Serenella Pegna [1]
Il 9 marzo le misure restrittive contro la diffusione del covid raggiungono in Italia il culmine: viene decretata la quarantena in tutto il paese. L’11 marzo, di fronte al numero crescente dei paesi coinvolti ed alla velocità dei contagi (aumentati di 13 volte in due settimane), l’OMS dichiara la pandemia. ‘Pandemia- aggiunge il segretario generale- non è una parola da usare con leggerezza o disattenzione… non cambia la valutazione dell’OMS sulla minaccia rappresentata da questo virus. Non cambia ciò che l’OMS sta facendo e non cambia ciò che i paesi dovrebbero fare. ”
Nonostante questo appello ad una lucida fermezza, leader politici nei loro appelli e media di ogni tipo iniziano a descrivere la situazione come una guerra: gli eroici medici che combattono al fronte o resistono in trincea, disinfettanti e distanziamento come munizioni, economia di guerra, il nemico invisibile e un piano Marshall europeo per la ricostruzione. ‘Siamo in guerra’ ricorre 7 volte nell’indirizzo presidenziale di Emmanuel Macron del 16 marzo. Donald Trump si definisce un presidente ‘in tempo di guerra’ contro un nemico invisibile, mentre cittadini americani fanno code ordinate davanti ai negozi di armi. Anche il nostro Giuseppe Conte, il 17 marzo, in occasione del 159° anniversario dell’Unità d’Italia, evoca l’unità patriottica «Mai come adesso l’Italia ha bisogno di essere unita. Sventoliamo orgogliosi il nostro Tricolore. Intoniamo fieri il nostro Inno nazionale. Uniti, responsabili, coraggiosi. Tutti insieme per sconfiggere il nemico invisibile».
La pandemia evoca un nemico, l’Altro. “D’altra parte siamo abituati a chiamare le malattie in base al paese lontano, o straniero, o nemico da cui provengono: l’asiatica, la spagnola, il morbo gallico eccetera. E l’unica risposta che conosciamo a una potenza nemica che ci attacca è la guerra, con tutte le metafore che si porta dietro” (Cassandro). L’utilizzo della categoria amico-nemico è un pilastro del pensiero conservatore e del realismo politico, ha l’indubbio vantaggio di semplificare le analisi, facilitare le decisioni e la loro applicazione immediata in nome dell’emergenza. La definizione del rapporto amico-nemico come ‘guerra’ e quindi l’utilizzo di questa e di tutte le sue componenti come metafora per descrivere e sostenere la mobilitazione verso un obiettivo ha una lunga storia. Si può dichiarare guerra a mali sociali del tipo e di portata più diversi (guerra alla povertà, all’analfabetismo, all’inquinamento, alla mafia, alle nutrie), fino ad estendersi al corpo umano (guerra alla tubercolosi, al cancro) e non è detto che l’utilizzo delle metafore belliche non abbia contribuito alla concentrazione degli sforzi. Apre però la strada a molti rischi, per i diritti, per l’integrità personale ed infine per i risultati pratici stessi.
Al lockdown e al distanziamento sociale gli italiani hanno risposto con nuovi comportamenti, per molti versi inaspettati. Le infrazioni alle regole infatti sono poche. Senso di responsabilità e paura ‘del nemico’, in diversi dosaggi, hanno caratterizzato questi mesi e questa riuscita. A caldo, fra la seconda metà di marzo e l’inizio di aprile, una serie di interventi su siti e riviste mettono in guardia dalle semplificazioni e dai rischi dell’insistenza sulla parola ‘guerra’. Quella che segue è una ricuciture ad una messa in prospettiva di alcuni di questi interventi critici, nella convinzione che il loro significato vada molto oltre il caso specifico che li ha suscitati.
Innanzitutto quanto è legittimo parlare di guerra, siamo in guerra, una vera guerra? La domanda viene posta a giovani reporter, fra questi Laura Silvia Battaglia, da tempo in Medio Oriente, che risponde
Alcuni scenari trovano una corrispondenza. Penso all’esercito che sfila per le strade di Bergamo portando le salme che vanno cremate per insufficienza di spazio; o ai familiari delle vittime che hanno vissuto il dramma di non poter dare l’ultimo saluto ai propri parenti, costretti a morire da soli. Tutto questo è estremamente vicino alla guerra. Ma vorrei dire anche che la guerra è molto di più. Lo sanno bene i nostri nonni. Ci sono delle differenze sostanziali. In guerra non hai più i beni primari: non hai acqua, e quella che hai è fortemente inquinata, per cui rischi il colera; non hai elettricità, stai con la candela; non hai il frigo pieno – pensiamo a quello che avveniva in Siria in cui ogni volta che si creava la fila al panificio si veniva bombardati; nessuno poi ha in questo momento familiari che vengono sottoposti a tortura e sevizie perché chiedono libertà, le donne non vengono violentate dentro o fuori le case dalle milizie, o ancora non c’è il puzzo dei cadaveri sbranati dai cani per strada. La guerra è questo.
Per noi, che viviamo in regioni poco colpite dal virus, ciò che più ci accomuna alle guerre vere sono le file davanti ai negozi, ma colpisce la differenza: noi con carrelli da riempire e compulsando lo smartphone, in Siria per il pane quando c’è e sotto il tiro delle bombe. ‘Guerra’ viene quindi usata incautamente, o scientemente, soprattutto come metafora. Per Annamaria Testa, esperta di comunicazione
Specie in tempi difficili, dovremmo sforzarci di usare parole esatte e di chiamare le cose con il loro nome. Le parole che scegliamo per nominare e descrivere i fenomeni possono aiutarci a capirli meglio. E quindi a governarli meglio. Quando però scegliamo parole imprecise o distorte, la comprensione rischia di essere fuorviata. E sono fuorviati i sentimenti, le decisioni e le azioni che ne conseguono. Tra l’altro: sulla scelta delle parole che servono per descrivere le cose si gioca anche buona parte della propaganda politica contemporanea.
Per descrivere e comprendere la realtà noi la semplifichiamo compiendo, non necessariamente in malafede, una quantità di operazioni di incorniciatura. Lo facciamo ogni volta che definiamo un fenomeno alla luce di quella che ci sembra la sua caratteristica emergente (ad esempio con una metafora), una formula linguistica che condensa in pochissime parole un intero racconto, e che evoca immagini intense, cariche di pathos.
……..Non è una guerra ed è pericoloso pensare che lo sia perché in questa cornice risultano legittimate derive autoritarie …L’automatismo della metafora bellica mi sembra troppo persistente e diffuso per essere ridotto a pura sciatteria lessicale. …E allora perché lo si fa? “Può darsi, insomma, che alla base di tutto ciò ci sia una logica ottusa e inadeguata, che sa leggere l’intera realtà solo in termini dicotomici e muscolari, e non è proprio capace né di ragionare, né di immaginare o progettare in termini di inclusione e di cura. Non ci riesce nemmeno adesso, quando inclusione, condivisione e cura sono l’unico imperativo possibile.
Parlare di guerra come metafora, poiché suscita sentimenti e pathos, ha un effetto performativo e produce una distorsione cognitiva. Un primo effetto è la semplificazione. In un lungo articolo su Il Manifesto, secondo Solidoro
Dichiarare guerra è affermare che comprendiamo il problema e siamo pronti a fare ciò che serve per sradicarlo o risolverlo. La metafora guerresca non solo aiuta i cittadini a comprendere la crisi, ma viene anche utilizzata per persuadere il pubblico in una direzione o nell’altra, l’effetto ricercato nell’utilizzo della metafora è dunque motivazionale e descrittivo. E, però, può divenire persino prescrittivo: a un certo punto, le immagini prese a prestito dalla retorica bellica, iniziano a modellare la politica, e non più il contrario.
La dichiarazione di guerra necessariamente semplifica al fine di focalizzare il nemico e attaccare. Semplificare eccessivamente il problema, tuttavia, può rappresentare un impedimento alla definizione efficace del problema e dunque nel processo decisionale che dovrebbe portare soluzioni alla gravissima emergenza tenendo conto della complessità anche sociale, economica e culturale del mondo contemporaneo, così come della logica organizzativa sottostanti a una qualsiasi strategia. …. Quando la politica affronta un problema molto complesso e suggerisce di averlo compreso e di sapere come sradicarlo dichiarandogli guerra, il processo di studio, decisione e considerazione delle alternative è già sostanzialmente terminato.
Ancora più esplicito Sturloni, che inserisce questa perdita delle relazioni di complessità nel caso specifico della pandemia in corso, sia dal punto di vista metodologico che geopolitico.
La metafora della guerra, tra le altre cose, impedisce di concepire le malattie infettive nell’ambito delle relazioni ecologiche in cui gli agenti patogeni emergono e si diffondono, che includono la popolazione umana, gli altri esseri viventi e l’ambiente che noi stessi contribuiamo ad alterare aumentando il rischio di nuove pandemie.
Concepire l’epidemia come un’invasione ha già portato le nazioni europee a barricarsi dentro i propri confini abdicando ai trattati di Schengen, e ciò nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) avverta che misure del genere non possono fermare la diffusione del virus ma, al contrario, rischiano di peggiorare la situazione, intralciando la collaborazione internazionale e lo scambio di aiuti e materie prime. ….In una guerra, tuttavia, niente è considerato eccessivo, nessun sacrificio troppo grande. Ogni sfumatura perde di significato e tutto diventa bianco o nero: o con noi, o contro di noi. Persino nella quotidianità delle nostre nuove vite non è più ammesso sgarrare: ogni cittadino deve seguire le nuove regole con disciplina marziale giacché persino una corsetta nel parco può diventare un ammutinamento, uscire di casa senza valida motivazione un atto di diserzione.
E, di nuovo, Solidoro:
I compromessi a discapito della democrazia, spesso ingiustificati, che accompagnano le vere guerre sono già evidenti nella lotta contro Covid-19. Sospensione delle riforme in Italia e in Francia e misure restrittive per la libertà della persona: norme emergenziali per il nostro bene, sia ben chiaro, ma che allo stesso tempo neutralizzano ogni dubbio o domanda su come si scelga la strategia d’azione, o come sia stia gestendo la crisi – a livello macro e micro – oltre a sul come si sia arrivati a questo punto. …
C’è anche qualcos’altro che si insinua, vale a dire una politica di “resa”, per cui il Primo Ministro del Regno Unito suggerisce ai concittadini di abituarsi all’idea di perdere alcuni cari o anche il fatto che in Italia medici e infermieri vengano raramente testati al corona virus, perché altrimenti, se risultassero positivi, ciò vorrebbe dire dover sottrarre personale necessario….
…L’utilizzo delle metafore belliche fa anche emergere la questione di genere: forse il linguaggio della guerra è uno dei motivi per cui ci è più difficile immaginare la leadership femminile o accettare che ci siano molti modi differenti di interpretare la leadership? In Italia, al momento, quante sono le donne che vediamo avere un ruolo – politico o scientifico – di rilievo nella lotta al corona virus?
Nell’intervento di uno psicologo, Giuseppe Lavenia, il nemico è oscuro e sconosciuto, chiunque può incarnare il pericolo, è una guerra di tutti contro tutti. L’articolo esce su Repubblica il 2 marzo, pochi giorni dopo la scoperta che il virus è entrato in Italia. Se si escludono le ‘zone rosse’ le restrizioni imposte dal governo sono ancora minime, infatti il suo intervento chiude esortando a superare queste paure, uscire, parlare, mentre un altro psicologo parlava del camminare come attivatore naturale del sistema immunitario. Guerra qui descrive una situazione e ne mette in guardia:
La caccia al nemico. I supermercati presi d’assalto. Sguardo circospetto rivolto a un passante che accenna un colpo di tosse, perché potrebbe essere un potenziale untore. Insulti volati nell’aria, con parole feroci, d’odio, più insidiose di qualunque virus, perché qualcuno ha osato avvicinarsi troppo a qualcun altro. È successo in un supermercato, vicino a casa: una signora anziana voleva prendere della frutta e due ragazzi le hanno detto di spostarsi con toni tutt’altro che gentili, si era soffiata il naso, poteva contagiare, meglio tenere la distanza di sicurezza. Cinesi picchiati, l’ultimo in un bar del Veneto, perché “infetti”. Fake news sul coronavirus buttate nel web (e non poche anche sui media generalisti) a bizzeffe, parole uscite dalla bocca e dai tasti anche di chi di virus, di medicina e di scienza non ne sa un emerito nulla. Qualcuno ha anche tentato di speculare, o di fare sciacallaggio fingendosi un operatore sanitario in visita per fare un tampone.
Abbiamo convissuto, e stiamo convivendo con tutto questo tam tam sul Covid19, da giorni. Giorni interminabili, giorni di paura che pian pianino si sono trasformati in fobia. Abbiamo chiuso le scuole, ci è stato proibito di frequentare i luoghi pubblici per prevenire ulteriori contagi. La nostra vita è cambiata, in un momento. E il panico collettivo ha avuto la meglio. Perché? Perché ciò che ci spaventa non possiamo vederlo, non possiamo toccarlo. È come un nemico invisibile, che può coglierci di sorpresa, ovunque, a qualunque ora, in qualunque momento. Tutti, quindi, potrebbero essere l’incubatore di quel nemico invisibile. Così, ci siamo dimenticati dell’altro. L’egoismo si è rafforzato. Abbiamo fatto scorta di penne, di merendine, sugli scaffali era finita persino la carta igienica, dimenticandoci che qualcun altro poteva avere bisogno delle stesse cose di cui avevamo bisogno noi. Sembravamo in guerra. In guerra con l’altro, però. Perché in una situazione di guerra tra Stati, per esempio, i racconti di chi ha vissuto quei momenti dicono che ci si aiutava l’uno con l’altro. Come si poteva. In questo frangente, invece, è valso il “vince chi arriva primo”, e allora via, tutti a correre per aggiudicarsi il premio.
Vista da un altro lato, la guerra e le sue metafore possono costituire il ‘corpo’ della nazione come un ente coeso, stretto in un destino comune, la cui salvezza giustifica la riduzione delle libertà e degli spazi individuali. La costruzione amico-nemico qui è esemplare: la minaccia dall’esterno fa sì che qualunque critica, obiezione, distinguo, si manifesti all’interno della nazione risulti un’inaccettabile ferita. L’intervento (De Bernardi) è di metà aprile. Guerra ha assunto un carattere performativo e se ne vedono gli effetti
…E in entrambe le guerre – quelle vere e quelle metaforiche – l’ente superiore che di quel destino comune è il promotore e il garante è sempre lo stesso: lo stato in stretta simbiosi con il governo che dopo averlo delineato lo amministrano e lo controllano, dosando sapientemente richiami etici, spirito comunitario, livello degli obblighi e pene per i trasgressori. Il destino comune è dunque una costruzione eminentemente politica, anche quando è orientato a “fin di bene”, nella quale la definizione dei sacrifici molto rapidamente si dilata ad altre sfere della vita collettiva, oltre quelle materiali, e che chiamano in causa la libertà di pensiero e le scelte politiche: nelle guerre vere contestare le scelte statali fino a negarne la loro legittimità, era assimilato al tradimento, all’intendenza con il nemico e quindi punibile persino con la morte, nel quadro di una progressiva centralizzazione della decisione politica che esautorava il parlamento, trasformato in una macchina acritica utile solo ad approvare le scelte del governo, perché anche la dialettica tra i partiti era considerata un pericolo per l’unità “organica” della nazione.
…Seppur non nei termini che si verificarono in occasione delle guerre mondiali per ampiezza e profondità, anche oggi nella lotta al Covit-19 riemerge un ripiegamento verso la delegittimazione del pensiero critico, sia che invochi la centralità del parlamento, sia che revochi in dubbio la strategia seguita per combattere l’epidemia o metta in guardia dalla necessità di evitare che il “tutti a casa” diventi un messaggio securitario.
È come l’altra faccia della medaglia: mentre in una lo stringersi attorno alle istituzioni rappresenta la condivisione delle scelte che quel comune destino comporta, nell’altra, nella guerra vera come quella metaforica, nell’altra si delinea quella tendenza alla diffusione dello “spirito gregario” – cioè quella “sete di obbedienza” tra le masse di fronte all’irruzione dell’imprevisto – su cui Freud ha scritto pagine memorabili proprio dopo la guerra del ’14 -’18 (Psicologia delle masse e analisi dell’io, 1921) -,
Da qui deriva non solo il sospetto che circonda quei politici o quegli opinion makers che mettono in dubbio le scelte fatte e sembrano voler incrinare le granitiche certezze dell’opinione pubblica, ma anche l’esaltazione per il “capo politico”, che fa sembrare Conte l’erede di Churchill o di Aldo Moro e fa perdere di vista i principi dello stato di diritto e della democrazia liberale, fino a poco prima ritenuti saldissimi.
Parallelamente si assiste al diffondersi nell’opinione pubblica di un atteggiamento di condanna e di discredito nei confronti di chi mette in dubbio le scelte governative e si permette di criticare l’operato della macchina organizzativa disposta dallo stato per fronteggiare la pandemia, che mette in luce la forza identitaria del “destino comune”, capace di aderire alle paure collettive e al bisogno di protezione della popolazione chiamata a un cimento estremo.
Passato il momento dell’estremo pericolo dall’esterno il meccanismo ritrova il naturale nemico interno
Oggi … i primi e più vocali divulgatori del concetto di guerra (e termini collegati: battaglia, nemico, fronte, trincea, bollettino ecc.) sono stati i politici. In particolare quelli dell’opposizione, grazie al fatto che ovunque, sia pure in forme e gradi di intensità variabili, la loro funzione è di criticare il governo. L’obiettivo è di dimostrare che, se anche premier e ministri non hanno responsabilità dirette nella genesi del fenomeno, ne hanno sicuramente riguardo alle conseguenze negative provocate dalla loro gestione della crisi, inadeguata o addirittura controproducente. In un quadro di progressivo deterioramento della dialettica politica e delle sue manifestazioni logiche e linguistiche, la novità è che la virulenza (è il caso di dire) della polemica nell’ultimo quinquennio è aumentata esponenzialmente. Certo, nella prima fase dell’emergenza sanitaria non sono mancati appelli a smorzare i toni e a perseguire l’unità di intenti ad opera di personalità e istituzioni “al di sopra delle parti”, a cominciare dal presidente della Repubblica Mattarella. Gli stessi esponenti dell’opposizione hanno più volte dichiarato l’esigenza, in una situazione di emergenza nazionale, di contenere le polemiche. Buoni propositi, tuttavia, presto dimenticati nel fervore della contesa politica. È così che l’immagine, innegabilmente drammatizzante, della guerra si è fatta largo nell’emergenza italiana, anche in questo caso battendo sul tempo Macron, Netanyahu e molti altri politici internazionali.
Un ultimo aspetto della guerra come metafora riguarda il corpo umano, la guerra contro la malattia, nemico invasore e invisibile. E qui il cerchio si richiude sull’aspetto intimo e sociale della pandemia in corso. Il riferimento principale è alle intuizioni ed alle testimonianze di Susan Sontag, che mette in rilievo quanto una metafora bellica nel descrivere ed affrontare la malattia possa ridurre il corpo a un meccanismo, spersonalizzarlo, depotenziarlo, metterlo contro sé stesso. I riferimenti alla Sontag attraversano molti degli interventi esaminati
Susan Sontag, ci ha inoltre ricordato quanto sia facile cadere nel tranello di presentare e rappresentare un’emergenza sanitaria come una guerra «anziché come un complesso problema sociale, culturale o di emarginazione di determinate categorie di persone». Trattare una malattia come una guerra – continua Cassandro sempre citando Sontag – «ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate. I malati diventano le inevitabili perdite civili di un conflitto e vengono disumanizzate appena… perdono il loro diritto di cittadinanza da sani per prendere il loro oneroso passaporto da malati”. I malati così, oltre che essere vittime della malattia, sono anche vittime delle metafore della malattia: «ammalarsi vuol dire essere invasi dal nemico e morire è una sconfitta». Né sono migliori le metafore della lotta, della resistenza: la metafora del «guerriero che sconfigge il male» non solo falsa il peso (anche psicologico) della malattia, caricando il malato di responsabilità, aspettative, sensi di colpa individuali, ma anche il rapporto tra individuo e società. (Faloppa citando Cassandro)
Sontag si concentra anche sulla figura del malato, che è la prima vittima delle metafore della malattia. Ammalarsi vuol dire essere invasi dal nemico e morire è una sconfitta. … Liberarsi da una malattia, superarla per tornare a vivere “tra i sani”, non è una questione di valore militare, di forza, di costanza, di eroismo del singolo; è una questione di essere ben curati, di risorse sanitarie e anche, purtroppo, di fortuna. Applicare la metafora della guerra e della sconfitta a una malattia significa caricare il malato di sensi di colpa e, dice Sontag, ostacolarlo nel suo percorso di guarigione.
L’attenzione dei media è stata concentrata sul principale dei ‘campi di battaglia’, i reparti di rianimazione negli ospedali, e, alleggeritasi in quei luoghi la tensione, sul dramma delle case di riposo, mostrandoci il combattimento dei medici intorno a corpi necessariamente passivi. Forse è per questo che, fortunatamente, nel caso del covid, lo stigma ha solo sfiorato i malati, concentrandosi, per brevi ma intensi momenti sui possibili ‘untori’, dai Cinesi ai runner, a chi non rispettava la clausura, a chi continuasse ad uscire di casa anche senza mettere a repentaglio la sicurezza degli altri. E’ bene, tuttavia, ricordare i meccanismi che si attivano intorno ai mali oscuri e sconosciuti
Come inoltre racconta Susan Sontag nel saggio L’Aids e le sue metafore (1988), la pestilenza è sempre un male che proviene da un altro luogo: nel XV secolo, la sifilide era il french pox per gli inglesi, il morbo germanico per i parigini, il mal napoletano per i fiorentini, il mal cinese per i giapponesi. Nel secolo successivo si attribuì l’origine di questa “nuova” malattia alla scoperta delle Ameri che, dove i marinai di Colombo l’avrebbero contratta prima di portarla in Europa. Del resto, nel Novecento abbiamo avuto l’influenza Spagnola e l’influenza asiatica, mentre ancora oggi Trump si ostina a chiamare “virus cinese” il coronavirus della COVID-19.
Lo stigma accompagna ogni epidemia: il male si abbatte su persone appartenenti a gruppi chiusi, che con i loro comportamenti irresponsabili o contrari alla morale causano la diffusione del morbo e mettono a repentaglio l’incolumità di tutti. La persona sofferente si trasforma così in un untore da emarginare e colpevolizzare per avere trasgredito alle regole sociali, recando offesa a sé e agli altri. Come un marchio d’infamia, il contagio svela e castiga la trasgressione, l’indecenza e l’immoralità. E come scriveva Sontag in Malattia come metafora (1977): “Non c’è niente di più punitivo che attribuire a una malattia un significato, poiché tale significato è invariabilmente moralistico” (Sturloni ).
FONTI
Laura Silvia Battaglia (intervista), Il senso delle parole al tempo del Covid-19: la narrazione tra guerra ed eroi, 10 aprile 2020
https://www.notabilis.it/articolo/2020/4/10/il-senso-delle-parole-al-tempo-del-covid-19-la-narrazione-tra-guerra-ed-eroi
Fabrizio Battistelli “Coronavirus: metafore di guerra e confusione di concetti”, Micromega online, 24 marzo 2020
http://temi.repubblica.it/micromega-online/coronavirus-metafore-di-guerra-e-confusione-di-concetti/
Daniele Cassandro “Siamo in guerra! Il coronavirus e le sue metafore”, Internazionale 22 marzo 2020
https://www.internazionale.it/opinione/daniele-cassandro/2020/03/22/coronavirus-metafore-guerra
Alberto DeBernardi “Metafore. Perché ci piace tanto dire che ‘siamo in guerra con il virus”, 12 aprile 2020
https://www.linkiesta.it/2020/04/guerra-coronavirus-lessico/
http://www.parliamoneora.it/2020/04/16/economia-di-guerra-ma-che-vuol-dire/
Federico Faloppa, “Sul ‘nemico invisibile’ e altre metafore di guerra. La cura delle parole”, 25 marzo 2020
http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/cura_parole_2.html
Giuseppe Lavenia, “Torniamo ad essere umani e a parlare con i nostri figli” La Repubblica, 2 marzo 2020
https://www.repubblica.it/salute/medicina-e-ricerca/2020/03/02/news/coronavirus_torniamo_a_essere_umani_e_a_parlare_con_i_nostri_figli-250020467/
Matteo Pascoletti “Non siamo in guerra e contro il Cronavirus serve solidarietà, non la caccia all’untore”, 29 marzo 2020
https://www.valigiablu.it/coronavirus-solidarieta/
Adriano Solidoro “Guerra alle metafore di guerra sul coronavirus”, il Manifesto, 2 aprile 2020
https://ilmanifesto.it/guerra-alle-metafore-di-guerra-sul-coronavirus/
https://www.doppiozero.com/materiali/coronavirus-guerra-alle-metafore-di-guerra
Giancarlo Sturloni “Il linguaggio militare della pandemia” 31 marzo 2020
https://www.iltascabile.com/scienze/pandemia-guerra/
Annamaria Testa “Smettiamo di dire che è una guerra”, Internazionale, 30 marzo 2020
https://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2020/03/30/metafora-guerra-coronavirus
[1] Serenella Pegna (Parma, 1953) ha studiato Scienze Politiche presso l’Università di Pisa e ha insegnato, come ricercatrice, la storia sociale nella stessa università. Si è occupata di immigrazione e di gruppi marginali.