La teoria che se l’occhio non vede la realtà non esiste arriva da lontano…
“I fautori dell’escalation americano in Vietnam hanno sostenuto spesso con veemenza, allora come oggi, che gli Usa non avrebbero perduto la guerra nelle giungle del Sud-est asiatico, ma sul fronte interno, negli Stati Uniti.  Fra i principali avversari indicarono e indicano i mezzi di comunicazione e le università.  I seguaci di questa leggenda della pugnalata alla schiena sostengono che la televisione presentò un quadro dei combattimenti in Vietnam falso, erodendo gradualmente la disponibilità della popolazione a sostenere moralmente, politicamente ed economicamente le truppe.
A loro volta gli studenti avrebbero avvelenato il clima politico e sottratto via via al governo la possibilità di negoziati dignitosi.  Alcuni critici sono andati oltre, accusando il movimento contro la guerra di aver prolungato la guerra, addossandogli perciò la responsabilità della morte di innumerevoli soldati”.
Da MARC FREY. Storia della guerra in Vietnam.  Einaudi 2008.

Che cosa possono dire i farmaci al dolore?
“Forse, un giorno, noi sapremo più esattamente che cosa ha potuto essere la follia.  Quale sarà il supporto tecnico di questo mutamento?  La possibilità di padroneggiare la malattia mentale come una qualsiasi affezione organica?  Il controllo farmacologico preciso di tutti i sintomi psichici?  Il progressi della medicina potranno far scomparire completamente la malattia mentale, come già la lebbra e la tubercolosi; ma so che una cosa sopravviverà, e cioè il rapporto tra l’uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua carcassa durante la notte; che, una volta messo fuori circuito ciò che è patologico, l’oscura appartenenza alla follia sarà la memoria senza età di un male cancellato nella sua forma di malattia, ma irriducibile come dolore”.
Da MICHEL FOUCAULT.  Storia della follia nell’età classica.  Rizzoli  2004.

Peccato che il poeta Vladimir Majakovskij abbia avuto una vita soltanto, ed anche breve.  Chissà che poesie avrebbe scritto se la stessa realtà da lui sperata non avesse contribuito al suo suicidio.

VLADIDMIR IL’IC

So bene
che non sono gli eroi
a eruttare la lava delle rivoluzioni.
La favola degli eroi
è una scemenza da intellettuali.
Ma chi
riuscirà
a non celebrare
la gloria del nostro Il’ic?

Gambe senza cervello sono assurde.
Senza cervello
le mani non possono nulla.
Si dibatteva
da ogni parte
l’acefalo corpo del mondo.
E noi
venivamo portati al massacro,
si levava il clamore della guerra,
quando
crebbe sul mondo
Lenin
come una grande testa.
E le terre
sedettero sugli assi.
Ogni problema fu semplice.
E nel caos
si delinearono
due mondi,
in tutta la loro statura.
Il primo –
un gran ventre sull’altro.
Il secondo –
tutto di roccia irremovibile. –
si fuse in mille milioni.
E si eresse,
montagna di  muscoli.

Ora
non mancheremo il colpo.
Sappiamo chi spazzare via!
Sanno le gambe
fra quali
cadaveri
camminare.

Non c’è posto per urli né dubbi.
Abbasso l’ “aspettiamo” della lumaca!
Sanno le braccia
chi
coprire d’una pioggia mortale.

Soffocando la terra col fumo degli incendi,
dovunque
il popolo ha rotto l’incanto,
esplode
come una bomba un nome:
Lenin!
Lenin!
Lenin!

E qui non si tratta
di far vento all’intimità del festeggiato
con un ventaglio di versi.
Io
in Lenin
esalto
la fede del mondo
e la mia.

E non potrei essere poeta
se non
cantassi questo:
in stelle a cinque punte il cielo
dell’immensa volta del partito comunista russo. (1920)

Vladimir  Majakovskij

Da VLADIMIR V. MAJAKOVSKIJ. Poesie. A cura di Guido Carpi.  Rizzoli 2008.
Traduzione dal russo di Ignazio Ambrogio.

La sensibilità di una poetessa russa, negli anni Venti.   In ricordo delle stragi odierne sui luoghi di lavoro.

QUELLI  DELLE FABBRICHE.

Stanno con tetraggine operaia
i corpi di fabbrica anneriti dal fumo.
Sopra la fuliggine scuotono i riccioli
i cieli mossi a pietà.

Verso la fumosa orfanezza dell’osteria
si trascina un berretto unto di grasso.
L’ultima sirena della periferia
ulula chiedendo giustizia.

Sirena! sirena! Di fronti stravolte
l’ultimo grido: “Ci siamo ancora noi qui!”
Qual senso di condanna a morte
in questo lamento delle ultime sirene!

Come azzanna il loro penoso ululato –
la vostra sazietà di velluto!
Qual senso d’essere sepolti vivi
e trascinati al macello!

E Dio? Affumicato fino alla fronte,
non interviene! Inutilmente aspettiamo!
Sopra le brande degli ospedali e delle carceri
sta lui, appuntato con chiodini.
Straziati! – Carne viva!
E così era e sarà – fino
al decesso.
–  Argine per tutte le canzoni
E di tutte le disperazioni nido:
fabbrica! fabbrica! Poiché si chiama
fabbrica questo nero alzarsi in volo.
Alla disperazione della sirena di fabbrica
prestare ascolto – poiché chiama

la fabbrica. E nessun intermediario
più vi servirà, quando,
quando sopra l’ultima città
mugghierà l’ultima sirena. (23 settembre 1922)
Marina Cvetaeva.

Da MARINA  I. CVETAEVA. Poesie. Feltrinelli  2007.
Traduzione dal russo di Pietro A. Zveteremich.

A cura di Giovanni Lancellotti
giovannilance(at)alice.it

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