Elisa

“Raggiungibile, vicina e non perduta, in mezzo
a tante perdite, una cosa sola: la lingua.
La lingua, essa sì, nonostante tutto, rimase acquisita.
Ma ora dovette passare attraverso tutte le proprie
Risposte mancate, passare attraverso un ammutolirsi
Orrendo, passare attraverso le mille e mille
Tenebre di un discorso gravido di morte.
Essa passò e non prestò parola a quanto accadeva; ma
Attraverso quegli eventi essa passò. Passò e le fu dato,
di riuscire alla luce, “arricchita” da tutto questo”.

P. Celan

Questa poesia ha che fare “direttamente” con la mia vita.

Da circa due anni, sto lavorando sulla mia storia personale, attraverso l’ausilio di un’accurata ricerca bibliografica di testi riferiti all’epoca delle mie memorie, con una curiosità di lettrice insaziabile, cresciuta sempre di più, per addentrarmi in quel misterioso intreccio di caratteristiche individuali e sociali, ereditato sia dai miei genitori sia dal contesto storico – sociale, nel quale sono cresciuta.
Molti e preziosi sono stati i contributi letterari che mi hanno illuminato su alcune cause profonde dei miei disagi e insicurezze personali, ma soprattutto ha agito la possibilità di poterne parlare con persone disposte ad ascoltarmi.
L’ultimo libro letto sul tema delle leggi razziali del 1938, in Italia, mi ha sollecitato e incoraggiato a scrivere alcune righe sulla mia esperienza personale. Da tempo mi ero ripromessa di farlo, ma rimandavo sempre, perché temevo di toccare qualche ulcera interiore, con inevitabile sofferenza. Ma ogni nuovo stadio vitale ha un costo emotivo e forse è proprio questo il senso dell’ esistenza: tentare di capire, di conoscere la nostra storia, mentre si dipana, mentre diviene e che, non è mai possibile contenere, se non in una nostra transitoria e balsamica illusione.
Leggendo il libro “1938 I bambini e leggi razziali in Italia”, a cura di Bruno Maida, Giuntina editrice, Firenze 1999, sono stata particolarmente interessata dal contributo di Donatella Levi, intitolato “La psicoanalisi italiana e il trauma dei sopravvissuti. Il caso italiano che non c’è” (pag. 93).

Sono nata negli anni della guerra, in una grande città, da un matrimonio misto, mia madre era ebrea, convertita al cattolicesimo, dopo le leggi razziali del 1938 e mio padre cattolico. Per tutto il periodo vissuto nei miei luoghi di origine, non ho mai preso in considerazione questo dato di fatto, mai analizzato sia sotto il profilo storico sia sotto quello individuale. L’argomento dei matrimoni misti è stato lasciato in ombra dai miei familiari e forse anche dagli storici, fino all’ultimo decennio. Nel mio recente sforzo di memoria, affiorano atteggiamenti di imbarazzo, di vergogna, di dolore, nel tentativo di affrontare questo scabroso tema, perciò, fin dall’infanzia, credo di aver deciso di lasciarlo cadere nel silenzio. In famiglia era sottaciuto, implicitamente segreto, senza spiegazioni razionali, perché era incredibile quello che era accaduto e stava accadendo, in quegli anni, ed era molto difficile far capire ai bambini che tutto quel cambiamento derivava solamente a causa di ciò che gli ebrei erano, per i loro nomi, per quelli dei loro genitori e dei loro nonni. Gli ebrei diventavano così assolutamente impotenti a dare e a darsi spiegazioni, elemento questo che induce la vera disperazione: non vi era speranza di trovare un senso trasmissibile per ciò che stava accadendo. E poiché “il bambino guarda nello stesso modo in cui viene guardato dalla madre…”(D. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma 1980) credo di essere stata inconsapevolmente invasa dalla paura e dall’angoscia, che mia madre aveva provato e provava per il capovolgimento della situazione sociale e per tutto ciò che riguardava i suoi progetti per il futuro.
Durante gli improvvisi e agghiaccianti risvegli notturni, dovuti ai suoi frequenti incubi, appresi che la mia nonna materna e un fratello di mia madre erano stati deportati in Germania, in un campo di concentramento (più tardi seppi che erano stati deportati ad Aushwitz e lì erano morti), poco dopo l’avvento delle leggi razziali e poco prima della mia nascita.
Soltanto oggi provo vera commozione nel riferire questi fatti, ma fin da allora, quando ne venni a conoscenza, provai un pietrificante terrore e da lì capii che non potevo fare affidamento sulla protezione della mamma, perché era una donna che soffriva molto ed era lei a dover essere difesa dalle sue paure indelebili.
Ricordo il particolare attaccamento di mia madre alla famiglia di mio padre, di origine siciliana, che era poi una devozione, se non una sottomissione, nei confronti delle due cognate, sorelle di mio padre, che l’avevano relegata al ruolo di “ancella”, in famiglia. Per le feste di Natale e di Pasqua era abitudine riunirci in casa di zia A., la sorella maggiore di mio padre, senza figli e, a suo modo, molto affezionata ai nipoti; eravamo in dodici persone a tavola, ma la persona che faceva la spesa e lavava i piatti era sempre mia madre. Sembrava dovesse un tributo di deferenza a quelle persone, che l’avevano accolta in famiglia. Mi dispiaceva molto che soltanto lei fosse destinata in cucina, per delle ore, mentre le altre due zie rimanevano a tavola a conversare. Ma questo era del tutto naturale per lei, che aveva visto ben altro: esautorare i suoi fratelli ebrei del loro statuto di cittadini, la deportazione di parenti e di amici, ancor prima della promulgazione delle leggi razziali, perciò il messaggio che mi ha trasmesso è stato quello dell’accettazione passiva della realtà e una piccola dose di servilismo e compiacenza nei confronti di chi ci accoglie in casa propria. Qualche volta, quando era particolarmente stanca, la mamma si lamentava di questo suo ruolo di cenerentola, ma non avrebbe mai osato opporre la benché minima resistenza, per cambiare lo stato delle cose. Mia madre mi ha insegnato che non si va mai a trovare una persona a mani vuote, ed io ho sempre interpretato quell’atto conformistico di buona creanza, come una sorta di tributo da pagare, una profonda riconoscenza verso chi rivolgeva la propria attenzione a lei e alla sua famiglia. Sembrava che l’attenzione dei parenti e degli amici nei nostri confronti non fosse giustificata da qualche riconoscimento personale, ma soltanto dalla loro magnanimità.
Ricordo con affetto il racconto enfatico e patetico di mia madre di fronte all’album delle sue foto di adolescente, quando descriveva con dovizia di particolari le sue esperienze di lavoro di commessa e poi di cassiera presso un grande magazzino, quando poteva permettersi, come poche ragazze del suo ceto proletario, di trascorrere le vacanze al mare con le amiche, sulla costa tirrenica, nel periodo delle ferie estive, negli anni ’30 – ’35. Questo racconto, sempre uguale e diverso, si ripeteva ogni volta che mostrava le sue foto ricordo a chi veniva a trovarci a casa e solo allora la vedevo gioire, non c’era un’ombra di disagio nel suo viso, ma piuttosto una luce di soddisfazione e di vero orgoglio, perché descriveva se stessa come una ragazza emancipata e generosa, capace di mantenere i suoi genitori indigenti insieme ai due fratelli e ad una sorella maggiore: il padre B.P., cieco, pianista nei cinema del “muto” e patito melòmane, la madre casalinga, E.O., originaria di una famiglia fiorentina di merciai. Sembrava che, dopo questa stagione di grande gioia, sia pure su uno sfondo di dignitosa miseria, costellata da numerose rinunce, fosse stato eretto un misterioso muro, che separava nettamente la sua vita di adolescente da quella di adulta, su quest’ultima taceva, perché contrassegnata dalle vessazioni psicologiche introdotte dalla storia politica e dalla finale tragedia della Shoah, che aveva duramente colpito la sua famiglia e la sua comunità.
Il modello genitoriale dominante nella mia infanzia è stato sicuramente quello di mio padre, uomo forte, alto, bello e fiero nell’uniforme militare di sott’ufficiale dell’esercito, che indossava con autocompiacimento e con convinzione profonda nei principi di obbedienza e di fedeltà alla monarchia, per i cui ideali aveva combattuto nella campagna d’Africa, in Libia, negli anni ’35-’36 e ai quali era poi rimasto fedele, per tutta la vita. Gli avevo attribuito dei poteri di onnipotenza e credevo ricoprisse mitiche cariche di responsabilità al Ministero della Difesa. Il grandissimo e austero edificio, in cui lavorava si identificava con la sua figura e, quando lo osservavo, confermava le mie fantasie di grandezza e di potere attribuitegli: in un edificio imponente può lavorare soltanto un uomo della statura di un re! Al contrario, mia madre mi appariva scialba e disturbata, spesso sciatta e predisposta alla malinconia, di cui, soltanto oggi, colgo e comprendo appieno l’origine.
Mi ricordo che fino all’adolescenza ero definita un maschiaccio sia dai miei familiari che dagli amici, mi dispiaceva un po’ essere una femmina, perché amavo giocare con i maschi ai giochi d’azione e spesso mi ritrovavo coinvolta in risse furibonde tra coetanei, nelle quali le davo e le prendevo, in ugual misura. Mio fratello N., di cinque anni più grande di me, al contrario, era molto riflessivo e incline ai giochi sedentari. Era molto frequente che mi sentissi dire dalla mamma:- tu dovevi nascere maschio e tuo fratello, femmina! Così credo si sia progressivamente radicata la convinzione che, forse, c’era proprio qualcosa di sbagliato in me! Con la pubertà iniziò un processo di involuzione, che evidenziò tutte le mie insicurezze e paure. Mi sentivo molto simile a mia madre anche se mi dicevano che fisicamente somigliavo a mio padre, ricordo che, nei tre anni di scuola media, ho sofferto le pene dell’inferno, per una forma di inadeguatezza, che mi ha accompagnato fino ai 18 anni circa. Forse ero alla ricerca di una figura femminile da idealizzare, che non trovavo in famiglia: l’autorità, tutta esteriore, di mio padre degenerava progressivamente in squallide forme di autoritarismo, da me interpretate come forme di debolezza, ma che generavano in me soltanto paura, arresto del pensiero e adeguamento compiacente alle sue richieste; l’ambivalente debolezza di mia madre era fonte di ansia, di delusione, contrassegnate da mezze verità e da segreti impenetrabili. Tuttavia credo che la mamma abbia rivelato una forza maggiore di quella riconosciutale a suo tempo, costruita in circostanze tragicamente avverse. Infatti ricordo, negli anni ’50, il suo costante e faticoso impegno nel mantenere i legami di amicizia con la comunità ebraica della città in cui la mia famiglia abitava allora, ricordo le visite alla famiglia P., l’attaccamento agli gli zii C., l’amicizia con E. e R. B.. Ero molto piccola, quando la accompagnavo, nelle sue visite pomeridiane, ma capivo benissimo che era felice, rideva, parlava in vernacolo fiorentino e passava in rassegna, in una sequenza di umoristiche parodie, persone e luoghi appartenenti alla comune esperienza di gioventù. Mio padre era del tutto estraneo a queste relazioni, non soltanto perché non ci accompagnava mai nelle visite, ma perché, al rientro a casa, non se ne parlava tanto, come se la cosa non gli facesse particolarmente piacere, perciò si spengeva rapidamente quello smalto di vitalità, che poco prima avevo letto sul volto della mamma.
Cosa doveva nascondere? Di quale colpa si era macchiata? Chi doveva perdonarla?
Erano queste le domande che la bambina di allora si poneva, ma che non osava formulare con lucidità di pensiero, ne’ tanto meno ad alta voce, convertendo piuttosto questa cortina emotiva in una incalcolabile inadeguatezza e smarrimento, che straripavano in fantasie violente contro i miei genitori e contro me stessa. Soltanto oggi ho incontrato l’ autentica forza vitale di mia madre, il suo indomabile spirito di sopravvivenza, espressi a singhiozzo, malgrado tutto e tutti e pagati con un esaurimento nervoso cronico, insonnia (diagnosi permanente del medico della mutua, che le somministrava, in quantità industriale, sonniferi e il farmaco Nesal Baroni), sintomi degenerati, poi, in demenza precoce, presentatasi all’età di 70 anni circa.
La conversione coatta della mamma, per sposare mio padre non deve essere stata propriamente indolore e avrà avuto quasi sicuramente uno strascico postumo, soprattutto alla luce dello sterminio, programmato dal regime nazifascista, nella cosiddetta “risoluzione finale” (1942 Conferenza di Wansee, sobborgo di Berlino, nella quale le autorità naziste progettarono lo sterminio della popolazione ebraica).
Qui e ora, provo a chiedere alla mamma come ha reagito di fronte alla legislazione dell’epoca ed immagino una sua risposta, quella che avrei voluto ascoltare, quando era ancora in vita e che, per una muta complicità, non abbiamo mai attivato. Ecco la sua probabile risposta:

“In primo luogo, l’aver abiurato la mia religione di origine è stato si’ un atto sacrilego, ma condizionato dalla paura di finire in un campo di concentramento e dettato dall’istinto di sopravvivenza. Ero molto giovane, avevo 27 anni e avevo anch’io, come i miei coetanei, dei progetti per il futuro, che rischiavano di essermi negati dal diritto nazionale e internazionale. In secondo luogo, non ho avuto il coraggio di seguire il destino di mia madre e di mio fratello Alfredo; infine ero innamorata di tuo padre e volevo avere dei figli, perché credevo nella vita, che non mi poteva essere negata, nemmeno dall’antisemitismo.
Ma la risposta affettiva è di tutt’altra natura: soffro di un profondo senso di colpa nei confronti della mia famiglia, che ho lasciato a Firenze, in un clima di persecuzione, legittimato dalle leggi razziali; sono caduta in un’ aperta contraddizione con i miei principi morali, che mi dettavano di continuare a sostenere e curare i miei genitori, fino alla fine dei loro giorni. Ho abbandonato al suo destino mio fratello maggiore, che, per sopravvivere, si è nascosto nelle fitte pieghe della malavita, l’ho incontrato poche volte, a vostra insaputa e, infine, a morte avvenuta, gli ho rivolto l’estremo saluto, in un ospizio pubblico, a Bologna. Quando era in vita, non è mai venuto a trovarci, ci sentivamo raramente, per telefono, l’ho sempre tenuto a distanza, perchè temevo che la sua presenza potesse compromettere l’equilibrio della nostra famiglia e che fosse di ostacolo alla carriera militare di tuo fratello N.
Tuo padre era un militare e questa nuova condizione sociale mi aveva riscattato, sia pure per convenzione, da uno stato di emarginazione; ho pagato questo riscatto con il silenzio e con la parziale negazione della mia cultura di origine.
Ancora mi chiedo: l’ebrea rimasta viva è una vera ebrea?
Che cosa mi autorizza a considerarmi ebrea?
Sono molto stanca e credo che la mia vita sia stata dominata dagli eventi, che non ho quasi mai potuto gestire con autodeterminazione, sono stata vinta dalle disgrazie”.
Se queste parole fossero state pronunciate avrei detto:
“Cara mamma, sono orgogliosa di essere tua figlia e ti chiedo perdono per averlo scoperto troppo tardi, ma so che capirai e accoglierai la mia faticosa ricerca di te; ti ho tanto amato ma non ti ho mai raggiunto…perciò ho creduto, ingenuamente, fosse meno doloroso perderti….”. Ora penso che ripercorrere e rivedere una parte della mia vita possa, anche indirettamente, rafforzare il “riconoscimento” della vita di mia madre e dare senso alla mia.
All’ingresso della scuola media, quando avevo 11, 12 anni cominciai a percepire un’atmosfera familiare di claustrofobia, dalla quale cercavo di allontanarmi, ma che cercavo allo stesso tempo come unico e rassicurante rifugio. Non ero sicuramente equipaggiata, non avevo alcuno strumento di orientamento, per conoscere il mondo esterno e per tessere le prime significative relazioni interpersonali. A scuola, non riuscivo molto a socializzare e temevo costantemente di essere emarginata dai compagni e dagli insegnanti, che ritenevo superiori.
Allora scoprii una mia risorsa, quella che mi ha sempre salvato dalle situazioni di ansia: interpretare il ruolo della comica, sdrammatizzare come se tutto fosse una burla, raccontando barzellette, facendo le imitazioni di personaggi noti e le caricature dei professori; funzionava, finchè reggeva la carica di adrenalina! Crescere in una grande città, forse per me, ha costituito un supplemento di sofferenza, nella mia adolescenza, in quanto la paura degli imprevisti, delle distanze da un quartiere all’altro e dei fattacci di cronaca degli anni ’50 ( mia madre non mi risparmiava i resoconti in dettaglio delle cronache giornalistiche sul “biondino di Primavalle”, che aveva ucciso una bambina della mia età; sul delitto di Wilma Montesi…, dilatando le mie infinite paure), si alternavano alle mille curiosità sugli spettacoli teatrali e cinematografici, sulle vie del centro frequentate dai divi del cinema, sulle mostre d’arte e sulle bellezze naturali, monumentali, che vedevo in lontananza, descritte sul quotidiano Il Tempo e sul settimanale Oggi( preziosi frammenti di attualità, che entravano sistematicamente in casa) e percepite come elementi disincarnati, in uno spazio virtuale, ma che, in sostanza, non erano lì per me. Ho imparato a conoscere la mia città, quando mi sono fidanzata nel ’60, a 18 anni, con mio marito, che mi aveva fatto notare, fin da allora, quanto fosse strano che io non solo non conoscessi i luoghi principali della mia città, ma che soprattutto li avessi allontanati dalla sfera dei miei desideri, come terre irraggiungibili, deputate ai soli turisti. Nel 1964, dopo il matrimonio, mi sono trasferita a Pisa e allora, ogni qualvolta tornavo a trovare i miei genitori, almeno tre o quattro volte l’anno, cominciai a visitare la mia città da turista, a vagabondare anche da sola, come un’amante segreta, che raggiunge il suo oggetto del desiderio, dopo un lungo periodo di amore non corrisposto.
Credo di aver assimilato questo stato d’animo della mamma, che conservava il ricordo del rischio sotto forma di fantasma interattivo tra lei e l’ambiente. Fuori di casa c’erano i pericoli e l’unica difesa era quella di restarvi dentro, per ridurre al minimo i rapporti con l’esterno. Ma oltre ai suoi periodici rapporti con le famiglie, appartenenti alla comunità ebraica, la mamma aveva instaurato un buon rapporto umano col medico di famiglia, che l’ ha curata per tutta la sua vita; era un uomo molto flemmatico, paziente, aveva una voce sommessa e calda e ascoltava per ore mia madre, non aveva fretta, forse conosceva la sua storia e la terapia assegnatale era sempre la stessa, almeno per 25 anni, per quel che possa ricordarmi, i farmaci (probabilmente sonniferi) erano tutti prescritti per garantirle il sonno di notte e, a volte, anche di giorno. Perciò, molto spesso, la casa non era poi quel modello di ordine e di pulizia, che avrei desiderato che fosse; cominciai a vergognarmi di questa situazione degradata, quando iniziarono i primi scambi sociali d’inviti con le compagne di scuola e gli inevitabili confronti con le diverse abitazioni. A volte, sopperivo alle sue carenze di donna molto disordinata e sofferente, facendo spontaneamente le pulizie di casa e acquistando qualche piccolo e modesto arredo ( un mobile per l’ingresso: specchio, mensola e attaccapanni, il portaombrelli di ceramica, la cucina economica…) coi miei primi guadagni, ricavati dallo svolgimento di diversi doposcuola a domicilio, presso alcune famiglie benestanti. Provavo solo una grande tristezza per lei, ma non avevo il coraggio di muoverle alcuna accusa, se non quella di specchiarsi dentro di me, di imprimere le sue impronte digitali sulla mia pelle e di chiedermi di essere come lei, sia pure in una forma del tutto inconscia.

Quando ho iniziato la mia prima psicoterapia avvertivo il dolore delle mie multiple personalità, forse, in parte, riconducibili al complesso rapporto con mia madre, infatti, in primo luogo, ho avvertito l’urgenza di parlare di lei e “con lei”, per riconoscermi diversa da lei, nella riconciliazione. Ricordo la descrizione del mio periodo di vita da “amazzone”, quando mi riconoscevo una forza combattiva, mai avuta prima, ma che mi ero intenzionalmente costruita, per mettere a tacere ogni emozione, ogni dubbio ed ogni eventuale indagine retrospettiva e introspettiva; allora, il mio imperativo categorico era: agire molto e pensare poco! Ero riuscita così a costruire un bel muro, che divideva la mia storia personale in due parti: il primo periodo, fino all’età di 22 anni, morto e sepolto nella memoria, il secondo periodo, denso di avvenimenti vitali, quali il matrimonio, la nascita e l’allevamento di due figli, il mio lavoro d’insegnante, le nuove amicizie; il primo periodo riconducibile ad un’area di morte, il secondo ad un’area di vita. Ma questa presuntuosa semplificazione non era attendibile nel lavoro autobiografico, perciò ho provato ad incrociare le due opposte accezioni e ho ritrovato germi di vita in quello che credevo morto e, al contrario, germi di morte in quello che ritenevo vita, nella costante operazione di demolizione di quel muro difensivo, che aveva diviso a metà la mia storia, per lungo tempo, rischiando di comprometterne il senso e di anticiparne la fine ultima, come nella recisione improvvida delle radici di una pianta.
L’ appartenenza ambivalente all’ebraismo e al cattolicesimo non ha facilitato l’approfondimento della mia identità personale, ma ha sollecitato, negli ultimi anni, un urgente bisogno di appartenenza spirituale, che mi ha indotto a frequentare un gruppo cattolico neocatecumenale, presso una parrocchia, per circa un anno e mezzo e, successivamente, dopo un buon lavoro di consapevolezza individuale, mi sono avvicinata alla Comunità ebraica e alla Sinagoga con un certo timor sacro e una tempesta di emozioni. Dalla prima comunità mi sono spontaneamente allontanata, per la mia incapacità ad adeguarmi al suo carattere radicale, gerarchico, fondamentalista, molto esigente nei confronti dei membri e non rispondente al mio bisogno d’identità; nella seconda realtà ebraica, mi identifico, attualmente, per quella parte delle mie origini matriarcali, che stanno tornando alla luce. Ricordo la prima volta che entrai in Sinagoga, dopo accordi telefonici con il Presidente della Comunità, avevo il fiato corto e una profonda commozione: interpretavo la continuità “matrilineare” della fede ebraica. Ho iniziato a riannodare quel filo spezzato dal doppio strappo da mia madre: la mia fuga dalla città dove sono nata con il matrimonio, l’ intenzionale misconoscenza della cultura ebraica di appartenenza.
Per questo, riconosco l’importanza degli stimoli esterni, come l’assidua partecipazione a corsi di formazione frequentati presso un’associazione professionale di insegnanti e la partecipazione alle sedute di un gruppo terapeutico, elementi fondanti della mia nuova esperienza della realtà.
Quest’anno si è presentata, a scuola, l’occasione di elaborare un percorso educativo, per commemorare “il giorno della memoria”, il 27 gennaio, in ricordo dell’abbattimento dei cancelli del campo di concentramento di Aushwitz, nel 1945, da parte delle truppe russe. Dopo uno slancio iniziale di esplorazione dei possibili sviluppi didattici sul tema, dopo un’accurata selezione dei molteplici documenti, raccolti in un corso di aggiornamento, sono stata assalita dal duplice dubbio di non essere in grado di gestire una lezione di storia e di uscire allo scoperto nella mia identità di figlia di un’ebrea. Ma anche questa difficoltà ha costituito un’ulteriore prova, per affermare e per consolidare la mia identità.
Il tentativo di ricostruzione del mio albero genealogico ha agito come un elemento costruttore di spazio tra la mia individualità e la mia origine, tra me e i miei familiari morti, ma anche tra me e i miei simili. Ogni qualvolta leggo i testi sul tema della Shoah, mi sorprendo di fronte alla mia scarsa coscienza civile, maturata nel corso degli studi scolastici e cerco di individuarne le cause sociali, oltre quelle individuali.
Queste brevi schegge biografiche, realizzate attraverso un cammino graduale, mi hanno posto “sul confine” di un’appartenenza tanto desiderata, ma nascosta dal primo silenzio della mia famiglia e negata successivamente dal rischio costante dell’ autocommiserazione, della muta richiesta di particolari risarcimenti emotivi. Sto maturando la convinzione di un’esistenza “sul confine”, al di fuori di ogni appartenenza: come ogni persona aspiro a un luogo, a una dimora, a un riconoscimento sociale, ma restando sempre sul confine, rifiutando ogni forma di radicamento, interpretando, forse, l’essenza dell’ebraismo, e forse, in senso generale, del destino umano.
Questo atteggiamento, a volte, mi procura sofferenza, una condizione conflittuale, determinata dal desiderio costante di inclusione, di integrazione, di riconoscimento ben definito all’interno di ogni gruppo sociale frequentato, ma contemporaneamente avverto il bisogno di starne fuori o almeno sul confine!
Vorrei terminare con una mia poesia che, in questo momento suggella il mio conquistato e nuovo modo di essere.

Avevo costruito una fortezza, in mezzo a tanto deserto,
avevo tessuto cortine di oblio, labirinti di silenzio,
per vivere all’ombra del mio rifugio,
lontano dalle tenebre gravide di morte.
Come l’ annegato affiora sulle onde
Così Il nodo tiranno e misterioso è emerso,
Sulla spinta selvaggia, prorompente
Ha demolito l’orgogliosa diga.
Una capanna di foglie secche, cucite da ragnatele argentee,
è oggi la mia dimora, illuminata dal vento,
riscaldata dalla pioggia, aerata dal sole e
dipinta dai mille e oltre colori della memoria.

Pisa, 5 febbraio 2001

Elisa

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