“…Appoggiato col gomito al bancone, un bicchiere in mano leggermente alzato, come per brindare,  il cilindro in testa e riccioli bianchi che ne uscivano, riconobbi Piotr….
<<Sono vent’anni che desidero conoscerla>> gli dissi nel mio francese alla Fernandel.
<<Et moi je suis hereux maintenant>> rispose baciandomi la mano come se mi trovasse dopo un antico amore.
<<E’ da quando ho visto il suo cilindro nell’ingresso di Edwige…>> ……Non dissi “il giaciglio”, ma avrei potuto, ché ormai sapevo come anche quello facesse parte del distacco dalle cose, da tutte le cose, in nome dei momenti da vivere libero sulla scena, sbrigliando il proprio talento, la capacità di mordere e di ridere senza timore di niente e di nessuno.” (1)

Nella scuola in cui lavoro ci sono molti alunni stranieri. Nelle mie classi ce ne sono circa una decina. Parlano quasi tutti abbastanza bene l’italiano. Tuttavia non si respira l’aria internazionale che c’è nelle grandi stazioni ferroviarie o negli aeroporti, dove la lingua dominante è l’inglese. Questi ragazzi sono prevalentemente dell’Europa dell’Est, qualcuno proviene dall’America del Sud o dall’Africa, qualcuno dall’ Asia. Le lingue mitteleuropee che fanno “cultura alta” nella nostra mente d’insegnanti, qui non vengono parlate. Le lingue dei nostri ragazzi, sono quelle degli immigrati dai Paesi poveri, che forse emergeranno in un futuro, per ora sono Paesi da cui si va via. Queste lingue sono segno di povertà, non di ricchezza o di emancipazione culturale. Noi insegnanti non conosciamo queste lingue e neanche sentiamo l’esigenza d’impararle. Non sono nel nostro orizzonte culturale, sono le lingue di quello che consideriamo in modo più o meno dichiarato terzo mondo. Alcuni di questi ragazzi hanno nomi e cognomi impronunciabili e, d’accordo con i compagni di classe, li ribattezziamo con nomi italiani assonanti, come nel caso di Gigi, alunno rumeno, il cui nome vero ormai abita ormai solo sul registro. Quando il Preside nelle occasioni ufficiali, come gli scrutini, dice il nome, ci guardiamo un po’ smarriti (e questo chi è, ce lo siamo perso?). Poi qualcuno più sveglio, traduce e ci rassicura: “Gigi con me però studia…”Tiriamo allora un sospiro di sollievo, è lui….
I problemi che abbiamo con i ragazzi stranieri non sono, in alcuni casi, solo di lingua. Questi sono ragazzi che spesso hanno problemi sociali, psicologici: si portano dietro storie complesse, che difficilmente riusciamo a capire fino in fondo. Queste questioni aggiuntive si intrecciano con il parlare e lo scrivere e quindi il comprendere. Lavorare con loro è spesso difficile.
Eppure siamo consapevoli che la loro presenza è una ricchezza potenziale di scambio fra culture diverse, è un’opportunità che non possiamo perdere. Mi torna sempre in mente l’esperienza unica che è stata avere visitato Praga prima della caduta del muro di Berlino. Il ricordo è unico non solo per la straordinaria bellezza della città: il castello, la città vecchia, il ponte Carlo di notte, i palazzi straordinari, le preziosità architettoniche non sciupate da insegne pubblicitarie che involgariscono qualsiasi cosa. Il ricordo è unico soprattutto per avere conosciuto Eduard, una persona, un praghese che ha fatto conoscere a me e alle persone che erano con me, la vita che faceva, che facevano i suoi amici. Parlava un italiano stentato. Ci capivamo lo stesso perché avevamo voglia di farlo. La voglia di capirci faceva la differenza. Era un medico molto importante nel suo ospedale e in tutta la Cecoslovacchia, colto, esperto di arte, amico di un mio amico pittore. Ci accompagnava a vedere le bellezze di Praga, vestito come noi, maglietta e sandali aperti, e poi ci lasciava per andare a trovare i suoi pazienti a casa, perché forse potevano avere bisogno di lui : “Ci sono persone a risico!”, diceva, intendendo dire – a rischio-. Io ed i miei amici ci siamo chiesti un mucchio di volte, ammirandolo, quanti medici della sua importanza in Italia andavano a trovare a casa le persone a risico…Abbiamo capito che accanto alla povertà nascosta dietro palazzi bellissimi, c’era uno straordinario senso di solidarietà fra le persone, grandi ideali politici, grande voglia di rivolta verso il regime, considerato spesso iniquo. Ricordo l’impressione di una vita non mistificata dal consumismo. E’ stata la scoperta di una vita difficile, ma autentica. Eduard è una persona che ora non c’è più. E’ stato un incontro importante, una lezione di vita.

Mesut e Feyza: una storia che comincia e finisce e una storia che continua

Feyza è una ragazza turca, di religione musulmana, che conosce poco l’italiano pur essendo ormai da due anni in Italia. La coordinatrice della classe, la terza, che lei frequenta, mi ha detto che il tipo di vita che le impongono i suoi genitori, la sua cultura, la porta ad avere pochissimi contatti esterni alla scuola. All’inizio dell’anno scolastico non sa assolutamente nulla della materia che io insegno. Fortunatamente nelle mie ore ho per due terzi del tempo la compresenza dell’insegnante di laboratorio. Decidiamo io e lui, che quando io spiego lui si dedica a lei. Non solo, ma nell’ora di religione che lei ovviamente non fa, lui le fa lezioni di Chimica aggiuntive. Feyza ha pochi contatti anche con i compagni di scuola, se ne sta isolata. Tento di metterle accanto qualche compagno bravo, ma non funziona. Insegnarle qualcosa diventa per me un tormentone, le chiedo continuamente se ha capito, io e Angelo (il collega di laboratorio) quando siamo in terza non parliamo di altro. Con lei ho contatti informali nei dieci minuti della ricreazione. Scopro che ha una grande ammirazione per la coordinatrice della classe, è consapevole di quanto stia facendo per lei e una volta mi dice: “ Però..anche tu sei brava, adesso capisco.. a Chimica”. Sono così felice che ovviamente non mi formalizzo per il tu. La contentezza dura poco perché dopo circa un mese e mezzo di scuola il Preside mi chiama in Presidenza per annunciarmi che in quella classe arriva un altro turco che di italiano ne sa ancora meno di Feyza. Mi prende un attacco di disperazione che non dissimulo. Pur riconoscendo le ragioni che adduce il Preside, che sta già cercando un mediatore culturale, vedo la mia vita complicarsi in modo esponenziale e sbotto che così non si può fare scuola, ho già 159 alunni con cui la vita è difficilissima, alunni che vengono a scuola tanto per fare, che non studiano, che…eccetera, eccetera. Il giorno dopo trovo il ragazzo turco in classe, mi sembra più grande della sua età e, forse per questo motivo, nel presentarci gli do la mano. Lui fa un leggero inchino. Si chiama Mesut. Diventa il compagno di banco di Feyza che gli traduce in turco quello che dico (visto che anche lei, ne sa poco d’italiano, che si diranno? mi chiedo). Mi rivolgo ai due ragazzi ripetendo le cose che dico agli altri, scandendo le parole, quasi urlo. Mi accorgo che sto usando la tecnica che usa mia madre con gli stranieri, per cui l’ho presa in giro per anni: parlando a voce altissima e sillabando, è convinta di farsi capire. Mesut sta sempre attentissimo. Un giorno faccio una domanda a tutta la classe, sento che lui mi risponde e risponde in modo giusto. Penso di essermi sbagliata e gli faccio un’altra domanda, sullo stesso argomento e lui, in un italiano stentato risponde bene. Lo faccio venire alla lavagna e gli faccio fare una configurazione elettronica e lui la fa correttamente. Feyza e tutti gli altri ragazzi della classe lo guardano ammirati e increduli. Io stessa non voglio credere ai miei occhi e alle mie orecchie. E’ una situazione incredibile, di grazia: è un miracolo.
Dopo una settimana Mesut arriva in classe accompagnato dal padre e dal Preside. Mi dicono che il padre pensa che per Mesut sia meglio conseguire il diploma in un’altra sezione, più tecnica, più spendibile nel mondo del lavoro. Mesut non è contento ma obbedisce al padre. Per me è una mazzata, non ci voglio credere. Cerco di mantenere la calma e dandogli la mano gli dico che mi dispiace e che l’importante è essersi conosciuti. Il Preside sorride, capisco che considera questa una frase da dire in altri contesti affettivi. E’ vero, ma l’ho sentita vera e l’ho detta.
Mesut ora fa la specializzazione che vuole suo padre. Quando mi incontra nei corridoi si sbraccia in saluti e fa sempre un piccolo inchino. In biblioteca ho sentito che il professore di matematica (nell’ora di religione che lui non fa) gli spiegava il significato delle parole “arredi e mobili”, mi chiedo come abbia fatto a capire che cos’è una configurazione elettronica, quel giorno, il giorno in cui abbiamo iniziato a capirci, il giorno del miracolo della Pentecoste.

Boris e la cartina tornasole

Nelle seconde ci sono più stranieri che nelle mie terze però il lavoro è più semplice dal punto di vista linguistico, perché conoscono abbastanza bene l’italiano. Inoltre il lavoro che facciamo è di tipo laboratoriale nel senso che utilizziamo esperimenti in laboratorio con lo scopo di costruire significati che abbiano una forma linguisticamente comprensibile e accettabile per la disciplina. Rimandiamo la formalizzazione ad un altro momento, aspettiamo che i concetti crescano insieme alle parole, man mano che esse assumono un significato da esprimere in modo sempre più preciso.
Questo modo di lavorare è di grande aiuto per italiani e stranieri a cui non si può imporre il linguaggio sofisticato della disciplina adulta. Nonostante i problemi di comportamento, le cose non vanno male. I ragazzi sono abbastanza coinvolti nel lavoro che stiamo facendo e partecipano quasi tutti alle discussioni che seguono all’esperienza di laboratorio. L’ultima volta che ci siamo visti abbiamo fatto, come conclusione del lavoro sugli acidi, sulle sostanze basiche e sui sali, l’estrazione alcolica di pigmenti di fiori. In pratica ci siamo fabbricati un indicatore, cioè una sostanza che cambia colore in ambiente acido, basico o neutro. Questa esperienza solitamente piace tantissimo ai ragazzi perché è facile e si vedono colori bellissimi. Abbiamo confrontato questi colori con quelli ottenuti con la cartina tornasole. La volta seguente tutti gli alunni mi hanno portato la relazione sull’esperienza corredata da disegni colorati ed in alcuni casi dalla fotografia fatta con il telefonino, che abbiamo eccezionalmente usato, a fini didattici. Boris che è bulgaro, mi ha presentato una relazione in un buon italiano, in cui ad un certo punto ha scritto: abbiamo messo due gocce di acido in una cartina che gira intorno al sole…Evidentemente non ha capito la parola tornasole e l’ha tradotta nel significato che era per lui più logico. D’altra parte che la cartina giri intorno al sole è galileianamente vero! Per i chimici, il termine tornasole è una parola che è di uso comune, è così, nessuno se ne chiede mai l’origine. Per spiegarlo a Boris ho fatto una piccola indagine su internet e ho scoperto che l’eliotropo, detto anche in francese tournesol è una pianta che gira i suoi fiori verso il sole ( è diversa dal nostro girasole, però). E’ anche il nome di un colorante blu che veniva usato nel medioevo, da non confondersi con il colorante che ha dato nome alle cartine usate nei laboratori chimici. Infatti questa seconda miscela di coloranti naturali, nota anche con il nome di laccamuffa, è ricavato da alcune specie di licheni, in particolare dalla Roccella tinctoria. Ai ragazzi ho riferito queste cose e nessuno ha riso per quello che ha scritto Boris.
Con i ragazzi abbiamo pensato che questo nome tornasole derivi dal fatto che, come i fiori girano intorno al sole, la cartina vira nei colori dell’arcobaleno.
Grazie a Boris lo abbiamo potuto immaginare.
Grazie a Boris, Feyza, Mesut possiamo immaginare una scuola in cui ragazzi a risico di tutte le nazionalità abbiano un loro posto. Che sia un punto fermo nel loro cammino.

NOTE:

(1) L. Adorno, La libertà ha un cappello a cilindro, Palermo, Sellerio, 1993, pp. 190-191.

BIBLIOGRAFIA:

– S. Mitchell “ L’amore può durare?”, Raffello Cortina editore, Milano ,2004.

– L. Barsantini e C. Fiorentini (a cura di), L’insegnamento delle scienze verso un curricolo verticale. I fenomeni chimico-fisici , I.R.R.S.A.E Abruzzo, S. Gabriele (TE), Editoriale Eco srl, 2001.

– J.Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano,1997.

– P. Boscolo “Psicologia dell’apprendimento scolastico”, UTET,Torino ,1997.

-A. Lorenzini , “Il legame fra empatia e controtransfer: Kohut e alcuni orientamenti attuali”, Ricerca psicoanalitica, 2004, XV, 2.


ELEONORA AQUILINI 
Sono nata a Rieti e vivo a Pisa. Laureata in Chimica a Pisa nel 1986, insegno questa disciplina nella Scuola media Superiore. Viste le difficoltà connesse all’insegnamento/apprendimento delle discipline scientifiche mi sono dedicata a studi che ne ricercano le ragioni anche in ambito psico-pedagogico. Dal 1995 svolgo attività di ricerca didattica nel “Gruppo di ricerca e sperimentazione didattica in educazione scientifica del CIDI di Firenze” e dal 2001 sono Vicepresidente della Divisione di Didattica della Società Chimica Italiana. Molti miei scritti sono stati pubblicati in riviste di didattica.
E-mail: ele.aquilini(at)tin.it

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