L’insorgenza ed il permanere di una sindrome cronica, quale il diabete in un bambino o in un adolescente, all’interno di una famiglia determina inevitabilmente una serie di modificazioni nell’ambito del sistema familiare; in particolare, all’interno della coppia genitoriale.
Il bambino diviene il fulcro della famiglia ed i ruoli degli altri componenti si strutturano in base a ciò.
Il diabete, sia dal punto di vista pratico (date le peculiari esigenze della prassi terapeutica quotidiana), sia dal punto di vista psicologico (sulla base dei vissuti di ansietà e conseguentemente di controllo che scatena), viene a condizionare pesantemente la vita dell’intera famiglia.
Le tappe dell’approccio familiare al diabete sono scandite, in un processo non univoco né oggettivabile, da fasi caratterizzate da disagio, a volte profondo:
- angoscia, conseguente alla prima diagnosi: profonde tensioni dei genitori, assorbiti totalmente dagli interrogativi per il futuro;
- negazione della diagnosi, con atteggiamenti di ricerca di soluzioni alternative;
- tensioni e disagio nei genitori per l’ipotesi di ereditarietà: senso di colpa, risentimento verso il coniuge e la sua famiglia, sentimenti di vergogna;
- reazione regressiva della madre: identificazione con il figlio e ritiro degli investimenti affettivi dalla famiglia e dal mondo esterno; concentrazione affettiva sul figlio; ciò acuisce le tensioni di coppia;
- rigore estremo nel controllo del diabete: affidamento ad un solo coniuge (madre), esclusività del rapporto con allontanamento del coniuge e degli altri familiari; altro problema di coppia;
- meno attenzioni agli altri figli: rivalità e gelosia;
- iperprotezione e permissivismo: problemi a sviluppo dell’autonomia e dell’autostima;
L’ambito familiare diventa teso, ordinato secondo equilibri precari e spesso forzati, saturo di valenze ansiogene.
Vacilla la serenità familiare, ove esistente, o si aggrava un equilibrio già compromesso.
La delega ad un solo genitore ha pesanti conseguenze, di ordine emotivo, organizzativo, pratico.
Tuttavia la reazione del genitore varia in base alla sua struttura di personalità ed al suo livello di autostima. Il genitore “sicuro” reagisce meglio di quello “inadeguato”.
L’influenza dei fattori familiari sul controllo del diabete è stata oggetto di vari studi.
Ryden ha paragonato le famiglie dei bambini con controllo metabolico ottimale con quelle di individui con scarso adattamento psicologico; è stato documentato che, in queste ultime, i genitori dimostrano scarso apprezzamento reciproco, non sono d’accordo sulla cura del diabete e non incoraggiano l’indipendenza decisionale dei loro bambini. In tali famiglie le madri erano insoddisfatte ed i bambini meno responsabili e meno sicuri.
Miller-Johnson ha evidenziato come uno scarso controllo metabolico fosse associato ad un aumentato conflitto figlio-genitore. Viceversa, Weist ha scoperto come un elevato interessamento della famiglia verso i bambini e gli adolescenti diabetici, e la capacità di esprimere la loro disponibilità, era positivamente correlato ad un buon controllo metabolico.
Anderson ha preso in esame tre gruppi di adolescenti con un controllo metabolico buono, discreto, scarso. Dal confronto è emerso che gli adolescenti con un adeguato controllo erano incoraggiati dai genitori ad essere maggiormente indipendenti e nelle loro famiglie erano presenti meno conflitti, erano meno ansiosi ed avevano un’immagine di sé migliore.
Minuchin ha evidenziato che le caratteristiche più comuni delle famiglie con pazienti diabetici e con sintomi psicosomatici erano: l’invischiamento, l’iperprotettività, la rigidità e la mancata risoluzione dei conflitti.
Overstreet ha osservato l’effetto dei diversi ambiti familiari e ha evidenziato che, paragonate a gruppi di controllo, le famiglie con un bambino diabetico mostravano minore espressività. Nelle famiglie non tradizionali (“single” o matrimoni misti), dove erano presenti bambini con diabete, vi era minore coesione, esistevano maggiori difficoltà comportamentali e in controllo metabolico peggiore.
In un’altra ricerca condotta da Liakopoulou, è stato evidenziato come una forte emotività materna possa essere correlata ad un alto valore dell’HbA1c (emoglobina glicosilata), come pure gli eccessivi dettagli materni nello spiegare al diabetologo la malattia del figlio correlata con alta HbA1c.
Particolare interesse è stato dedicato alla possibile relazione fra controllo metabolico e fattori psicologici.
Dumont ha dimostrato che i conflitti familiari ed i bassi livelli di organizzazione ed espressività familiare erano associati ad una ridotta capacità sociale nei bambini, a maggiori problemi comportamentali ed a ricoveri ricorrenti per chetoacidosi diabetica. È stato, inoltre, documentato che esiste una relazione tra cattivo controllo metabolico, elevati livelli di stress e ridotte risorse economiche familiari.
In conclusione, dalle evidenze citate, risulta che uno scarso controllo metabolico è associato ad una famiglia disorganizzata, che funziona male, che non esprime facilmente le emozioni e che non dà un sostegno continuo al proprio bambino diabetico.
Esiste una correlazione tra scarso controllo glicemico e basso livello socio-economico.
Inoltre, i bambini e gli adolescenti con scarso controllo hanno una maggiore probabilità di manifestare difficoltà emotive e comportamentali, disturbi alimentari e problemi nell’adesione alle norme terapeutiche, oltre ad un aumento di ricoveri ospedalieri e della chetoacidosi diabetica.
Tuttavia, qualche volta è difficile sapere se i problemi familiari siano la causa o il risultato dei problemi esistenti con il diabete.
Le modalità comportamentali delle persone, determinate dalla loro personalità e formazione, possono condizionare anche il loro atteggiamento nei confronti del diabete in ambito familiare.
Se i problemi psicologici sono affrontati correttamente, la gestione del diabete nel suo complesso risulta un po’ più semplice.
Il fattore più importante per un bambino diabetico, in funzione di un suo buon equilibrio a lungo termine, è rappresentato da un ambiente familiare sano dal punto di vista psicologico.
Un bambino con un certo equilibrio ha possibilità maggiori di diventare un adulto responsabile che si prende cura della propria salute.
Questi bambini hanno bisogno di una struttura stabile in cui vivere e di un approccio coerente e fermo, senza troppe costrizioni.
I bambini diabetici devono, comunque, nei diversi aspetti di cura che la malattia impone, sviluppare la propria indipendenza fin dalla più tenera età. Soprattutto hanno bisogno di calore, affetto e tempo impiegato in attività positive e gioiose.
Il diabete rappresenta un’arma ideale con la quale i bambini molto piccoli possono manipolare i propri genitori; è importante che essi sappiano del pericolo a cui vanno incontro e facciano quanto prima i debiti passi per evitare che ciò accada.
Pur auspicando l’autonomia e una certa indipendenza del bambino, nella prima fase di assestamento dopo l’esordio risulta indispensabile per i genitori abituarsi ad esercitare un controllo della situazione, che preveda, a livello pratico, la gestione di dati inerenti l’equilibrio glicometabolico, il dosaggio dell’insulina, l’assunzione di alimenti.
Tale complessa funzione può indurre nel genitore un conflitto interiore: da un lato, consapevole che le sue cure sono necessarie al figlio, tende ad assumere atteggiamenti rigidi e normativi, dall’altro, in alcune situazioni, non riesce a tollerare la sofferenza del bambino ed il proprio senso di colpa.
Nei bambini al di sotto dei sei anni il confine tra realtà e fantasia non si è ancora nettamente definito e questa caratteristica, nella nuova situazione creatasi con l’esordio del diabete, può favorire dei vissuti particolarmente traumatici delle cure e degli agenti delle cure.
La mamma, che generalmente è il genitore designato a somministrare l’insulina, può facilmente essere percepita dal bambino come una figura che non protegge dal dolore, infligge punizioni e per questo può assumere un ruolo negativo alterando l’interazione tra lei e il bambino.
Offrendo al bambino la possibilità di rappresentare, con una modalità attiva, tramite il gioco, le situazioni delle cure mediche più invasive (esame della glicemia, iniezione, prelievi, ecc.), egli può affrontare più serenamente il diabete. Modalità attiva che diventa “ruolo attivo” nel corso della somministrazione dell’insulina, ad esempio spingendo lo stantuffo della siringa. Inoltre, è sorprendente come i bambini accettino rapidamente l’iniezione quando realizzano che è inevitabile.
Nonostante le proposte delle “strategie tramite il gioco”, molti bambini odiano il loro diabete, in parte quale riflesso dell’atteggiamento dei propri genitori, in parte perché vivono il diabete come una punizione. È possibile modificare l’atteggiamento dei genitori e dei bambini, nei confronti del diabete, cominciando a parlarne quanto prima.
Ma per poterlo gestire in maniera appropriata da adulti, essi devono sentirlo come parte della propria vita, senza risentimenti, ed imparare a vivere in armonia con esso.
È in questa giovanissima età che si forma l’impostazione mentale nei confronti del proprio futuro. In questo modo si fissano le premesse per un graduale processo di assunzione di responsabilità e di auto-gestione del diabete, nel contesto di un adeguato supporto familiare.
È quindi importante evidenziare come anche i genitori debbano compiere un lungo cammino, per attuare il passaggio “dalla cura e tutela del corpo del figlio” all’acquisizione graduale di una nuova realtà: il figlio deve imparare ad avere cura di se stesso.
Un genitore responsabile e ben intenzionato realizzerà rapidamente che la salute a lungo termine di suo figlio dipende dal raggiungimento di letture soddisfacenti delle glicemie. Questo concetto porta spesso il genitore ad esercitare un maggior controllo sulla vita del bambino, peraltro da questi accettata.
Comunque, potranno evidenziarsi svariati problemi a breve ed a medio termine, con bambini che regrediscono (stare in casa con la mamma), si spaventano di fronte a situazioni nuove e difficili (compiti scolastici e vacanze) e, forse, diventano tristi ed introversi (poche amicizie).
A lungo termine le difficoltà del bambino nell’acquisizione dell’indipendenza, probabilmente da ascriversi ad un genitore “ben intenzionato”, che desidera mantenere sotto controllo il figlio, in maniera da non fargli subire un danno a lungo termine, determinerà uno stato conflittuale nel futuro. In un primo momento accondiscendente, il bambino potrà ribellarsi, con conseguenze ingestibili, o acconsentire al controllo da parte dei genitori, così da rinviare la propria adolescenza e determinare successivamente problemi, dovuti all’incapacità a sviluppare gradualmente una personalità individuale e sicura di sé.
In questa ottica appare necessario che, a fianco della terapia medica e delle attenzioni in senso lato per la situazione organica del diabetico, il disagio provocato dalla difficoltà di accettare attivamente il diabete, anche per i genitori, trovi spazi adeguati per esprimersi, essere accolto ed elaborato.
Funzione dell’equipe diabetologica appare allora, in questo contesto, anche quella peculiare dell’agevolazione di un processo evolutivo, che faciliti ed accompagni il diabetico e la sua famiglia (in particolare, i genitori del bambino o dell’adolescente) ad avvicinare ed elaborare i propri vissuti, al fine di approdare a quella convivenza pacifica, il più possibile serena, con la condizione diabetica.
Ma in che modo, in concreto, l’equipe diabetologica può tentare di svolgere anche questo ruolo di facilitazione dell’accettazione attiva del diabete?
In primo luogo, mediante una corretta e continua attività di educazione sanitaria del paziente diabetico e della sua famiglia; la funzione del medico e dei suoi collaboratori, in questo ambito, deve essere quella dell’educatore, del formatore permanente, di colui che fornisce al paziente ed ai suoi familiari l’informazione più completa e la continua educazione più appropriata sulla condizione patologica vissuta.
L’educazione sanitaria rappresenta lo strumento privilegiato per giungere a queste due tappe fondamentali nel processo di accettazione attiva del diabete: sapere (conoscenza) e saper fare (autonomia).
L’ulteriore tappa è rappresentata dal saper essere diabetici, cioè dal convivere pacificamente e consapevolmente con il diabete.
In questo ambito, l’equipe diabetologica deve svolgere proprio il ruolo di facilitatrice di un processo di digestione psichica della condizione diabetica; un ruolo che favorisca la più agevole definizione di quella nuova immagine di sé in cui il paziente ed i suoi familiari possano riconoscersi.
Questa funzione agevolatrice si sostanzia in due aspetti fondamentali:
– da un lato un ruolo di sostegno emotivo, che tenda a ridurre le dipendenze dagli altri e l’iperprotezione, che avvalori le capacità personali e le pari possibilità in ogni ambito sociale, che eserciti il controllo e le attenzioni dietro le quinte, che favorisca l’autocontrollo e l’autonomia;
– dall’altro, un ruolo di rinforzo dell’autostima, che stimoli le capacità di realizzazione in tutti i campi e che favorisca la partecipazione sociale.
Con un linguaggio appena figurato, può dirsi che si tratta di un ruolo maieutico, che cerchi di agevolare la nascita di una nuova realtà esistenziale del soggetto e dei suoi familiari.
Il ruolo maieutico è rispettoso della realtà dell’altro; rispetta i tempi ed i modi della persona, accettando anche il limite della parziale riuscita, od addirittura dell’insuccesso, quali eventualità connaturate alla precarietà della condizione umana.
Si tratta di una modalità di accettazione, non di iniziativa; il paziente ed i suoi familiari, in questo loro personale percorso, vanno accompagnati, non guidati.
Questo modo rispettoso di stare con l’altro si configura in un ascolto empatico della realtà del paziente, che trova eco nei principi della psicologia umanistica delineata da Carl Rogers.
Essere con il paziente e con i suoi familiari in questo modo significa lasciare da parte i propri punti di vista, per entrare nel mondo dell’altro senza pregiudizio.
In estrema sintesi, si tratta di essere “empatici”. Ascolto e comunicazione accurata si fondono in un modo di essere con il paziente ed i suoi familiari, che a buon diritto può definirsi empatia.
Si tratta di un processo attivo, in cui ci si sforza di entrare nel mondo privato delle percezioni dell’altro; si cerca di essere sensibili al susseguirsi dei significati, così come sono dall’altro sentiti e vissuti.
L’empatia, questo ascoltare e comunicare di tipo attivo e sensibile, rappresenta una delle più potenti forze di cambiamento e crescita terapeutica, persino quando è diretta ad un particolare ambito della vita, come quello dell’accettazione attiva del diabete.
Questo perché un paziente od un suo familiare che si trovi ad essere accuratamente compreso da un ascoltatore sensibile ed empatico, può iniziare ad ascoltarsi con più cura ed a sviluppare una migliore comprensione di se stesso.
In tal modo, il diabetico e la sua famiglia possono essere veramente facilitati a trovare il proprio personale modo di convivere pacificamente con il diabete.
Purtroppo, l’empatia non sembra ancora un modo di essere particolarmente apprezzato e considerato in ambiente medico. A questo proposito, riporto alcuni brani tratti da un articolo, titolato Il segreto del buon medico si chiama empatia, pubblicato alcuni anni or sono dal professor Gianni Bonadonna, medico oncologo operante presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano:
“I moderni clinici … mostrano solo un tiepido interesse per questo fenomeno quasi magico (l’empatia ndr). Prediligono il distacco, l’equanimità … Eppure l’empatia è la base delle qualità umanistiche del medico e dovrebbe costituire la cornice entro la quale operano i professionisti della salute … Le scuole di medicina rimuovono l’empatia dagli studenti perché li portano dietro le quinte, cioè nel corpo dei pazienti.
All’università insegnano la scienza e quindi il distacco. A questa barriera della comprensione umana i medici in seguito frappongono tra loro e i pazienti la corazza dell’orgoglio e la fortezza di una scrivania. Durante il tirocinio imparano a mascherare i sentimenti, o peggio a negarli … È a questo punto che lo studente impara ad indurirsi nei confronti dell’empatia, a vedere piuttosto che ad ascoltare. Così la medicina contemporanea: se allontana i clinici da se stessi, li spinge a contemplare solo le immagini delle strutture corporee. Ma le radiografie e gli elettrocardiogrammi non rivelano la mente e lo spirito del paziente. Tutto diventa impersonale. Si espone il caso clinico, non si parla della persona;… una maggior disponibilità al colloquio potrebbe costituire la chiave per sviluppare l’empatia, poiché dialogando si impara a condividere esperienze e sentimenti … Alle soglie del terzo millennio, mentre trionfano i computer, il nuovo rapporto medico-paziente richiede più empatia che equanimità“.
Stefano Paolo Fratini
E-mail: sfratini@guarducciballerini.com
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