Giuseppe D’Amore è psicologo e psicoanalista della Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione (SIPRe). Esercita la libera professione a Roma e ad Anguillara Sabazia. È presidente dell’Associazione Sviluppo e Relazione che opera con l’intento di portare “la psicologia verso le persone” (www.sviluppoerelazione.it). E’ autore del libro “Il cambiamento in psicoanalisi teorie metodi e tecniche” (edizioni universitarie romane). Ha pubblicato articoli sulla storia della psicoterapia in Italia e sullo sviluppo della professione dello psicologo consultabili sul sito www.studio-damore.it.

Gli incontri del gruppo di ascolto genitoriale hanno avuto inizio a novembre del 2008 con una cadenza settimanale e la durata di una ora e mezza. L’invito a partecipare al gruppo è stato rivolto a un insieme ampio di coppie con figli adottivi. Dopo i primi mesi in cui si sono presentate alternativamente un certo numero di coppie, il gruppo si è “assestato” e da quel momento in poi, quattro coppie hanno, diciamo, costituito e fondato il gruppo. Successivamente si sono aggiunte altre due coppie. Anche se non sono sempre presenti tutti contemporaneamente si può dire che il gruppo è costituito da 6 coppie di genitori con i loro rispettivi figli che stanno materialmente in un’altra stanza dove ci sono due persone addette che si prendono cura di loro.

Nonostante la “post-adozione” sia da tanti esperti di adozione riconosciuto come uno dei momenti più importanti, tanto da meritarsi un nome proprio di tipo tecnico scientifico, sembra che gli interventi proposti e sostenuti dalle istituzioni riferite direttamente al periodo in questione siano pochi. Proponiamo l’ipotesi che questo stato di cose, oltre a motivazioni di tipo storico ed economico, possa avere anche dei motivi psico-sociali. A questo punto scomodiamo addirittura Freud che nel 1924 scrive un breve articolo dal titolo “La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi” dove sostiene che, nonostante sia più evidente nella psicosi, anche nei normali fenomeni nevrotici, in cui tutti noi potremmo riconoscerci, si riscontra una consistente perdita di realtà, o meglio perdita della capacità di percepire la realtà per quello che è.

Ovviamente Freud oltre alla realtà esterna si riferiva alla realtà interna o alla cosiddetta realtà psichica. Vorrei usare quest’idea per suggerire che la scarsa attenzione dedicata alla “post-adozione” potrebbe dipendere, negli attori coinvolti (genitori, figli, servizi, istituzioni) da una relativa perdita nella capacità di percepire la realtà. Non sto dicendo che le istituzioni e i servizi sono poco attenti a questa fase per negligenza o che i genitori non si rivolgono ai servizi perché sono cattivi genitori o che i figli non sappiano chiedere aiuto perché sono svogliati e discoli. Sto dicendo che dovremmo indagare sulle motivazioni che portano a questo stato di “realtà”, realtà scritto tra virgolette.

Vorrei proporre un’ipotesi per spiegare questa situazione: la scarsa offerta di servizi nella post-adozione sarebbe una sorta di “reciproco accordo implicito, non volontario e non consapevole” tra le istituzioni, i servizi, i genitori e i figli sul fatto che “è meglio non svegliare il cane che dorme” perché non si sa mai cosa può succedere. Invece nell’adozione si sa bene cosa può succedere, basta chiederlo agli attori coinvolti oppure leggere un po’ di letteratura sull’argomento. Può succedere, ad esempio, che dopo l’arrivo del figlio i nonni adottivi evitino la nuova famiglia troncando i rapporti, oppure che il bambino non corrisponda alle aspettative di genitori appartenenti ad un’altra cultura, per cui dopo un po’ di tempo questi decidono di restituirlo, oppure può succedere che anche coppie molto salde e ben affiatate entrino in crisi e mettano in discussione la solidità e stabilità del loro legame. La mia idea è che fino a quando tutto questo non esplode producendo eclatanti eventi dolorosi, allora “è meglio non svegliare il cane che dorme”.

Un’altra possibile spiegazione è che non si dia la giusta importanza a ciò che a parole viene sostenuto da più parti. Infatti si dice spesso che l’adozione è un processo e, in quanto tale, una volta avviato dura per tutta la vita, come per tutta la vita dura il comportamento di attaccamento secondo Bowlby («Il comportamento di attaccamento caratterizza l’essere umano dalla culla alla tomba», egli afferma in Costruzione e rottura dei legami affettivi, p. 136). Con questa citazione intendo mettere in evidenza quanto l’insieme di emozioni, intenzioni, dolori, speranze, bisogno di essere sostenuti ed aiutati e di avere una base sicura da cui partire per esplorare il mondo e a cui poter ritornare per fare rifornimento ecc., che caratterizzano le fasi precedenti il “post-adozione”, continuino ad essere attivi anche dopo. Anzi direi che sono maggiormente attivi dopo, quando comincia una relazione “reale” tra genitori e figli.

È proprio in questo periodo successivo che il trauma di una genitorialità biologica negata dalla sterilità e, dalla parte dei figli, quello dell’abbandono si incontrano e, senza volerlo, si scontrano. Chi si occupa di psicoterapia per professione sa quanto “l’area traumatica” sia ardua, dolorosa e difficile da trattare, tale da rendere necessaria e obbligatoria una lunga e specifica preparazione a chi decide di “prendersi cura” di questi ambiti. Come si può pensare, allora, che delle normali persone, già in partenza potenzialmente traumatizzate, siano in grado di prendersi cura di un bambino traumatizzato facendo riferimento alle sole forze “naturali” presenti in se stessi, nella coppia o nella famiglia? Come si può non percepire la realtà sotto gli occhi di tutti che un sostegno costante nel tempo è necessario anche e soprattutto dopo che il bambino è arrivato dentro la famiglia?

In questi ultimi tempi ci si interroga sempre di più su quali siano le competenze genitoriali che possano far prevedere un buon esito del processo adottivo. In base alle considerazioni fatte, potrei suggerire che, per rispondere in modo responsabile alla complessa realtà dell’adozione, sia necessaria anche la competenza a chiedere aiuto e la disponibilità a farsi aiutare e sostenere nella post-adozione per un medio o lungo periodo di tempo. Quando questa competenza incontra una solerte, specifica e mirata risposta di sostegno da parte dei servizi e dalle istituzioni, essa contribuisce a costruire e mantenere nel tempo una relazione sufficientemente buona fra tutti gli attori coinvolti e quindi a una migliore riuscita del processo adottivo.

Tornando all’esperienza del gruppo di ascolto genitoriale, vorrei precisare che lo scopo di questo gruppo non è una psicoterapia di gruppo, nel senso che non ci occupiamo di nessuna malattia mentale da curare. Le persone sono invitate a raccontare “eventi relazionali” nei quali sono coinvolti come genitori e a partire da ciò comincia il lavoro del gruppo. Con una metafora possiamo dire che il gruppo funziona come “un riflettore circolare multiplo”, con una duplice accezione.

La prima è che le persone si riflettono l’una nell’altra, funzionando per l’altra persona come uno specchio ad elevata emozionalità soggettiva, cosa che succede ovviamente anche rispetto al gruppo visto come una unità multipla, dove è possibile esprimere le proprie esperienze emozionali.

La seconda accezione del riflettore circolare multiplo è che le persone vengono facilitate ad accendere la propria capacità riflessiva, attraverso la quale è possibile individuare e distinguere le diverse esperienze alle quali vanno incontro, ad esempio i bisogni dei figli dai propri, sia come individui, sia come coppia genitoriale.

Il grande vantaggio del gruppo è questo: più cervelli accendono la loro capacità riflessiva contemporaneamente, più aumenta la luce che rende possibile percepire distintamente la “realtà”.

Questo gruppo, inoltre, è un “doppio gruppo”, visto che ci sono anche i figli nella stanza accanto. La speranza è che in qualche “modo misterioso” quanto accade nel gruppo dei genitori possa agire contribuendo a fare una piccola luce anche lungo la strada dei figli.


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