Questo breve romanzo di formazione contiene la descrizione autobiografica, a distanza di cinquant’anni, di una movimentata vacanza estiva del se stesso bambino di anni dieci, e rappresenta ai miei occhi un esempio molto apprezzabile di “scrittura incarnata”. Spiego subito cosa intendo con questa strana dicitura. Lo spiego citando un altro autore e un altro libro, un classico della letteratura di formazione, Martin Eden di Jack London (ed è curioso, nel groviglio delle mie associazioni mentali, come l’estate del De Luca bambino abbia luogo su di un’isola, mentre il giovane marinaio Martin mi ha fatto compagnia durante una vacanza estiva su di un’altra isola, sperduta nel meraviglioso blu del mar Egeo):
«Mentre il professore parlava, Martin si rese conto che gli venivano alle labbra i versi del Canto degli Alisei […] Stava quasi per sussurrarli, quando si rese conto all’improvviso che l’altro gli ricordava gli Alisei, quelli di nord-est in particolare, che soffiavano costanti, freddi e forti. Era sincero, quel professore, e si poteva contare su di lui, eppure c’era in lui qualcosa d’inafferrabile. Martin avvertiva che non diceva mai tutto quello che pensava, proprio come gli Alisei, che non soffiano mai con tutta la loro forza, ma sempre ne conservano da parte un poco. L’immaginazione di Martin era viva come sempre e la sua mente un archivio di ricordi e fantasie, dove si entrava con facilità e dove tutto era sempre messo in ordine, pronto per venir ispezionato. Qualsiasi cosa gli accadesse a un dato momento, la mente di Martin immediatamente gli presentava associazioni con antitesi e similitudini che, di solito, prendevano forma di visioni. Era una cosa praticamente automatica e la sua forza visionaria lo accompagnava, senza cedimenti, attraverso la vita presente» (London, 1909 – p. 272 della trad. it.).
In questo brano vediamo come Martin, creatura selvatica in via di umanizzazione, autodidatta affamato di cultura, sia ammirevolmente capace di difendersi nello scambio con un professore, un erudito che, si suppone, avrebbe avuto gli strumenti per metterlo cento volte nel sacco. Si suppone, ma le cose non vanno così. Se il romanzo di Jack London è un esempio di scrittura incarnata, il protagonista Martin è un esempio di coscienza incarnata.
Ebbene, vorrei dire che la scrittura incarnata si realizza quando la coscienza riflessiva, il nostro Sé parlante (grillo parlante?) non si oppone più alla sensorialità, all’immaginazione o, come dicono i filosofi, alla coscienza preriflessiva nel suo complesso e non la obnubila più, rivestendola con le brache del “corretto modo di pensare”, appreso nel corso di tutto il processo educativo. Quando ciò miracolosamente accade, siamo di fronte a un essere umano. Il soggetto comincia a usare in un modo creativo tale “corretto modo di pensare” e quando lo usa per entrare in dialettica con l’altra parte di se stesso, la parte percettiva, attiva e immaginativa, egli raggiunge il massimo di sé. Allora, la coscienza riflessiva non divorzia più dai sentimenti, dalle immaginazioni e dalle percezioni, non li spurga del carico indecente della vita vissuta, non se ne difende più ed anzi se ne avvale e, nel prendere tutto ciò a oggetto della propria riflessione, si riempie a sua volta di vita e diventa vera. Questo modo di scrivere, di essere e di pensare corrisponde a un concetto alto di salute mentale, un continuo confronto creativo fra le due coscienze di cui siamo fatti, quella procedurale preriflessiva e quella riflessiva autocosciente, e costituisce l’espressione migliore della presenza a se stessi e al mondo e il prerequisito essenziale per approdare al senso di vivere una vita piena.
La storia del De Luca bambino si svolge sullo sfondo di un silenzioso dramma personale. A dieci anni aveva già sviluppato delle potenti difese psicologiche e un’invisibile intercapedine lo separava da se stesso e dal mondo, per cui mancava acutamente in lui la sensazione di essere in presa diretta con la realtà e la vita:
Ero cambiato in testa e mi sembrava in peggio. Nell’età in cui i bambini hanno smesso di piangere, invece cominciavo. (…) Me ne stavo rinchiuso nell’infanzia, per balia asciutta avevo la stanzetta dove dormivo sotto i castelli di libri di mio padre. (…) All’arrivo dei dieci anni fu collegato il nervo tra il dolore di fuori e le mie fibre. Piangevo e mi vergognavo peggio che pisciare a letto. Una canzone, i trilli di un canarino accecato per cavare di gola più limpida la nota del richiamo, una prepotenza nel vicolo: salivano i fremiti di lacrime e di collera, spingevano fino al vomito. Un vecchio si soffiava il naso, si stringeva i panni addosso sbirciando in alto in cerca di spiraglio, un cane con la coda fra le zampe inseguito dal sasso di un bambino: una dissenteria degli occhi mi faceva scappare in gabinetto.
Il bambino sperimentava un passaggio a senso unico dalla parte viva a quella pensante. La parte pensante riceveva intense sollecitazioni, ma non poteva agire su quella viva, come a tutti è capitato di sperimentare in certi sogni, quando ci troviamo esposti a grande pericolo, ma le gambe non si muovono e la voce si strozza e non esce dalla gola. Il piccolo Erri si sentiva separato da se stesso.
Qualcosa di simile viveva la protagonista di Zoo di vetro, il dramma di Tennessee Williams. Chiusa nel contesto di complicate dinamiche familiare, quella ragazza si era congelata o forse addormentata come Rosaspina. Il tempo trascorreva e la vita le passava accanto.
Ma il piccolo Erri non aveva nessuna intenzione di lasciarsi ulteriormente scivolare nelle sabbie mobili, nelle quali sentiva di avere già messo un piede. Decise di reagire e di passare all’azione, più o meno come il don Chisciotte che tanto lo coinvolgeva, al punto da farlo piangere di rabbia. L’inaspettato incontro con una bambina coetanea gli fornì la possibilità di architettare un piano decisamente sciagurato. L’amicizia che era nata fra i due destava infatti l’invidia di un gruppo di piccoli bulli che percepivano in Erri il bambino diverso, la preda, il capro espiatorio ideale. Il piano di Erri consisté nel non difendersi da quel destino sfortunato; anzi, per essere più sicuro di realizzarlo, egli sfidò i suoi persecutori, ferendone uno con una trappola da lui astutamente allestita sotto la sabbia della spiaggia.
(…) non mi fa paura farmi male, essere ferito. Non mi importa. Il mio corpo non mi sta a cuore e non mi piace. È infantile e io non sono più così. Lo so da un anno, io cresco e il corpo no. Rimane indietro. Perciò pure se si rompe, non importa. Anzi, se si rompe, da lì dovrà venire fuori il corpo nuovo.
E dopo averne prese di santa ragione, fino a svenire, dovette essere ricoverato in ospedale.
Mi svegliai su una branda, nell’infermeria dell’isola. Mamma era vicina e mi scacciava le mosche. Volevo farle un sorriso, ma una fitta alle labbra mi impedì. «Chi è stato, figlio mio?» Non risposi. Mi faceva male da molti punti del corpo, più di tutto la faccia, poi il petto, e vedevo male. «Chi è stato, un uomo?» Volevo dirle: sono stato io.
Il piano eroico (e criminale) del piccolo Erri mi ricorda il piano architettato da De Niro, protagonista del film Taxi Driver. Anche lui viveva vittima del vento freddo del nord; anche lui congelato, affacciato sul mondo attraverso i propri sensi e il proprio cuore, con la vita che passava davanti. Anche lui architettò di rischiare la vita e diventare eroe, sostenuto dall’amore per una sua Dulcinea di turno.
Ricordo anche il caso di un giovane paziente, afflitto dalla stessa malattia. Il suo piano, ad un certo punto, fu quello di buttarsi con il paracadute. Si era convinto che in quel modo sarebbe riuscito a rompere il guscio invisibile che lo separava dal mondo. Frequentò con diligenza il corso teorico di preparazione presso l’areoclub locale, ma purtroppo (o per fortuna) in vicinanza ormai del primo fatidico lancio gli capitò di ascoltare, non visto, l’istruttore che chiacchierava con un collega. Diceva questi che non c’è niente da fare: al primo lancio, tutti i novizi si aggrappano alla botola con la forza della disperazione e non c’è modo per convincerli a gettarsi nel vuoto che pestare brutalmente le loro mani. La vista degli scarponi dell’istruttore lo demotivò irrimediabilmente.
Crescendo, il piccolo Erri si gettò ancora di più nella mischia, appena possibile. Ventenne, si dette anima e corpo alla lotta politica e di nuovo ne prese di santa ragione. Poi fece l’operaio e il camionista, poi si arrampicò sulle montagne… poi arrivò a scrivere con il cuore in mano.
Non sappiamo né quando, né come, ma quello che possiamo certamente dire è che, dopo averlo tante volte colpito e indebolito, un bel giorno il muro invisibile si è rotto, o per lo meno si è aperta una breccia.
alberto.lorenzini(at)gmail.com