Nella pièce teatrale “Guerra” il regista Pippo Del Bono mette in scena un’azione che può essere significativa per introdurre il numero di questa rivista. Nel mezzo di una cena, i cui commensali hanno i tratti salienti della normalità comune, si sviluppa un processo trasformativo che li fa diventare mostri; si trasformano in “Freaks”, mutano le loro caratteristiche corporee, attraverso la maestria di attori “fisici”, deformano le loro proporzioni e i loro movimenti, lo spazio teatrale diventa una dimensione anarcoide e invivibile.
I mostri che sono dentro di loro, per dirla con una delle ultime canzoni di Giorgio Gaber, sono usciti fuori, sono entrati nella dimensione dell’altro, nell’interpersonale, nella dimensione costitutiva dell’Io sociale, nella metafora teatrale della guerra, come esito di un terreno di coltura antropologico, retaggio dell’uomo.
Questo numero della rivista si occupa, a suo modo e nelle sue forme, di condizioni in cui si manifesta la violenza, dal nucleo cellulare della famiglia o dalla diade io-tu (forse sarebbe meglio utilizzare i termini di winnicottiani di me-non me, per indicare, arbitrariamente rispetto all’area semantica originaria, un altro che riceve, nel caso della manifestazione della violenza distruttiva, tutte le caratteristiche di un’estraneità pericolosa), fino alla distruttività di gruppo o di massa, istituzionalizzata, che fa parte dell’humus sostanziante tutte le guerre.
Gli articoli che seguono sono un primo tentativo, ed un’espressione cui faranno seguito altre, di comprendere (nel senso di tenere dentro e insieme) il fenomeno della distruttività umana, della violenza esplicita ed interpersonale, che dissacra il corpo e la persona intera dell’altro, e quel fenomeno impalpabile, inosservato, chiuso nelle pieghe di una vita pubblica inespressiva, “normale”, della costrizione psichica, della designazione della vittima, colpevolizzata dal sistema familiare, che stravolge il ruolo del persecutore, con effetti devastanti sull’identità del membro più fragile e più sofferente.

In particolare gli scritti di Mariangela Bucci Bosco e Anna Emanuela Tangolo (dal punto di vista di un’esperienza di formazione di gruppo e di psicoterapia individuale) esprimono il contatto con la pratica della violenza all’interno delle mura “gelose” della famiglia o di situazioni similari, e raccontano delle forme di violenza, sottile e privata o pubblica e conclamata, che caratterizzano soprattutto, ma non soltanto, i rapporti coniugali e le relazioni genitoriali e filiali.
Ed è soprattutto di donne che si parla, madri, mogli e figlie.
Attraverso percorsi di lettura rogersiani e analitico transazionali vengono presentati “progetti” di cura che, nell’ambito psicologico, possono aiutare i feriti nell’anima a ritrovare un senso costruttivo ed emancipativo dell’esistenza.

La comunicazione di Antonio Cecconi, che è stato vice direttore della Charitas italiana, illustra le attuali condizioni d’attuazione del servizio civile, forma istituzionalizzata delle manifestazioni di dissenso verso la concezione militare della soluzione dei conflitti e della mentalità guerresca che ne è alla base.
Qua e là traspaiono dalle parole dell’articolo echi di Don Lorenzo Milani, di Aldo Capitini, di Danilo Dolci, degli uomini e delle donne che, con la pazienza della non violenza hanno tolto all’obbedienza le caratteristiche della virtù.
Lo scritto di Antonio Cecconi è, senza essere stato programmato per questo, drammaticamente attuale, data la situazione politica mondiale, che richiederebbe uno scenario “epocale” di servizio civile e non migliaia di soldati schierati a battaglia.

I contributi di chi si è assunto il compito di scrivere questa introduzione, riguardano due aspetti della violenza politica, che pensavamo relegati in un periodo lontano, e comunque sostanzialmente estraneo come esperienza diretta di conoscenza, per le generazioni nate dopo la seconda guerra mondiale: le incarcerazioni illegittime e la scomparsa (cioè l’assassinio) dei dissenzienti nel film di Bechis (in questo caso si tratta dell’Argentina della dittatura militare) e dei massacri delle popolazioni civili ed inermi nel corso degli eventi bellici che hanno portato alla divisione cruenta della Jugoslavia.
Entrambi gli articoli derivano da esperienze sul campo, se così si può dire: l’una per una frequentazione cinematografica che data dall’infanzia e che vede, alla maniera di Majakovskij, il cinema come “ragione di vita” (inteso come mezzo di possibilità comunicative che smuovono ciò che sta “in interiore homine”, anche se questo non basta per passare alla prassi), e l’altra per un breve viaggio nei luoghi dell’orrore, per venire a contatto con i superstiti, attori oscuri e preziosi di una società civile che vuole essere regolata dai principi e dai fatti della tolleranza, del rispetto della vita, della creazione di condizioni di progresso e di sviluppo per tutti, di messa al bando di un odio che non deve trovare legittimazione.
Anche in questi due brevi articoli viene espresso un tentativo di due diverse uscite, in “razionalità” psicologica, dagli avvenimenti: la prima (per la ricerca della vera origine) tesa a ristabilire il principio basilare dell’Io, che è quello dell’identità (il regista gioca questo principio non sul livello della storia familiare, ma su quello della storia politica), e la seconda tesa ad interpretare, a dare senso, all’orrore della violenza della guerra contro gli inermi in tempi di civiltà, per smascherare le paure paranoiche, per fare strada all’anima junghiana e alla progressiva presa di terreno freudiana dell’Io nei confronti dell’Es.

Per ultima, ma non ultima, chiude l’assetto di questo numero della rivista la presentazione del libro di Pierangelo Berrettoni La logica del genere Ed. Plus Università di Pisa, offertaci dall’autore stesso.
L’opera costituisce un saggio complesso e articolato che, partendo dagli interessi linguistici dell’autore, spazia su argomenti intellettuali molto ampi che convergono sull’origine “logica”, in senso filosofico, della differenza di genere e su una particolare caratterizzazione, nei riguardi dell’omosessualità, che sfata il mito dell’accettazione del fenomeno omoerotico all’interno della cultura greco-classica.
Ringraziamo il Professor Berrettoni per la sua cortesia.

Giovanni Lancellotti psicologo-psicoterapeuta

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