Nell’ultima sequenza del “Casanova” Federico Fellini fa danzare Donald Sutherland (che interpreta Casanova) con una marionetta ballerina a grandezza naturale, una statuina animata, da carillon, che simboleggia la compulsione alla conquista femminile che si riduce, in ultima istanza, alla costituzione di una maschera nel vuoto dell’esistenza.
In questo settimo numero della nostra rivista si parla di “maschere”, di azioni di “smascheramento”, di livelli di lettura di modi di essere, di svelamenti…in parole povere di quella particolare zona intermedia dell’esperire umano che si chiama psicoterapia.
Si tratta quindi di metodi, di passaggi attraverso cui…di interpretazioni della natura umana e dei suoi sviluppi. Soltanto la presenza di teorie (visioni del mondo e dell’essere uomo) ci permette di tracciare delle mappe terapeutiche, di ipotizzare possibili sviluppi, di sederci a fianco dell’altro e cominciare a collaborare per un viaggio di conoscenza.

Ci è gradita l’occasione di ospitare uno scritto di Carl Rogers e Nathalien Raskin, redatto da quest’ultimo, che è come un testamento confidenziale della vita e delle opere dello psicologo americano e di chi ha scelto il suo indirizzo in psicoterapia. Gli aspetti fondamentali della Psicoterapia Centrata sul Cliente vengono raccontati nel loro farsi, in quell’ “andar camminando” che è sempre stato lo stile inconfondibile di Rogers e della Comunità rogersiana. Dallo scritto risulta, al di là di ogni ragionevole dubbio, il percorso di natura scientifica, e quindi sperimentale, dell’Approccio Centrato sulla Persona. In tempi in cui la legittimazione della psicoterapia (non soltanto della psicoanalisi) ha subito una serie di critiche sembra quasi d’obbligo, anche se è poco rogersiano, dovere ancora una volta testimoniare del “pieno essenziale” delle teorie e delle pratiche Centrate sulla Persona.
Al posto di una teoria che, per quanto interessante, ben pochi riscontri ha poi nella considerazione della pratica e dei suoi sviluppi, Rogers ci porge un insieme ragionato e sensato di pensieri, di riflessioni e di sentimenti, che costruiscono la scena di un setting rispettoso e attento ai movimenti del cliente (la parola cliente è mutuata dall’inglese, forse in italiano non ha il medesimo significato, ma serve a istituire una parità di dignità e di valore alla diade psicoterapeutica). Un setting altresì molto attento a non considerare come efficaci i “falsi movimenti” di un terapeuta intento più a costruire una giustificazione della teoria a cui si riferisce che allo stato “fenomenologico” della persona che ha di fronte.
Rogers ha, tra i primi, grande attenzione al postulato che “non è la psicoterapia che cura, ma lo psicoterapeuta”, sostanziando questo apparente paradosso di vita professionale vissuta con molta attenzione. Rimandiamo alla nota introduttiva altre e maggiori informazioni sull’articolo.
Dello scritto sarà fatta copia monografica a stampa, costume che inizia ora per continuare con altri contributi altrettanto significativi.

Le basi dell’analisi transazionale sono illustrate, in maniera semplice e piana, quasi una cornice per un approfondimento successivo, da Anna Emanuela Tangolo, che esemplifica, nella storia del fondatore della disciplina, Eric Berne, un passaggio antesignano, o comunque coevo, da una teoria psicoanalitica tradizionalmente centrata sulla teoria delle pulsioni, ad un mondo di personalità che ha nell’Io e nell’altro (e nelle transazioni reciproche) la sua visione della crescita e dello sviluppo dell’essere umano.
Con Berne siamo quindi ad un primo ed importante gradino nella trasformazione della psicoanalisi freudiana classica in teoria della interpersonalità e, in seguito, dell’intersoggettività.

E, sempre a proposito di maschere (maschera può essere inteso come forma di simulazione della propria identità, ma anche come forma di isolamento e concentrazione, per un ampliamento della conoscenza di se stessi) costituiscono un inizio di un interessamento della rivista ai metodi di azione (e a quelli teatrali in particolare, unitamente all’utilizzo delle procedure dei mezzi dell’arte) e alla loro applicazione nella psicoterapia.
Particolarmente significativa a tale proposito è l’intervista a Walter Orioli, teatroterapeuta, uno dei fondatori della disciplina in Italia. In maniera quasi didattica Orioli ci fa vedere il progressivo passaggio di discipline specificatamente teatrali a paesaggi di natura psichica, con l’insieme di accostamenti e trasformazioni che avvengono su di un attore che fa del personaggio non una maschera tecnica e di finzione in sé e per sé, ma una transizione alla conoscenza di se stesso, integrando sulla scena i nuclei scissi della nostra personalità.
In seguito ci riproponiamo di aggiungere a questo contributo altri apporti che ci permettano di avere un’ampia informazione ed idee costitutive più solide su di un terreno di per sé affascinante ma che, proprio per la sua duttilità derivante da una disciplina non perfettamente codificata, si può prestare ad approcci superficiali o alla moda (sarebbe il peggior servizio fatto al teatro e alla terapia).

Nel settore della rivista che dedichiamo alle recensioni e che inauguriamo con questo numero siamo molto lieti di riportare anche la recensione di Alberto Luchetti al libro “Il buon uso della depressione” di Pierre Fédida.
Questo libro ci introduce ad un concetto particolarmente illuminante in psicoterapia: la “depressività”: un sostanziale apporto contro il riduzionismo farmacologico. Lo stesso Luchetti ci spiega in proposito, interpretando il pensiero dell’autore:
“Lo stato depressivo, che insorge nelle zone essenziali e fragili della vita psichica, che sono la comunicazione e il senso, coincide con lo scacco della depressività, intendendo per depressività l’acquisizione di uno schermo contro gli stimoli che assicuri protezione, equilibrio e regolazione della vita psichica, permettendo di mantenere uno scambio con l’ambiente umano senza subirne gli effetti emozionali, troppo discordanti o violenti.
La depressività sarebbe cioè la capacità di apertura/chiusura al contatto, la capacità di ritmo, di risonanza e di regolazione interna degli eccitamenti, di interiorizzazione di una durata”.
In questo contesto lo stato depressivo si sposta dall’esclusivo possesso di una patologia che intende la malattia come altro da me ed entra nel campo della storia di vita, all’interno del quale i movimenti di natura psicoterapeutica hanno il potere di incidere sul modo di essere degli individui di fronte all’esistenza, senza nulla togliere, con un estremismo di natura infantile, alla possibilità e al supporto che possono avere gli psicofarmaci nelle fasi acute.

Nella rubrica “sceneggiature della psiche” chi scrive queste note editoriali parla di Dolls, del regista giapponese Takeshi Kitano, uno dei rari esempi contemporanei di quelli che furono i grandi e completi uomini di cinema come Ejsenstein o Kubrik. Autore poliedrico, autentico imprenditore di se stesso, sia in senso artistico che industriale, Kitano ha spaziato in molti generi cinematografici, dalle storie di gangster a questo film poetico, dove l’impossibilità dell’amore viene raccontata come la conseguenza dell’ascolto delle sirene delle convenzioni, del potere, di un’alienazione scambiata per devozione e per senso della vita. Sono le maschere, le “bambole” che si muovono, fissando la vita in una coazione a ripetere senza senso, da cui soltanto la morte può, in una dinamica quasi romantica, costituire l’atto liberatorio, confinato, in ultima analisi, nella vita di finzione delle marionette che chiudono con un finale “definitivo” le storie raccontate.

Giovanni Lancellotti psicologo-psicoterapeuta

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