti da due donne sposate, una zia e una nipote, a un’ipotetica relazione omosessuale tra di loro precedente al matrimonio (p. 90). Il principio soggiacente è quello che “nessun atto è insignificante, gratuito o perso: tutto sempre significa, tutto si paga, tutto si ritrova” (Héritier, p. 93); ovvero, potremmo aggiungere, tout se tient: la dittatura del significante, contro la quale reagiscono oggi varie tendenze di pensiero, come quella dei mille piani antiedipici di Deleuze e Guattari, ha origini antiche e ‘mitiche’. Il riaffiorare in piena (post)modernità di un pensiero olistico con forti tratti misticheggianti, quale quello del new age o delle pratiche yoga, si spiega in parte come nostalgia per la perdita della significanza où tout se tient: il globale è più rassicurante del locale.
In questa prospettiva, si spiega, anche se parzialmente e come condizione sufficiente, ma non necessaria, come la pulsione omosessuale, naturale (en phúsei, dice Aristotele), sia stata costruita culturalmente come contro natura (parà phúsin), perturbante, malata e generatrice di mostruosità. Essa unisce l’identico all’identico e produce un eccesso di calore (l’unione di due maschi entrambi caldi) o di freddezza (l’unione di due donne), una mescolanza di generi, una mescolanza impropria di fluidi e un uso ‘innaturale’ di parti del corpo: soprattutto essa è sterile in un senso cosmologico, olistico, prima ancora che puramente biologico.
L’interdizione del desiderio e delle pratiche omosessuali, presente più o meno in tutte le culture premoderne, può essere temperata solo dal compromesso di territorializzarli, istituzionalizzarli, ma soprattutto incanalarli verso una pratica temporanea che riguarda una sola fase della vita e una divisione netta dei ruoli. In altre parole, essi possono essere resi accettabili e istituiti solo a condizione che venga dato loro un senso: rito di istituzione che trasforma l’adolescente in un vero uomo attraverso una sua defemminizzazione, pratica sostitutiva in condizioni abnormi e provvisorie (la pratica omosessuale in carcere o in realtà temporaneamente solo maschili: la pirateria, la navigazione per periodi lunghi e così via) o condizionate culturalmente (la non accessibilità sessuale delle donne al di fuori del matrimonio nelle culture di tipo mediterraneo), malattia, dato che anche la malattia ha un senso e un’eziologia.

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Aggiungiamo che la dicotomia omosessualità – eterosessualità (e conseguentemente l’omosessualità propriamente detta) nasce nel periodo in cui la tecnologia del potere (del sapere-potere) si è indirizzata verso il controllo della popolazione che, come ha mostrato Foucault, si esplica soprattutto nella direzione dell’igiene, divenuto non solo una pratica, ma anche un sapere, e della demografia, anch’essa un nuovo sapere: l’istituzione di un’omosessualità accettata, sebbene come malattia, si traduce anche (trattando della complessa realtà umana non si insiste mai abbastanza sull’uso di questo quantificatore fuzzy) in una pratica demografica di tipo particolare. L’equilibrio della popolazione come economia delle nascite si può ottenere anche specializzando la popolazione in due classi, quella maggioritaria cui spetta la riproduzione e quella minoritaria cui spetta la non riproduzione; ma quest’ultima deve essere accettata, meglio ancora costruita e inventata, solo come “malata”, per sottolineare che la riproduzione biologica, per quanto non possa e debba essere incontrollata per timore di una sovrappopolazione, rimane pur sempre il valore princip(i)ale e “sano”.
Giungiamo così a un elemento che ritengo molto importante nella categorizzazione dell’omosessualità e della territorializzazione binaria del desiderio nella dicotomia eterosessualità-omosessualità, voluta e pensata come esclusiva ed esauriente: accanto alle svariate definizioni, per lo più indirizzate in una prospettiva ‘aristotelica’, ovvero eziologica, che sono state proposte nelle mappe cognitive con cui le varie culture hanno cercato di rappresentare il vasto territorio omosessuale, possiamo aggiungere un tratto ulteriore che, beninteso, non intendo come sostitutivo e alternativo alle altre proposte. Mi riferisco al tratto e al concetto di “spreco”, la dépense, con cui Bataille ha a più riprese concettualizzato l’ampia sfera del comportamento e della produzione simbolica umani: la dépense appare guidata da una propensione antieconomica, in quanto non (ri)produttiva, non accumulativa, indirizzata in senso antiteleologico e gratuito e organizzata soprattutto intorno ai fenomeni estremi, quali la guerra, il sacrificio umano, la dispersione antieconomica del potlac, lo stesso erotismo che già Freud aveva visto spesso contaminato e accostato dalla pulsione antiriproduttiva di morte.
In una mappa mentale genericamente definibile come premoderna, la pratica e più ancora l’opzione omosessuali possono essere viste come pura dépense, non solo perché intrinsecamente sterili e quindi antieconomiche, in quanto non dirette alla riproduzione biologica della specie, ma soprattutto perché introducono un elemento non significante, un non-senso. Questo non-senso (in qualche modo difficile da pensare come il non-essere parmenideo) consiste nella violazione del principio cardine del pensiero della distinzione, offuscando i confini di genere, di intellegibilità e discrezione dei sessi-generi e sembra trascurare il fondamento cosmologico e cosmogonico del “furono creati maschio e femmina”, presente transculturalmente in quasi tutti i miti delle origini, ma anche in quelli scientifici come la teoria aristotelica della riproduzione. Non mi pare un caso che l’attività repressiva della Legge abbia colpito, seppure con durezza minore, anche forme di desiderio ‘eterosessuale’ ugualmente caratterizzate in direzione ateleologica, come nel caso del mito archetipo di Don Giovanni, la cui propensione a una jouissance orale bulimica (oltre al sesso, Don Giovanni coltiva cibo, bevande e parole) è tradizionalmente portata a esempio di un desiderio immaturo e autistico, autoreferenziale e “immorale”.
In questa prospettiva, la stipulazione di un contratto eterosessuale ed eteronormativo (concetto che Wittig desume dalla teoria dell’interdizione originaria dell’omosessualità, mutuandolo ovviamente dalla teoria del contratto sociale) non è un evento semelfattivo, ma, allo stesso modo dell’uccisione del padre primitivo teorizzata da Freud come altro elemento fondativo della civiltà, un istituto continuamente riproposto e reinstanziato con fasi alterne e differenziate di rigore applicativo e con momenti di alleggerimento della norma alternati ad altri caratterizzati da un suo rafforzamento: è quel continuo riproporsi del ritorno dell’alpha privativo, come ritorno del perturbante, del perverso, dell’abnorme inatteso in quanto se ne presume continuamente la forclusione definitiva.

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Ci possiamo chiedere quali siano le pratiche, discorsive e di altro genere, che conducono al successo ripetuto dell’interdizione dell’omosessualità e della riformulazione ricorrente del contratto eteronormativo. La risposta apparentemente più ovvia farebbe pensare alla forza coercitiva della Legge che si attuerebbe sia attraverso la violenza codificata del potere sia attraverso quella del controllo e della stigmatizzazione sociali: l’intensità del sentimento omofobo, soprattutto nella cultura e nelle società occidentali, spinto fino ad azioni di intimidazione fisica, apporterebbe una conferma a questa ipotesi. D’altro canto le riflessioni condotte in diversi settori sulle tecnologie e le pratiche con cui il potere opera il controllo sociale e soprattutto quello sui corpi, divenendo francamente un biopotere, inducono a una cautela maggiore e una maggiore duttilità di fronte alla visione localizzata e decisamente repressiva e violenta del potere.
La mia opinione è che si possa piuttosto impostare una ricerca su questi temi che parta dal concetto di dominazione, derivato dalla scuola sociologica francese di Bourdieu. In questa prospettiva, le culture e le società caratterizzate dall’interdizione del desiderio omosessuale e dalla stipulazione del contratto eteronormativo sarebbero caratterizzate da un regime plurisecolare di dominazione eterosessuale.
La dominazione si distingue dalla repressione e dalla coercizione attraverso una serie di tratti che caratterizzano in maniera diversa le teconologie di controllo del potere. Come ci ha insegnato Foucault, quest’ultimo si può esercitare secondo due modalità fondamentali: da un lato quella applicata ripetutamente nella lotta alla lebbra, consistente nell’esclusione e nella ex-termin-atio dei soggetti sottoposti alla repressione; dall’altro quella applicata nelle epidemie di peste, che consisteva piuttosto nell’isolamento e nel controllo sistematico delle aree urbane contagiate, in modo tale che i singoli soggetti venivano tenuti sotto osservazione costante nell’intero arco della giornata: è il modello del panopticum che, sempre secondo Foucault, si impone in età industriale con la regolamentazione totale del tempo nell’insieme delle istituzioni in cui i soggetti passano la maggior parte dell’esistenza (il collegio, la scuola, l’esercito, l’ospedale. la fabbrica e così via) sul modello di quanto avviene nella prigione. In questo modo il potere mira non più allo “splendore dei supplizi”, alla sofferenza cruenta imposta al corpo del deviante, ma alla produzione di “corpi docili” attraverso la scansione del tempo produttivo e di quello cosiddetto libero, che determina automaticamente una territorializzazione del desiderio, cui viene sottratta ogni forza eversiva e di dépense: al posto del presunto soggetto ‘cartesiano’ del cogito si crea un soggetto as-soggett-ato cui si concede la celebrazione periodica e temporanea della festa, come il luogo di un effimero non-senso (il re di carnevale scelto per un giorno tra gli strati più umili della popolazione) e di alleggerimento della Legge tra due periodi lavorativi, produttivi teleologicamente, provvisti di senso e intellegibilità discreta: ma non si ricorderà abbastanza che, in una prospettiva freudiana, la festa viene istituita dai fratelli liberati dopo l’uccisione del padre, sicché la libertà e la jouissance che ne sono le caratteristiche principali vengono inevitabilmente accompagnate dal senso di colpa interorizzato e, nuovamente, dalla malinconia e nostalgia che accompagnano il “dì di festa” e la previsione della sua fine inevitabile seguita inclementemente dal ritorno al quotidiano.

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La Legge, come abbiamo detto all’inizio, opera soprattutto in direzione produttiva e performativa: in questa prospettiva, il potere diviene più propriamente un potere-sapere che, attraverso la ricerca e la scienza, dà luogo a una serie di saperi specifici cui si deve proprio la costruzione-invenzione di soggetti e soggettività ai quali viene demandata la territorializzazione delle pulsioni, dei desideri, dei comportamenti. Abbiamo già avuto modo di rilevare che la costruzione-invenzione della dicotomia omosessualità-eterosessualità avviene negli ultimi decenni dell’ottocento in un paradigma scientifico caratterizzato dall’emergere di saperi collegati con lo studio e il controllo “igienico” della popolazione attraverso un’alleanza, non sempre facile e univoca, tra medicina e giurisprudenza (la nascita della perizia psichiatrica nel codice rivoluzionario e napoleonico): in questo senso è altamente simbolico l’evento del processo e della condanna di Oscar Wilde attraverso il quale la legge colpisce (ma al contempo riconosce) ciò che contemporaneamente la psichiatria e la medicina venivano descrivendo eziologicamente, ovvero costruendo socialmente. Nel momento in cui si definisce come “l’amore che non osa dire il suo nome”, questa forma particolare di desiderio si costituisce come esistente e, in quanto tale, necessitante di un “nome” che la trasformi in un oggetto wittgensteiniano, smentendo in qualche modo il what’s in a name con cui Giulietta vuole credere che la rosa continuerebbe a dare lo stesso profumo se avesse un altro nome. Ricordiamo però che le ricerche più recenti hanno potuto appurare come la fretta con cui si volle celebrare il processo a Wilde dipese in larga misura dalla volontà di coprire la rivelazione scandalosa che l’indecent behaviour di cui era accusato Wilde era condiviso dal primo ministro e da altre figure dell’establishmentdell’epoca: scienza, legge, politica cospirano nella costruzione, seppure repressiva, di un nuovo soggetto sociale che precedentemente veniva indistinto nella categoria onnicomprensiva della sodomia e del vizio (si osservi) innominabile.
La costruzione delle soggettività attraverso il discorso scientifico è molto importante, in quanto molto spesso essa procede dando la coerenza strutturale della retorica scientifica a una serie di credenze e di pre-giudizi di natura mitica ai quali attribuisce un effetto di verità. Effetti di verità di questo genere sono riscontrabili anche nel discorso medico sulla sessualità, in cui, ad esempio, i trattati di psychopathia sexualis di fine ottocento diffusero definizioni e tesi (quale la visibilità degli invertiti in tratti anatomici) destinate a perpetuarsi nell’immaginario collettivo della maggioranza della popolazione. Il caso più significativo e tenace riguarda la teoria della bisessualità primaria con cui Freud cerca di spiegare l’eziologia dell’opzione omosessuale (e implicitamente di quella esclusivamente eterosessuale) come predominanza ‘anomala’ della componente femminile nell’omosessuale maschio e di quella femminile nell’omosessuale femmina, teoria il cui successo l’ha portata vicino a un effetto di verità: solo recentemente si sono cominciati a vedere l’insufficienza di questa teoria e il suo carattere circolare, che continua a operare con l’assunto ‘stoicheiologico’, cioè principiale e non necessario di dimostrazione, della naturalezza e priorità sia logica sia cronologica del desiderio verso oggetti dell’altro sesso. L’incapacità di pensare il desiderio se non nei termini binari ed esclusivi della dicotomia maschio:femmina fa anche della teoria freudiana un frutto, ovviamente inconsapevole e proprio per questo significativo, dell’interdizione originaria dell’omosessualità e dei suoi riflessi sui pensatori anche critici dell’organizzazione delle pulsioni nella società.
Detto questo, però, ci siamo avvicinati, ma non siamo ancora arrivati all’individuazione del carattere distintivo del regime di dominazione, che si muove su un piano in qualche modo più astratto e generale.

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Istituendo un regime di dominazione, il potere (ormai caratterizzato più precisamente come potere-sapere e soprattutto come biopotere) è in grado di limitare al minimo indispensabile il lato coercitivo, violento, repressivo della Legge, perché organizza il rispetto della norma e il controllo attraverso il consenso, a sua volta raggiunto con il meccanismo dell’inculcazione e incorporazione della Legge nei vari strati della società e soprattutto nella trasmissione transgenerazionale. L’intero sistema educativo nella famiglia e nella scuola ripropone direttamente e più ancora indirettamente la norma e la Legge attraverso la narrativa e la metanarrativa di legittimazione dei valori del gruppo. È ipotizzabile che all’interno di una determinata episteme culturale operi una serie di operazioni mentali, una griglia concettuale che investe l’insieme della visione del reale caratteristica di questa cultura; questa griglia concettuale si effonderà, come un contagio, (ovvero di-scorrerà / dis-correrà rizomaticamente e nomadicamente) attraverso i più vari regimi discorsivi, da quelli più facilmente riportabili all’esposizione a fattori culturali a quelli più impervi, per lo meno a livello programmatico, a influssi di questo tipo perché stipulati come discorsi apatici e desoggettivizzati, quali i discorsi della logica o della geometria.
Senza rendersene conto, l’uomo della strada che si costruisce una mappa mentale per orientarsi nel difficile territorio della quotidianeità dei rapporti con l’ambiente naturale e umano utilizzerà sostanzialmente, anche se in maniera meno sofisticata, la stessa griglia concettuale del matematico che inventa e dimostra i suoi teoremi.

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La principale strategia con cui il regime di dominazione inculca la Legge consiste nella sua naturalizzazione: i valori e le norme del gruppo (che in realtà appartengono ai gruppi dominanti e vengono trasmessi a quelli dominati) sono per definizione convenzionali e arbitrari in quanto creazioni culturali e sociali, ma il processo di inculcazione li presenta, propone e impone come naturali, dati di natura e quindi tutt’altro che convenzionali. Tutta la cultura del genere e della sessualità è costruita sulla naturalizzazione e reificazione di valori simbolici e convenzionali, culturali, che vengono presentati come naturali: ormai la ricerca in questi settori ha mostrato molto chiaramente come anche la semplice identità di sesso, e non solo quella di genere, sia in larga misura il frutto di un discorso culturale che lascia ormai ben poco spazio al dato meramente naturale e anatomico. Proprio attraverso questo processo l’interdizione dell’omosessualità si è riprodotta ribadendo il contratto eteronormativo attraverso la proclamazione della naturalità essenziale del desiderio rivolto verso oggetti dell’altro sesso.
L’inculcazione procede soprattutto attraverso l’utilizzazione del capitale simbolico da parte dei gruppi che lo detengono: l’intera creazione simbolica (culturale nel senso usuale del termine) ha anche (ovviamente non solo, altrimenti cadremmo nella mistificazione ideologica e propagandistica) questa funzione. Basti pensare al mito, in cui si riflettono le convinzioni e le strutturazioni simboliche di una cultura, o alla narrazione, che spesso cela sotto la retorica del discorso referenziale, narrativo appunto, un intrinseco contenuto normativo e formativo-riproduttivo del consenso (le imprese dei nostri predecessori che ci si presentano come modelli e paradigmi): in tutte le culture la stigmatizzazione della situazione attuale è accompagnata da un racconto delle origini, più o meno fondato sui fatti, riferito a un “una volta” in cui la situazione era più soddisfacente e “i valori” continuavano a presentarsi incontaminati.

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Tutto questo vale anche nel campo della sessualità. L’intera società è pensata e organizzata a partire da e per i gruppi dominanti, che modellano luoghi e tempi sulla base delle loro pratiche e dei loro comportamenti, ovvero, in questo campo, intorno alle pratiche e i comportamenti del gruppo eteronormativo e del suo istituto più tipico, la famiglia.
Nel momento della trasmissione delle parole d’ordine del gruppo (per usare la felice formula di Deleuze e Guattari) attraverso l’apprendimento linguistico, la realtà umana viene (rap)presentata al/la bambino/a secondo categorizzazioni e stereotipi di genere che (ri)producono aspettative e comportamenti collaudati da una lunga tradizione e presentati come ovvi, attesi, ‘naturali’.
La creazione simbolica in tutti i campi, dalla letteratura alla musica alle arti figurative, procede nella stessa direzione, rappresentando i rapporti interpersonali secondo linee-guida ben precise che differenziano il campo dei rapporti amorosi e sessuali, pensati e rappresentati solo secondo la relazione tra i due sessi e generi, da quello dell’amicizia, possibile soprattutto tra persone dello stesso genere, e da quello delle istituzioni omosociali (l’esercito, la palestra, la squadra di calcio, l’agorà per il maschio), ma completamente defisicizzate, in cui il desiderio omosessuale viene represso, esorcizzato e codificato in una direzione radicalmente asessuata e fondata piuttosto sulla solidarietà e la complicità di genere molto spessa fortemente colorata di una svalutazione misogina della donna di cui si apprezza solamente il corpo. Da Paolo e Francesca a Violetta e Alfredo la rappresentazione simbolica inculca attraverso i secoli il modello unico dell’amore tra uomo e donna accanto a quello dell’amicizia spesso spinta fino al limite dell’ambiguità (Don Carlo e il marchese di Posa): non è un caso che quando l’omosessualità si presentò consapevolmente come minoranza culturale visibile e aspirante al riconoscimento sociale, una delle prime esigenze fu la fondazione di una ‘letteratura’ che rappresentasse relazioni erotiche tra persone dello stesso genere; in altre parole, si pose il problema dell’accesso ai regimi discorsivi e al capitale simbolico.

Pierangiolo Berrettoni

E-mail: berrettoni@ling.unipi.it

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